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Nel momento in cui scrivo l’autore dell’attentato di Capodanno a Istanbul non ha ancora un’identità precisa, anche se le autorità turche dichiarano di averlo identificato e di avere proceduto all’arresto di alcune persone considerate suoi complici.
Nei giorni scorsi sono circolate alcune indiscrezioni circa l’origine centro-asiatica del killer: in particolare l’attenzione si è appuntata su soggetti di origine tagika e/o uigura. In un primo momento la pista uigura, anche grazie ai tratti somatici del ricercato, intravisti nei filmati di sorveglianza, sembrava essere considerata attendibile. I media si sono quindi scatenati nella ricerca d’informazioni e descrizioni su questo popolo stanziato in un angolo apparentemente sperduto della Cina. Qualcuno li ha anche definiti, con rischiosa semplificazione, come la sponda asiatica del sedicente califfato: non lo sono certamente tutti gli Uiguri in quanto tali, non lo sono ancora, ma una parte rischia di diventarlo.
Non è possibile nel breve volgere di questo post dare un quadro, anche solo accennato, del mondo sconosciuto e complesso dell’islam cinese. Basti dire che le stime sul numero di musulmani cinesi varia da 20 a 100 milioni, divisi fra una quindicina delle 56 etnie ufficialmente riconosciute, e che le moschee presenti nel Paese sarebbero 35.000. Il governo cinese adotta nei confronti dell’islam ufficiale un atteggiamento assai pragmatico, che tende a evitare criticità: il business del cibo halal in Cina ammonta a più di un miliardo di dollari l’anno e decine di migliaia di cinesi partecipano regolarmente al Pellegrinaggio alla Mecca dell’Hajj. Assai diverso è l’atteggiamento adottato quando all’identità religiosa si sommano rivendicazioni etniche, territoriali o sociali.
Gli Uiguri sono una delle minoranze etniche cinesi – probabilmente la principale di religione musulmana –, di lingua turca e composta da 12 milioni di persone. La maggioranza degli Uiguri sono stanziati nella regione dello Xinjiang, dove rappresentano il 50% circa della popolazione. Il governo cinese è impegnato da tempo nel mantenimento di uno stretto controllo sulla regione favorendo anche l’insediamento in massa di coloni di provenienza Han (l’etnia cinese “classica” con il 92% della popolazione). L’area sta diventando sempre più importante dal punto di vista geopolitico perché è destinata a essere attraversata da una nuova via della seta che porterà al cuore del sistema industriale cinese le preziose risorse energetiche russo-iraniane dell’Asia centrale.
Questo controllo invasivo si è scontrato con una rimontante forma d’indipendentismo uiguro. La contrapposizione è sfociata in una serie di scontri, reinsediamenti forzati e in una politica fortemente repressiva nei confronti del popolo e della cultura uigura. La situazione nel periodo maoista è stata, ovviamente, anche peggiore e questo ha lasciato un segno indelebile nei rapporti tra i due popoli. In Italia la questione dei diritti umani del popolo uiguro è stata portata avanti specialmente dalla galassia legata al Partito Radicale. È stata anche pubblicata in lingua italiana (Edizioni Corbaccio, 2009) la biografia di Rebiya Kadeer, la più nota dissidente uigura, soprannominata “La Guerriera Gentile”.
All’interno di questo mondo dell’irredentismo uiguro alcuni gruppi hanno scelto la strada della lotta armata, con motivazioni originariamente più etniche che religiose. Sono queste frange che negli ultimi anni hanno maggiormente vissuto la tentazione jihadista e che ora stanno flirtando con Daesh. Una storia non dissimile da quella della minoranza musulmana Rohingya in Birmania, della quale abbiamo parlato in un precedente post, che rischia d’intraprendere la stessa strada del jihadismo aggressivo. Non sappiamo se la pista uigura per l’attentato di Istanbul si rivelerà giusta o sbagliata, ma è sicuro che è servita almeno ad accendere i riflettori su questo problema semisconosciuto ma importante.
Le fazioni estremiste Uigure, come quelle dei Rohingya, potrebbero diventare, in un futuro non lontano, uno degli elementi del nuovo fronte di scontro con la diaspora di Daesh e dell’ultra-fondamentalismo islamico.
Daesh vive sostanzialmente di tre cose: un territorio occupato militarmente, un branco di terroristi disposti a colpirci nel mucchio, un’idea – quella del nuovo califfato – che ha dimostrato di avere un certo fascino anche fuori dal Siraq.
Lo scontro militare sul campo può essere vinto: il dubbio non è mai stato sull’esito ma sulla nostra volontà di affrontarlo e pagarne il prezzo. Ora che, grazie all’iniziativa russo-turco-iraniana, gli stivali sono sul terreno la fine è, se non scontata, almeno prevedibile.
La lotta al terrorismo dei lupi più o meno solitari di al-Baghdadi sarà dura ma possiamo combatterla, anche se dovremo lasciare sul campo alcuni frammenti del nostro stile di vita.
Quella che rischiamo di perdere è la battaglia delle idee che passa inevitabilmente per la dimensione della propaganda. Una sconfitta in tale campo rischia di vanificare le eventuali vittorie su altri fronti. Daesh, sconfitto militarmente in Medio Oriente, cerca d’impollinare con la versione sanguinaria della sua utopia una serie di realtà islamiche represse nei propri territori e a noi praticamente sconosciute, in Asia come in Africa. Presentandosi come l’emblema del loro riscatto identitario, al-Baghdadi, cacciato dalla porta medio-orientale, potrebbe rientrare in gioco da una finestra inaspettata.