di Carlo Introvigne
E così in breve tempo siamo passati da «Je suis Charlie» a “Dobbiamo uccidere Charlie”. Dobbiamo, certo: perché, se e quando una mano ucciderà – a proposito, nessuno ha avuto ancora materialmente il coraggio di farlo –, le responsabilità saranno tutte da analizzare e, perché no, da condividere. È bene chiarirlo subito: siccome si tratterà di una morte “burocratica”, il rischio è che alla fine la responsabilità non sia di nessuno. Invece è di tutti, anche di chi scrive oggi e avrebbe fatto invece meglio a scrivere ieri.
Ma andiamo con ordine, ripercorrendo brevemente la vicenda del bambino che oggi commuove ed interroga il cosiddetto mondo libero (libero?).
Charlie Gard ha 10 mesi, è nato nel Regno Unito dall’amore di papà Chris e di mamma Connie Yates. È affetto da una malattia rara e devastante, la sindrome da deplezione del DNA mitocondriale. Significa in pratica il progressivo e inarrestabile deterioramento degli organi che presiedono alle funzioni vitali, primi fra tutti quelli respiratori. È ricoverato al Greet Hormond Street Hospital di Londra, dove è tenuto in vita grazie a respirazione e alimentazione artificiali. I medici del nosocomio inglese ormai da tempo sono dell’idea di staccare la spina al piccolo Charlie, ma i genitori non sono d’accordo: Chris e Connie desiderano portare il bambino negli Stati Uniti per sottoporlo a una cura sperimentale. Da qui incomincia la battaglia legale che vede i genitori di Charlie soccombere davanti a tre gradi di giudizio nazionali per concludersi definitivamente il 28 giugno alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), che si è dichiarata non competente a entrare nel merito, escludendo in ogni caso una violazione degli artt. 2 ed 8 della Convenzione Europe a dei Diritti dell’Uomo e confermando dunque, nella sostanza, la decisione dei giudici britannici.
L’ultima puntata coinvolge l’Ospedale Bambin Gesù di Roma, là dove la direzione, nella persona della dottoressa Mariella Enoc, si è detta disposta – dopo le parole di Papa Francesco intervenuto sulla vicenda – ad accogliere Charlie per curarlo come meglio risulterà possibile, mettendo anzi a punto una nuova forma di trattamento sperimentale. Ma un secco no, per “questioni legali” ostative allo spostamento del bambino, è stato espresso dal personale sanitario londinese e dal ministro degli Esteri, Boris Johnson, in un colloquio con il suo omologo italiano Angelino Alfano.
Charlie insomma, secondo i medici, i giudici e il ministro Johnson, deve essere ucciso. Non inganniamoci utilizzando la diversa e più “accettabile” locuzione “deve essere lasciato morire”: nessun neonato si alimenta da sé e certo il biberon non è considerato dispositivo medico; non avremmo cioè dubbi – morali e giuridici – nel sostenere che non alimentare un neonato equivale a ucciderlo. Non c’è differenza ontologica fra togliere a Charlie il sondino e non allattare mia figlia.
Vi sono molti temi che la vicenda lascia aperti e sui quali fermarsi a riflettere. Su tutti, due.
Il primo è la tendenziale confusione odierna tra guarire e curare. La malattia ritenuta inguaribile allo stato attuale della medicina non è una malattia incurabile: anzitutto è il contrario. Il malato inguaribile è chi versa in uno stato di debolezza e di vulnerabilità maggiori e per questo è più bisognevole di cure; qui si concretizza il senso più alto e umano della medicina: prendersi cura della vita sofferente e del malato. Non è ciò che fanno tutti con i propri cari, affetti da forme di malattie degenerative a oggi inguaribili come per esempio il Parkinson o l’Alzheimer?
Il secondo tema è la strisciante cultura dello scarto, che serpeggia nelle pieghe del pensiero debole moderno e si riconnette al paradigma della qualità della vita, cioè al modello di pensiero che, dimentico della singolare dignità di ogni essere umano, ritiene solo alcune vite “degne di essere vissute”. A tutte le altre esistenze meglio porre fine nel modo più rapido, indolore ed efficiente.
Forse che in questa vicenda si sia voluto “passare il segno” per “lasciare il segno”?
Siamo di fronte al primo caso d’imposizione di un aborto post-natale – terribile definizione che dobbiamo a Etica pratica (trad. it., Liguori, Napoli 1989), pubblicato in prima edizione nel 1979 dal filosofo australiano Peter Singer –, ma è chiaro che la locuzione giusta è infanticidio. L’uccisione di Charlie è stata cioè decisa dall’autorità contro la volontà dei genitori.
La novità è assoluta, e in questo senso si è passato il segno: Chris e Connie hanno perso la potestà genitoriale in relazione a questa singola e particolare vicenda, e la teoria del consenso informato è andata a farsi benedire. I genitori di Charlie sono diventati loro malgrado esperti della malattia rarissima che affligge il figlio, e hanno espresso un chiaro e informatissimo dissenso: anzi, hanno trovato una cura sperimentale negli Stati Uniti, hanno condotto una battaglia legale con quattro gradi di giudizio e hanno raccolto 1,3 milioni di euro in donazioni per tentare la traversata transoceanica.
Proprio il grande successo della raccolta fondi mette a nudo il significato reale della vicenda: avrebbe un senso la prospettiva della migliore allocazione delle risorse scarse, per cui uno Stato non impegna personale e attrezzature per tenere in vita Charlie quando può usare le stesse energie per salvare altri bambini. Ma Chris Gard e sua moglie non chiedono nulla al welfare, hanno il denaro per portare Charlie all’estero e pagare numerose infermiere che se ne prendano cura.
Perché allora negare il trasferimento a Roma? Addirittura – secondo quanto riportato nelle ultime ore dalla stampa – spiegando che «nulla osterebbe al trasferimento in Italia se solo il personale del Bambin Gesù desse la disponibilità ad eseguire la sentenza inglese» (si traduca pure in “non ve lo diamo perché poi voi lo tenete in vita”). Perché negare ai genitori l’autonomia decisionale e la possibilità di coltivare la speranza, oltretutto utilizzando denaro proprio?
La teoria che sta dietro alla decisione dei medici e delle corti britanniche è proprio quella della cultura dello scarto, mascherata da pietà: una vita così non è degna di essere vissuta e al solo fatto di allungarla è preferibile il toglierla, uccidendo.
In questo senso, si “lascia il segno”: non solo si afferma il principio per cui una vita di qualità è l’unica per cui battersi e di cui prendersi cura, ma soprattutto si dice forte e chiaro che ci sono dei “tecnici” – i medici, i giudici, l’autorità statale, il ministro – in grado di decidere meglio del diretto interessato se la vita meriti o meno di continuare.
Si tratta di un principio nuovo, che emerge grazie all’occasione del caso limite, sensazionalistico e penoso. La devastante malattia di Charlie, che allo stato la scienza medica non sa come guarire, è una “finestra di Overton”, dal nome del sociologo statunitense Joseph P. Overton (1960-2003) che ha illustrato il meccanismo per mezzo del quale diviene dapprima accettabile e poi addirittura politicamente corretto ciò che in un dato momento storico l’etica e la coscienza sociale ritengono vietato.
E non inganni la mediazione che nella vicenda offre all’immaginario collettivo la presenza dei genitori: Charlie deve morire nonostante il dissenso informato di chi decide per lui; la morte imposta al malato inguaribile, anche nel pieno possesso delle sue facoltà intellettuali e contro la sua volontà, è solo a un passo da qui.
Un difetto genetico, una vita di bassa qualità, il potere che interviene a salvaguardare risorse e togliere di mezzo un’esistenza indegna di essere vissuta… ma non l’avevamo già sentita?
È l’eugenetica, baby..! Ma certo, mascherandola da pietà, le troveranno un nome più aggraziato.