Babbo Natale esiste e, almeno a Istanbul, spara con il kalashnikov.
L’attentato che ha colpito questa notte un noto locale di Istanbul, causando fino ad ora più di 40 vittime e un numero imprecisato di feriti, è solo l’ultimo di una catena di durissimi fatti di sangue che ha sconvolto la Turchia di Erdogan nel 2016. Il bilancio complessivo di questo annus horribilis della Turchia supera abbondantemente le 1000 vittime cadute sotto gli attacchi di un terrorismo a due facce: quella dell’estremismo kurdo del Tak, braccio armato del Pkk, e quella dell’estremismo armato di matrice fondamentalista islamica.
Nell’imminenza dei fatti non è ancora chiara la matrice di questo ultimo attentato che, lo ricordo, segue di appena una ventina di giorni il doppio attentato allo stadio di calcio di Istanbul, attribuito, in maniera secondo me non del tutto chiara, al terrorismo di stampo kurdo. Sempre in questo mese di dicembre, su di un altro fronte politico, deve registrarsi l’atto simbolicamente forse più emblematico di questa “discussione” a colpi di bombe e mitra che sta insanguinando la Turchia: l’uccisione dell’ambasciatore russo ad Ankara il 19 dicembre.
Per questa strage di Capodanno le modalità operative e il tipo di bersaglio portano, in queste ore immediatamente successive ai fatti, a seguire la pista del terrorismo islamico “siriano” (Daesh-Isis e dintorni) rispetto a quello kurdo. La lotta armata kurda che fa riferimento al Pkk interpreta sé stessa come movimento di guerriglia anti-turca e quindi predilige bersagli istituzionali come esercito, uffici pubblici e polizia. Il “modello Bataclan” seguito in questo caso non è conforme a questo spirito. L’assenza, o il forte ritardo, della rivendicazione sembra rappresentare uno stilema classico delle azioni di Daesh in Turchia.
Viene lecito chiedersi quale sia la posta in gioco per questa discussione sui generis. Negli attentati si tende a focalizzarsi sul fatto specifico trascurando gli elementi di quadro: in questo caso, per dare un minimo di spiegazione al gesto, occorre guardare al contesto regionale. La “battaglia di Aleppo” e la tregua che ne è seguita sono state la rappresentazione plastica di un mutamento che si sta dipanando da alcuni mesi sotto la cenere dei delicati equilibri del teatro medio-orientale, almeno dal fallito golpe turco di luglio. Ad Aleppo hanno “vinto” il governo di Bashar al-Assad, la Turchia e la Russia, con la fattiva collaborazione dell’Iran, e hanno perso Daesh(Isis), le fazioni anti-Assad (soprattutto quelle più fondamentaliste) e gli stati del Golfo, sostenuti da USA e UE. Il fatto che la tregua regga dice a tutti gli attori del gioco che non si tratta di una mera presa di vantaggio di tipo militare sul campo ma che è un fatto politico. Siria, Turchia, Russia ed Iran hanno trovato un modus vivendi comune che consente loro di giocare la partita del Golfo e dintorni e anche di segnare goal importanti.
Ago della bilancia di tale ribaltamento delle sorti del conflitto siriano è stata la Turchia, accusata di aver repentinamente fatto venire meno il supporto logistico che, in tempi passati, aveva prestato all’islam ultra-radicale siriano, in cambio di uno status di potenza regionale che le consenta mano libera contro i kurdi ai suoi confini. Un contributo importante è venuto da Russia ed Iran. La prima sponsor di un accordo fra la Turchia sunnita e l’Iran sciita, in chiave anti-saudita e USA; il secondo disponibile ad un tale accordo oltre i limiti della propria confessionalità religiosa.
Da questo nuovo assetto Daesh(Isis) esce sconfitto e decisamente preoccupato. Sembra essere finito quel benefico stato di caos che gli ha permesso conquiste territoriali e sociali e lo hanno portato alle soglie della costituzione di uno pseudo-stato islamico nel cuore del Medio Oriente. Non stupisce, quindi che cerchi di mettere in difficoltà il neo-sultano di Istanbul sia sul fronte interno che su quello internazionale.
Ci sono però altri sconfitti ad Aleppo che cercano vendetta e salvezza: quel fronte che un tempo si chiamava Al Nusra e che oggi si fa chiamare Jabat Fatah al Sham, le cui ambizioni di conquistare al fondamentalismo la Siria sono state frustrate dall’accordo turco-russo-iraniano. Questi signori, ai quali le petro-monarchie del Golfo – sostenute dagli USA di Obama – hanno sempre guardato con benevolenza, sperano di combattere altre battaglie. Il tira e molla devastante nell’evacuazione di Aleppo è imputabile in massima parte al loro tentativo di salvare i propri miliziani intrappolati per trasferirli sani e salvi nella zona di Idlib, la prossima Aleppo, nella quale sperano di non fare la stessa fine ingloriosa.
Anche loro hanno un peloso interesse a mettere in difficoltà Erdogan e i suoi nuovi amici. Nel momento in cui molti di voi leggeranno queste note la matrice di questo capodanno di sangue in Turchia sarà probabilmente più chiara ma, in attesa di lumi che forse non verranno, io un’occhiata a questa pista non-Isis la darei.
Nel frattempo il massacro di Istanbul chiude un 2016 sanguinoso e apre un 2017 che purtroppo si appresta a non essere da meno.