Dopo il caso Englaro, la sola regola necessaria è quella che ribadisca che nessuno può privare altri della vita. Invece il testo in discussione traduce in norme le sentenze su Eluana
Una fantastica legislatura che ha conosciuto il varo del divorzio breve, del divorzio facile, della droga free, del matrimonio same-sex, tutte passate con voto di fiducia imposto dal governo Renzi, e a fianco a esse il dilagare del gender nelle scuole grazie all’azione dello stesso governo, non può giungere alla meta senza approvare una bella legge sull’eutanasia. O meglio, una legge che non userà questo termine: alla Camera sono state accantonate le proposte con tale denominazione esplicita.
La rubrica del testo unificato che è in discussione alla commissione Affari sociali di Montecitorio è più asettica: “Norme in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari”. Nel pieno rispetto della tradizione normativa italiana che invece di divorzio parla di “cessazione degli effetti civili del matrimonio” e invece di aborto di “interruzione volontaria della gravidanza”.
La sostanza – oltre i giri di parole – è eutanasia. Non si è di fronte a una bandierina ideologica, agitata per mostrare che ci si sta occupando della questione. Esistono i presupposti perché la legge vada in porto: è già stata fissata all’esame dell’aula a partire dal 30 gennaio, con conseguente conclusione dei lavori in commissione entro questa settimana; i 3.200 emendamenti presentati dai gruppi politici sono stati ridotti a 250 dal presidente della stessa commissione Mario Marazziti; i media hanno ripreso in parallelo il battage a sostegno, con la pubblicazione di vicende terribili, di persone in condizioni gravi o con cure pesanti in corso che dichiarano di voler morire.
Si dirà: la giurisprudenza, con il caso Englaro, ha già fissato le condizioni per interrompere l’esistenza di una persona. È vero, e proprio perché per via giudiziaria è stato permesso che fosse tolta la vita a una grave disabile nei cui confronti non era in corso alcuna terapia sproporzionata o “accanita”, la sola legge necessaria è quella che ribadisca che nessuno può arbitrariamente privare altri della vita. E invece, il testo in discussione trasferisce in norme gli esiti delle sentenze su Eluana: a cominciare – articolo 3 – dalla antiscientifica inclusione di nutrizione e idratazione fra i “trattamenti sanitari”. I neonati cominciano a preoccuparsi: siamo scampati all’aborto, ma se adesso beviamo il latte col biberon come la mettiamo con la nostra “nutrizione artificiale”?
Per continuare con una delega generica e ampia a un “fiduciario”, cui compete la realizzazione delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Per finire con l’enorme responsabilità scaricata sul medico, che può trovarsi di fronte a dat sottoscritte in anni in cui una determinata patologia aveva possibilità di guarigione inferiori al momento in cui le stesse dat sono fatte valere: in tal caso, egli può disattendere la dat, ma “in accordo col fiduciario”. E se il fiduciario non è d’accordo, il paziente che può guarire viene lasciato senza cure?
E niente obiezione di coscienza
Con queste regole un sistema sanitario che riduce le risorse per le patologie vere e le impiega per la fecondazione eterologa eserciterà una grave pressione sul medico che si mostri “troppo” responsabile di fronte a casi nei quali – pur infondatamente – fiduciario o parenti insistono per chiudere la pratica. Il testo, poi, non prevede l’obiezione di coscienza: il medico, che l’articolo 4 costringe a redigere col paziente un documento di “pianificazione condivisa delle cure”, vede svilita una professione che, certo, deve coinvolgere paziente e familiari nelle scelte, ma non subire condizionamenti se non intimidazioni, ostili anzitutto al paziente.
La sola realtà che merita oggi il “fine vita” è la legislatura in corso, con un Parlamento la cui priorità non è mettere ordine nelle contraddittorie norme sulla protezione civile che concorrono al caos negli interventi di soccorso: è disciplinare la morte in modo rapido ed efficace. È cioè coronare il motto della socialdemocrazia scandinava “dalla culla alla bara”. Con un codicillo: visti i problemi sul lato “culla”, si incrementa la voce “bara”.
Alfredo Mantovano
Da “Tempi” del 2 febbraio 2017. Foto da irpinianews.it