E’ di ieri la notizia delle prime dimissioni eccellenti della squadra di Donald Trump, quelle del Consigliere per la Sicurezza nazionale, l’ex generale Michael Flynn.
Si tratta di una vicenda complessa da ricostruire nelle motivazioni e nelle dinamiche, che appare quasi come uno sgambetto postumo della precedente amministrazione, uno sgambetto messo in atto da una parte dell’intelligence evidentemente ostile a Trump e soprattutto alla annunciata politica di distensione dei rapporti con Mosca. Flynn, più che il segretario di Stato Rex Tillerson, è, infatti, l’uomo sul quale Trump puntava per avviare la non celata operazione di disgelo con il Cremlino.
Un piccolo passo indietro. Dopo la vittoria di Trump, a fine dicembre 2016, un Obama arrabbiato impose alla Russia sanzioni per la presunta influenza di Mosca nella vittoria dell’immobiliarista newyorchese alle presidenziali, sanzioni culminate nella espulsione di 35 diplomatici russi, nella reazione di Putin e col plauso di Trump (a quest’ultimo!). Nei giorni successivi, gli ultimi dell’amministrazione Obama, gli ex direttori di Fbi e Cia, James Clapper e John Brennan, avevano cominciato ad avviare l’opera di boicottaggio di Trump e di Flynn, nominato dal primo ma ancora non insediato, assumendo che questi avrebbe discusso con il capo della diplomazia russa a Washington, Sergei Kislyak, proprio delle sanzioni imposte da Obama. La circostanza, a quanto sembra pure taciuta da Flynn al vicePresidente, Mike Pence, ha alzato il piattello a quella parte di intelligence ostile a Trump e legata ad Obama già in posizione di mira, la quale ci ha messo poco a chiudere il sillogismo: Flynn è la prova che la Casa Bianca sia al soldo di Mosca (di più: Flynn è ricattabile dai russi – anche se non si capisce bene per quale motivo). Per disinnescare la bomba, alla Presidenza non restava, dunque, che costringere Flynn alle dimissioni.
Che la testa di Flynn stesse per cadere, scaricata dalla Casa Bianca incapace di sostenerla oltre, si era compreso già l’altroieri, quando l’Observer (di proprietà, tra gli altri, del genero di Trump) aveva dato voce alla rabbia dell’intelligence pubblicando un articolo – presto rimbalzato in tutto il mondo – intitolato “La rivolta delle spie contro Donald Trump”. Questo articolo è la principale chiave di decriptazione di quanto sta accadendo.
Il pezzo riportava affermazioni di John Schindler, ex analista della National Security Agency ed esperto di sicurezza, che facevano riferimento ad una vera e propria guerra tra la Casa Bianca e la comunità dell’intelligence, ma soprattutto alla volontà di quest’ultima di rifiutarsi di dare informazioni riservate alla Casa Bianca per paura che queste vengano poi girate ai russi.
La parte più interessante è la finale:
“Ciò che sta succedendo viene spiegato lucidamente da un alto funzionario del Pentagono che ha affermato come «dal 20 gennaio in poi, partiamo dal presupposto che il Cremlino venga a conoscenza di tutto ciò che viene discusso all’interno della sitroom», ovvero della Situation Room della Casa Bianca, la famosa stanza delle conferenze della West Wing dove il presidente ed il suo staff ottengono briefing dall’intelligence. «Non c’è molto che i russi non sappiano a questo punto», afferma questo funzionario, esprimendo tutta la sua frustrazione.
«Nulla di tutto questo è mai accaduto prima a Washington. Una Casa Bianca con rapporti oscuri con Mosca è qualcosa che nessuno al Pentagono e nella comunità dell’intelligence americana ha mai considerato una possibilità realistica fino a pochi mesi fa. Fin quando il team Trump non renderà chiari i suoi strani legami con il Cremlino ed inizierà a lavorare sulla sua onestà professionale, l’approccio della comunità dell’intelligence a questa Amministrazione sarà sempre basato sulla cautela e la preoccupazione.
Io avevo già precedentemente detto che l’Amministrazione Trump doveva evitare di entrare in guerra con la comunità dell’intelligence e questo è il motivo. Si tratta di una situazione rischiosa, in particolare poiché il presidente Trump è a rischio di creare crisi interne ed internazionali per via dei suoi tweet incauti. Nel caso di una serie di crisi internazionali, come quelle che sono avvenute anche con le precedenti Amministrazioni, la Casa Bianca dovrebbe aver accesso alla miglior intelligence possibile per prevenire una guerra, persino una guerra nucleare. In questo caso c’è la possibilità che la Casa Bianca non ottenga le informazioni di cui ha bisogno nell’ora della crisi, e per questo non ha nessuno a cui dare la colpa che non sia se stessa».
E’ evidente che le affermazioni – messe in bocca, come era doveroso, a un personaggio di non primissimo piano, ma sufficientemente riferibile al mondo dell’intelligence forgiata dagli otto anni di Obama – siano estremamente significative, oltre che di una gravità assoluta. Allo stato non c’è alcun errore di Trump, ma solo la volontà di parte dell’intelligence americana di mettersi di traverso rispetto agli annunciati propositi di distensione dei rapporti con la Russia.
Quanto al nome del generale David Petreus (nominato da Obama nel 2011 a capo della CIA, carica alla quale dovette rinunciare dopo un anno per uno scandalo legato alla relazione con la sua biografa) che sta circolando in queste ore quale possibile sostituto di Flynn nel ruolo di Consigliere per la Sicurezza Nazionale, esso rappresenterebbe il compimento del “mini golpe” dell’intelligence. A intuito, la figura, si presta poco ad essere associata a Trump, per ragioni di sostanza (esprime una visione geopolitica e militare pressoché opposta a quella di Flynn ma soprattutto una linea di continuità con il passato e non di rottura come invece ha sempre affermato di volere la nuova Presidenza) e per ragioni di immagine (è “vecchia”). Ma a questo punto è l’intelligence ad avere in mano la pistola. E la Casa Bianca potrebbe valutare di non aprire un altro fronte interno dopo quello con il potere giudiziario apertosi intorno all’ordine esecutivo in tema di immigrazione.
La evidente ostilità, reale e sostanziale, di una parte dell’establishment amministrativo e politico americano – repubblicani compresi – alla annunciata politica di distensione con la Mosca, nasconde però anche un’altra ostilità: quella allo stesso Donald Trump, ovvero a colui che ha generato improvvisamente una amplissima classe di “esclusi dal potere”, democratici e repubblicani suoi avversari che non si rassegnano all’idea di aver perso le elezioni ed essere finiti in un angolo, esclusi dall’inner circle del presidente, dominato dai suoi consulenti speciali: Steve Bannon, anima della “nuova destra” di Breibart, Reince Priebus, già referente del Tea Party, il genero Jared Kushner, e la cattolicissima Kellyanne Conway (ieri accusata da un’authority governativa di aver sponsorizzato in diretta tv i prodotti di Ivanka Trump apparendo su Fox News in qualità di rappresentante dell’Amministrazione Trump).
Ad esempio, già prima del deflagrare della questione Flynn, gli uomini del Dipartimento di Stato, della Homeland Security, così come il direttore dei servizi di intelligence e il Capo di Stato Maggiore avevano lamentato di non essere stati consultati preventivamente sull’executive order presidenziale in tema di immigrazione e si sono sfilati dalle responsabilità indirizzando le colpe verso una meta precisa: l’inner circle di Donald Trump.
Sin dalle settimane precedenti al suo insediamento gli “esclusi” dal potere – obamiani, clintoniani ma anche molti repubblicani (tipo Mc Cain che ieri sera ha affermato «la Casa Bianca è un caos, bisogna rimettere ordine») – lavorano soprattutto contro il Presidente, puntando a rendergli dura la vita. In questo quadro, i rapporti col Cremlino sono stati sin dal primo momento e continuano a essere il tema che meglio si presta allo scopo.
A conferma di tutto ciò, ieri non c’è stato solo Michael Moore che dá a Trump del «traditore al servizio dei russi». Ieri sera, il New York Times, riportando fonti dell’FBI, ha affermato che durante la campagna elettorale funzionari russi sarebbero più volte stati in contatto con membri dello staff elettorale di Trump. Questo aggiunge carne al fuoco di una situazione già scottante, con i democratici all’attacco ed una parte dei repubblicani, soprattutto al Senato, che si dice disposta ad aprire una indagine formale sui rapporti tra Trump e la Russia (alla Camera invece ieri, la Commissione competente ha negato la richiesta democratica di costringere il tesoro a rendere pubbliche le dichiarazioni dei redditi di Trump, con il voto unanime di tutti i membri repubblicani della Commissione, e la motivazione che «si tratterebbe di un pericoloso precedente»).
Nell’evidente tentativo di arginare il fiume, Trump è stato dunque costretto a fare un’altra mossa in direzione anti russa (dopo quella del defenestramento di Flynn). Nella conferenza stampa convocata per fornire chiarimenti sulla vicenda, il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, ha affermato che «il Presidente si aspetta che la Russia riconsegni la Crimea all’Ucraina, paese cui legittimamente appartiene il territorio», provando in questo modo a dare il segnale di un netto cambio di rotta dell’amministrazione nei rapporti con la Russia al fine di togliere agli “esclusi dal potere” il principale argomento anti-Trump.
In risposta politica e simbolica (alle forzate dimissioni di Michael Flynn e alle dichiarazioni della Casa Bianca sulla Crimea) ieri sera il governo russo ha pensato bene di violare un accordo militare del 1987 (INFT firmato da Reagan e Gorbaciov) attivando un missile militare da allora mantenuto come “non operativo”.
Quello che sta accadendo in queste ore – ed i cui contorni precisi conosceremo magari tra qualche mese – sta dunque avendo un impatto significativo sia sugli scenari geopolitici globali sia sul futuro dell’amministrazione americana. Riuscirà la nuova amministrazione Trump – che ieri ha meritoriamente ribadito di voler distruggere il contestato Obamacare – a resistere agli attacchi che dall’interno e da più fronti gli provengono?
Francesco Cavallo