Nota del novembre 2019.
Pochi giorni addietro, il 27 ottobre, è scomparso Vladimir Konstantinovič Bukovskij (1942-2019), uno dei più intelligenti dissidenti e oppositori del regime sovietico, più volte arrestato e internato in strutture “psichiatriche”. Nel 1976 fu scambiato con il segretario del partito comunista cileno Luis Nicolás Corvalán Lepe (1916-2010), prigioniero della dittatura militare, e poté espatriare nel Regno Unito. In Occidente ha dato vita, con altri noti esuli, a organizzazioni di studio e di propaganda anti-comunista. Nel 1991, quando il sistema sovietico collassa, Bukovskij torna in Russia, dove con diversi stratagemmi, approfittando del caos del periodo eltsiniano, riesce a fotocopiare e a portare all’estero migliaia di documenti riservati degli archivi del regime. Questi documenti, dopo un lavoro di due anni, diverranno un libro, pubblicato in Italia con il titolo Gli archivi segreti di Mosca, dal forte impatto politico che però i media e le autorità occidentali cercheranno, ahimè con successo, di attutire. Con molteplici iniziative in vari Paesi, inclusa l’Italia, Bukovskij si sforzerà di rompere la cortina di fumo stesa sulla memoria sanguinosa del comunismo dagli “orfani” dell’esperimento sovietico. Fra gli intellettuali e gli attivisti anti-comunisti egli ha svolto un ruolo di primo piano, non solo per l’instancabile impegno, ma anche per l’acutezza con cui ha “letto” il comunismo e soprattutto per la diffidenza sulla reale volontà di combattere il comunismo di molti apparati e ambienti anti-comunisti “democratici” occidentali.
Oscar Sanguinetti, Cristianità n. 294 (1999)
Nei sotterranei del secolo XX: «Gli archivi segreti di Mosca»
1. Un’operazione di «esportazione» di documenti
Pochi giorni dopo il fallito «colpo di Stato» dell’agosto del 1991, a Mosca, l’esule russo anticomunista — ha passato circa undici anni nelle galere e nei campi di prigionia sovietici — e scrittore Vladimir Konstantinovič Bukovskij raggiungeva la capitale sovietica con lo status di rappresentante di diverse fondazioni private americane e britanniche e con l’intento, non dichiarato, di assecondare la piega che pareva avessero preso gli eventi — ovvero il presumibile, incipiente smantellamento del potere sovietico — e coronare così il sogno della sua vita, ossia istituire un tribunale sul modello di quello di Norimberga — che nel 1945-1946 giudicò i crimini contro l’umanità commessi dai gerarchi nazionalsocialisti tedeschi —, il quale sottoponesse a giudizio i vertici della «casa madre» del socialcomunismo internazionale e ne condannasse, almeno sul piano morale, i delitti compiuti nei settant’anni successivi alla Rivoluzione dell’ottobre del 1917 (1). La premessa di tale celebrazione era ovviamente un’adeguata istruttoria, che portava quindi con sé la necessità di accedere all’immenso patrimonio documentale degli organi di governo, di sicurezza e di partito russi e sovietici.
Fra i numerosi incontri pubblici, le interviste e i dibattiti in cui viene coinvolto in patria — o si fa coinvolgere per cercare di orientare l’opinione pubblica russa —, Bukovskij, agl’inizi di settembre del 1991— quando esiste ancora formalmente l’URSS, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, e il KGB, il servizio informazioni e sicurezza, è stato appena sciolto e sostituito con due agenzie, una per l’interno e una per l’estero — ha anche la ventura d’incontrare, in un faccia a faccia televisivo, il nuovo capo supremo dei servizi segreti, il primo dopo la «purga» promossa dal nuovo governo guidato da Boris Nikolaevič El’cin (1931-2007), generale Vadim Viktorovič Bakatin. A questi riesce abilmente a estorcere, sull’onda emotiva del fallito putsch «conservatore» e nel disorientamento derivatone per i vertici dello Stato, sfruttando anche il peso della sua qualità di rappresentante di autorevoli istituti occidentali, il consenso circa la necessità di una commissione d’inchiesta sul gruppo dirigente comunista. Il dibattito — mandato in onda pressoché integralmente — scatena in Russia e all’estero una valanga di dichiarazioni e di prese di posizione di membri dell’establishment e di persone autorevoli tanto ben orchestrata che ne minano in sostanza il risultato, contestando l’autenticità dei fatti invocati e l’opportunità delle dichiarazioni di Bakatin, e cercando di diffamare in tutti i modi Bukovskij. Oltre tutto, la riforma dei servizi che ne segue sembra esser stata concepita più per salvaguardare il segreto delle operazioni spionistiche della struttura che non per adeguare quest’ultima al nuovo contesto politico. Qualunque indagine in questo ambito, anche quelle condotte dal pur onesto Bakatin — che ha difficoltà addirittura a reperire i fascicoli relativi a «casi» vecchi, come l’omicidio del presidente degli Stati Uniti d’America John Fitzgerald Kennedy (1917-1963) — e che appurano fra l’altro che «[…] centinaia di volumi sul conto delle operazioni erano stati bruciati nel 1990» (p. 84) (2), si scontra con ostacoli e con conflitti di competenza insuperabili. Tutti questi elementi sono il segno che il vecchio apparato è ben lungi dall’essere «defunto» e che ha capacità reattive e leve d’azione, interne e internazionali, sostanzialmente intatte.
Persuasosi ben presto — anche sulla base dell’esito della sua intervista televisiva — che l’ipotesi di un crollo autentico del regime si rivelava ogni giorno più illusoria e di fronte alla rapida «rimonta» del vecchio apparato ufficiale e occulto del comunismo moscovita, intenzionato a non aprire alcun dibattito serio sul passato, Bukovskij, «dopo un mese di febbrili corse per tutta Mosca» (p. 91), abbandona il suo progetto.
Nella primavera del 1992, però, si apre a Mosca il processo-farsa davanti alla neonata Corte Costituzionale russa contro il governo guidato da El’cin su denuncia del partito comunista, che impugna i decreti presidenziali del 24 agosto che lo mettevano fuorilegge e ne confiscavano il patrimonio: Bukovskij viene convocato come esperto e testimone. Gli si offre così un’opportunità eccezionale e del tutto insperata per tornare quantomeno ad accedere ai documenti del regime, nella fattispecie ai 48 volumi — su miliardi di documenti in massima parte rimessi sotto segreto da un decreto di El’cin del 14 gennaio 1992 — d’incartamenti per certo raffazzonati, relativi al CC del PCUS, il Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, messi frettolosamente a disposizione della commissione inquirente. Approfittando dei non pochi intervalli nel processo — finito peraltro con la parziale reintegrazione del partito nei suoi diritti — e della prossimità della sede del dibattimento con l’edificio del CC dell’ex PCUS, Bukovskij, cui nonostante il suo ruolo ufficiale veniva impedito di fare fotocopia anche di un solo foglio di carta, riesce però — attraverso lo stratagemma di munirsi di un computer e di uno scanner, un lettore ottico di documenti, portatili — ad acquisire, mentre li consulta, le immagini elettroniche di un gran numero di essi, peraltro, come accennato, non ordinati e provenienti da fondi disparati. Il computer portatile e il relativo scanner erano tecnologie — in particolare la seconda — ancora sconosciute in Russia e monopolizzavano, paralizzandoli quasi, l’attenzione dei funzionari degli archivi che lo vedevano operare. Quando costoro si «risvegliano» dalla trance tecnologica e si accorgono sgomenti che informazioni importanti — per loro anche dal punto di vista monetario, data l’abitudine a farne commercio (3) — stavano prendendo il volo, prima che si scateni la loro reazione, Bukovskij è già rientrato a Cambridge, in Inghilterra, dove vive in esilio dal 1976.
Il frutto di questa «operazione» d’indubbio successo — anche se inferiore alle aspettative — è un corposo volume di oltre ottocento pagine, denso di fatti e di analisi, Gli archivi segreti di Mosca, uscito in Italia nel febbraio del 1999, tradotto dal testo originale Judgement in Moscow, «Giudizio a Mosca» (4), un titolo che riecheggia intenzionalmente quello del film di Stanley E. Kramer Judgement at Nuremberg, «Giudizio a Norimberga» (5), che aveva particolarmente impressionato Bukovskij in gioventù. L’edizione italiana dell’opera — già apparsa in Francia, Germania, Polonia e Bulgaria — è, al momento dell’uscita, l’unica integrale. I documenti originali reperiti — circa settemila — sono annunciati come disponibili in formato d’immagine elettronica su Internet e prossimamente anche su compact disc (6).
2. Vladimir K. Bukovskij
Vladimir Konstantinovič Bukovskij nasce nel 1942 a Belebej, in Baskiria; studia biofisica all’università di Mosca, dalla quale viene espulso nel 1961 per attività sovversiva: ha creato con altri il gruppo d’intellettuali che pubblica la rivista Feniks, di cui uscirà un solo numero.
Subisce il primo arresto nel 1963, perché trovato in possesso de La nuova classe. Una analisi del sistema comunista, l’opera divenuta celebre di un politologo jugoslavo «eterodosso», il montenegrino Milovan Ðilas (1911-1995) (7); viene condannato a due anni di manicomio criminale a Leningrado, dov’è torturato. Esce nel 1965 e si fa arrestare di nuovo durante una manifestazione di protesta contro l’arresto degli scrittori Julij Markovič Danièl’ (1925-1988) e Andrei Donatovič Sinjavskij (1925-1997), accusati di aver stampato libri all’estero: la protesta gli costa un altro anno di manicomio criminale presso il famigerato Istituto Serbskij. Nel 1967 stesso copione in occasione dell’arresto di Aleksandr Il’ič Ginzburg, Jurij Timofeevič Galanskov (1939-1972) — che morirà in carcere — e Aleksej Aleksandrovič Dobrovol’skij (1939-2013), con accuse analoghe: Bukovskij viene condannato a tre anni di GULag, probabilmente in Mordovia. Tornato nel 1970 riesce a mantenere la libertà fino all’aprile del 1971, quando torna in clinica psichiatrica, accusato di aver inviato al Comitato Internazionale per i Diritti dell’Uomo di Parigi materiale sulla repressione psichiatrica del dissenso.
Nel gennaio del 1972 il regime decide di sbarazzarsi di lui definitivamente condannandolo, dopo regolare processo, a due anni di carcere, cinque di campo di lavoro e cinque di confino: Bukovskij sarebbe tornato libero soltanto nel 1986, a quarantaquattro anni d’età. Ma il 17 dicembre 1976, improvvisamente, il Governo decide di accettare lo scambio fra lui e il segretario generale del partito comunista cileno, Luis Corvalan Lepe (1916-2010), imprigionato dopo il colpo di Stato guidato dal generale Augusto Pinochet Ugarte (1915-2006) nel 1973. Bukovskij viene espulso dall’Unione Sovietica e, dopo esser stato scambiato segretamente all’aeroporto di Zurigo con il leader comunista, si stabilisce a Cambridge, in Gran Bretagna, dove però non insegna. Continua all’estero la sua lucida attività di opposizione al comunismo scrivendo numerosi saggi e articoli. In italiano di lui si possono leggere: Una nuova malattia mentale in URSS: l’opposizione (8), Il vento va e poi ritorna (9), Guida psichiatrica per dissidenti (10), URSS: dall’utopia al disastro (11) e Il convoglio d’oro (12). Può tornare in patria negli ultimi sussulti della perestrojka, la «ristrutturazione», ma, dopo l’operazione descritta, viene privato del passaporto russo e gli viene così vietato l’accesso.
3. L’opera e i documenti
Venendo al contenuto dell’opera, il primo capitolo — Una strana guerra (pp. 9-71) — della prima parte — In Oriente (pp. 9-370) — è dedicato ai documenti d’archivio e al loro destino. Il testo si apre con l’amara constatazione che le quasi tremila pagine di documenti del CC del PCUS — che comprendono anche rapporti del KGB e di altri organi del partito e dello Stato —, classificati «segretissimi» o con altre diciture restrittive, individuati da Bukovskij nel 1992 e in cui «[…] troviamo l’alfa e l’omega di tutte le tragedie del nostro secolo sanguinoso» (p. 10), nonostante il loro straordinario interesse, non interessano a nessuno in Occidente. «So what? who cares», «E allora? A chi importa?», oppure «la gente […] non vuole più sentirne parlare» (p. 11), si sente dire dagli addetti ai lavori: editori, giornalisti, storici e addirittura servizi informativi occidentali, che fino a pochi anni prima avrebbero pagato migliaia di dollari per tale materiale.
Come mai accade ciò, si chiede Bukovskij? Eppure i «campioni» che produce sono davvero convincenti.
a. L’«Ostpolitik»
Per esempio, i documenti che rivelano in forma inoppugnabile come nel corso degli anni 1970, fino almeno al 1980, il presidente del Consiglio e ministro degli Esteri finlandese, il socialista Kalevi Sorsa (1930-2004), abbia collaborato con Mosca: presentatosi nuovamente alle elezioni del 1992, solo sei mesi dopo le rivelazioni fatte da Bukovskij rinuncia «spontaneamente» alla candidatura! Oppure un documento del KGB, firmato dal direttore Jurij Vladimirovič Andropov (1914-1984) e indirizzato al CC del PCUS, che rivela come le fondamenta dell’Ostpolitik tedesca — la politica di distensione nei confronti degli Stati socialisti dell’Europa Orientale — degli anni 1970 fossero state poste già nell’autunno del 1969, concedendo udienza privilegiata alle correnti filo-sovietiche dell’SPD, il Partito Socialista Democratico, che in questa materia riesce fra l’altro a battere sul filo di lana la CDU, l’Unione Cristiano-Democratica, a sua volta intenzionata ad aprire relazioni più «distese» con l’URSS. È davvero singolare che nessun grande organo di stampa tedesco — a parte stralci ospitati dal settimanale Der Spiegel nel 1995 — abbia mai voluto pubblicare il documento.
b. I finanziamenti ai partiti «fratelli»
E ancora, sul nuovamente «caldo» tema dei finanziamenti comunisti sovietici a partiti fratelli in Occidente e nel mondo, emerge nitidissima la conferma della tesi da sempre avanzata dagli ambienti anticomunisti più seri — e che trova ulteriore conferma nelle rivelazioni dell’ex archivista sovietico Vasili Nikitič Mitrokhin (1922-2004) — che i comunisti potevano sopravvivere e operare con successo solo grazie al denaro di Mosca (13).
Per esempio il PCI, il Partito Comunista Italiano, solo nei primi sei mesi del 1969 aveva incassato direttamente da Mosca 3,7 milioni di dollari, quello francese due milioni, il piccolo partito comunista americano un milione. Nel suo ultimo anno di vita, il 1992, il «Fondo internazionale di aiuto alle organizzazioni operaie di sinistra» — creato nel 1969 — aveva portato a 22 milioni di dollari i finanziamenti a ben 73 realtà di tale genere. Bukovskij calcola che il PCF, il Partito Comunista Francese, abbia goduto nel 1969 di finanziamenti per «[…] non meno di 44 milioni di dollari, quello statunitense 35, e quello italiano ancora di più» (p. 25), se si mantengono le proporzioni con i dati precedenti relativi all’inizio del 1969. «A partire dal 1967 — osserva Bukovskij — Mosca distribuì complessivamente fra i suoi fratelli ben 400 milioni di dollari, e ciò senza considerare altre forme di finanziamento» (ibidem). È interessante soprattutto la lettera «segretissima» del 4 ottobre 1979, protocollata con il n. 25-S-1803, della Sezione Internazionale del CC del PCUS, siglata da Vadim Valentinovič Zagladin (1927-2006), responsabile della Sezione al Comitato stesso, che ha come oggetto Dell’accoglienza al Comitato Centrale del PCUS del membro del Gruppo dirigente del Partito Comunista Italiano compagno G[ianni]. Cervetti, in cui s’informa l’organo di vertice del partito comunista sovietico che «il compagno A[lessandro]. Natta, […] su incarico del compagno E[nrico]. Berlinguer [(1922-1984)] ha fatto sapere che il compagno G. Cervetti […], in arrivo a Mosca il 7 ottobre per un breve periodo di riposo, è stato incaricato di discutere presso il CC del PCUS una serie di questioni specifiche, finanziarie comprese» (p. 27). Si può facilmente immaginare che tipo di discussioni avessero luogo a Mosca in occasione del periodo di riposo del dirigente milanese del PCI. Forse un documento del 1983, un estratto di verbale di riunione del Politbjuro, l’Ufficio Politico del CC del PCUS, del 18 gennaio, anch’esso classificato «segretissimo», riportato da Bukovskij, può illuminare a riguardo: «Richiesta degli amici italiani. Incaricare il Ministero per il commercio estero (compagno[Nikolaj] Patolicev) di vendere alla ditta Interexpo (presidente, compagno L.[uigi] Remigio), sulla base commerciale abituale, 600mila tonnellate di petrolio e 150mila tonnellate di carburante diesel a condizioni di favore tali che, abbassando il prezzo dell’1% circa e dilazionando il pagamento di tre-quattro mesi, i nostri amici possano ricavare da questa operazione commerciale attorno ai 4 milioni di dollari» (pp. 27-28). Che dire del fatto e di quella «base commerciale abituale» che si menziona? Secondo Bukovskij furono proprio le indiscrezioni trapelate sulla stampa italiana riguardo a questo genere di operazioni, alla fine del 1991 e all’inizio del 1992, a provocare la controffensiva del PCI attraverso settori amici della magistratura, divenuta in breve la tempesta giudiziaria denominata Mani Pulite e dalla quale il PCI — poi Partito Democratico della Sinistra, PDS (14) — esce indenne. Per inciso, Bukovskij ricollega forse fantasiosamente — ma suggestivamente — l’etichetta Mani Pulite al vecchio motto della ČECA — la polizia politica bolscevica fondata nel 1917 dal lituano Feliks Èdmundovič Dzerzinskij (1877-1926) — «Testa fredda, mani pulite, cuore ardente» (p. 28).
E così via. Bukovskij continua snocciolando fatti e personaggi — il caso del magnate greco George Bobolas e degli altri «miliardari rossi» come Armand Hammer (1898-1990) e Robert Maxwell (1923-1991), la politica «discreta» del partito durante la segreteria di Michail Ser- geevič Gorbacev volta a creare società commerciali e finanziarie a cura del KGB in previsione del crollo dell’URSS negli anni 19901991, il finanziamento ai movimenti di liberazione sudamericani e medio-orientali, infine l’addestramento «speciale», ovvero all’attività clandestina, nel 1974 in Unione Sovietica, di 19 esponenti del PCI, preoccupato di possibili sviluppi «golpisti» in Italia — per tutto il primo capitolo, alla fine del quale si chiede, riecheggiando l’«E allora? A chi importa?» iniziale: «E allora, chi ha vinto?» (p. 61), chi ha vinto «questa guerra, forse la più strana di tutte quelle della nostra storia» (ibidem).
c. La «terza guerra mondiale»
Bukovskij introduce così al tema della «terza guerra mondiale», la «guerra fredda», combattuta e perduta dal comunismo internazionale dal 1946 al 1989. Una guerra mai dichiarata, durata 44 anni, costata milioni di vittime — vi è chi dice venti (15) — e milioni di dollari e che ha coinvolto quasi tutti i paesi del globo. Una guerra che, a differenza della seconda guerra mondiale (1939-1945), non si è conclusa con un tribunale internazionale, che abbia punito gli artefici comunisti dei crimini contro l’umanità. I responsabili dei peggiori delitti politici, a partire dalla strage degli ufficiali polacchi a Katyn in Polonia nel 1940 (16) — Petr Soprunenko, Daniil Kopeljanskij, Pavel Sudoplatov (1907-1996) e Oleg Danilovic Kalugin — sono quasi tutti tuttora viventi, tranquilli pensionati dediti alla stesura delle proprie memorie (17), che, guarda caso, trovano chi le pubblichi proprio in Occidente, dove invece si rifiutano i documenti esplosivi degli archivi di Mosca. Anche i reduci dai corsi di formazione «speciale» e gl’innumerevoli agenti sparsi in tutto il mondo dall’immenso apparato spionistico sovietico sono tuttora indenni e nostri «pacifici» conviventi.
Ma nessuno, secondo Bukovskij, convocherà mai un’altra Norimberga, per il semplice fatto che «[…] per istituire un tribunale internazionale come quello di Norimberga, occorre prima vincere» (p. 63, in corsivo nel testo) e l’Occidente non ha vinto, non ha sconfitto l’Unione Sovietica e il comunismo, come invece ha fatto, in un soprassalto di coscienza, dopo molteplici connivenze e rese, con il nazionalsocialismo hitleriano. Unione Sovietica e comunismo sono semplicemente «implosi» — non senza metamorfizzarsi (18) — da soli: «[…] il comunismo — conferma Bukovskij, fra l’ironico e il drammatico — è crollato per conto suo, a dispetto degli sforzi che tutti hanno fatto per salvarlo» (p. 64). Infatti, proprio grazie all’atteggiamento complice dell’Occidente — che accoglie l’autocrate bolscevico Iosif Vissarionovič Dzugasvili “Stalin” (1879-1953) come giudice a Norimberga, che accetta la «coesistenza pacifica» con Nikita Sergeevic Chruscev (1894-1971), la «distensione» e la «cooperazione» con Leonid Il’ič Breznev (19061982) —, il comunismo ha potuto resistere così a lungo e perpetuare i suoi disastri nell’umanità.
4. L’Unione Sovietica
a. La resistenza interna
Mentre il secondo capitolo della prima parte — La notte dopo la battaglia appartiene ai predatori (pp. 72-115) — è dedicato alla ricostruzione densa di particolari dell’avventura moscovita di Bukovskij dal 1991 al 1993 riferita in esordio, i successivi quattro capitoli — Indietro verso il futuro (pp. 116-370), Il tradimento (pp. 371458), Gli anni della svolta (pp. 459-664) e La rivoluzione che non ci fu (pp. 665-764) — contengono una rivisitazione della storia russa contemporanea, della storia del comunismo e delle vicende della dissidenza sovietica e di quella di Bukovskij in particolare, scandita dai documenti.
Tutto ciò si traduce in una messe talmente fitta di dati, di nomi di personaggi, di fatti, di giudizi e di giudizi su giudizi, che è pressoché impossibile darne conto in maniera sufficientemente ampia e dettagliata, così com’è purtroppo impossibile riportare tutte le informazioni «forti» dei documenti, nonché le altrettanto numerose valutazioni politiche e ideali di Bukovskij — rese con prosa eccellente —, che costellano la narrazione dei fatti e che testimoniano lo spessore culturale e umano dell’autore. Pertanto ne riassumo per sommi capi il contenuto, segnalando gli elementi di maggior interesse (19).
Il terzo capitolo, dall’ironico titolo Indietro verso il futuro, rimette in discussione la strategia tenuta dalla resistenza antisovietica, evidenziandone le contraddizioni e gli errori. La considerazione di fondo è la seguente: «Dieci-quindici anni andarono […] perduti. Se l’Occidente avesse seguito i nostri consigli, avesse inasprito le relazioni anziché optare per la distensione, di più, se avesse sfruttato i metodi della “guerra ideologica”, l’Unione Sovietica sarebbe crollata una decina d’anni prima [del decennio segnato dalla crisi polacca e dalla sconfitta in Afghanistan], con esiti assolutamente diversi» (p. 117). Affiorano nella fitta trama delle realtà evocate i nomi di Andrej Alekseevič Amal’rik (1938-1980) — acuto pronosticatore della crisi finale dell’URSS fin dagli anni 1970 (20) —, di Aleksandr Isaevič Solženicyn (1918-2008) — esponente dell’«estrema destra» della dissidenza, poco amato dai compagni di sventura —, di Andrej Dmitrevič Sacharov (19211989) — illuso, ma poi pentito, dalla perestrojka gorbaceviana, di Aleksandr Aleksandrovič Zinov’ev (1922-2006) — che preferiva il potere sovietico a Solženicyn (p. 119) —, di padre Gleb Pavlovič Jakunin (1936-2014) — che invitava «[…] la gente a votare per l’ex generale del KGB Kalugin, lo stesso che in passato aveva organizzato gli assassini dei dissidenti» (p. 125). Il compito del movimento clandestino avrebbe dovuto essere, secondo Bukovskij, quello di preparare, d’accordo con i circoli occidentali, una transizione «morbida» verso un assetto del potere non più egemonizzato dal partito comunista. Ma l’establishment occidentale era completamente sedotto dalle «riforme» di Gorbacev, il cui scopo era invece proprio e solo quello di salvare tale egemonia cedendo il meno possibile.
b. L’età staliniana
L’autore prosegue poi con un’analisi di documenti riguardanti l’era staliniana, di cui mette in evidenza — con cifre puntuali — i massacri, la liquidazione di intere classi sociali e confessioni religiose, la deportazione di etnie, l’annientamento di gruppi sociali e ideologici, le sanguinose «purghe» dell’apparato e dell’esercito, in Russia e nelle altre nazionalità sottoposte al giogo di Mosca.
c. L’era di Breznev
La repressione della dissidenza e dei moti delle nazionalità prosegue anche negli anni del «disgelo» e nell’era di Breznev. Dai verbali del CC emerge sorprendentemente come il KGB informasse questo alto consesso di ogni minimo particolare anche personale che riguardasse questo o quell’esponente della dissidenza e che l’organo discutesse animatamente i casi di tutti e di ciascuno anche nei suoi componenti maggiori, il maresciallo Dmitrij Fjodorovič Ustinov (19081984), Konstantin Ustinovič Cernenko (1911-1985), Andrej Andreevič Gromyko (1909-1989), Viktor Michajlovič Cebrikov (1923-1999), Andropov, Gorbacev e Breznev.
I «casi» più celebri di quest’epoca sono quello di Svetlana Allilueva (1926-2011), la figlia di Stalin, e «Danièl’-Sinjavskij» e «Ginzburg-Galanskov»; ancora, il caso del generale Petr Grigor’evič Grigorenko (1907-1987), quello di Anatolij Tikhonovič Marcenko (1938-1986), il caso Sacharov, il caso Solženicyn, il caso dello stesso Bukovskij e tanti altri. Essi iniziano a rompere l’involucro di paura dei cittadini, aumentandone il già crescente rigetto per l’ideologia ufficiale, e a incrinare il prestigio della classe dirigente comunista, che reagisce inventando nuove forme di lotta alla resistenza: non più, come ai tempi «aurei» della ČECA guidata dal «Feliks di ferro» — ovvero Dzerzinskij, la cui statua di metallo giganteggiava sinistra davanti all’enorme edificio della prigione della Lubjanka a Mosca —, eliminazioni fisiche, ma arresti, espulsioni, domicili coatti, intimidazioni e diffamazione.
d. La repressione attraverso la psichiatria
La «cavalcata» di Bukovskij attraverso trent’anni di storia della dissidenza antisovietica tocca anche il tema della psichiatria come strumento di repressione politica (21), decisa anch’essa dopo ampi
dibattiti al vertice del CC, impiegata in grande stile dal regime e altrettanto in grande stile negata soprattutto attraverso la «disinformazione» attuata in Occidente. Un fatto questo che, afferma Bukovskij, «sarà ricordato dai nostri successori per secoli e secoli, come noi ricordiamo la ghigliottina della rivoluzione francese, come rimarranno nella storia i GULag staliniani e le camere a gas hitleriane» (p. 252).
e. Andropov
Interessante è il giudizio sulla «mente» della repressione in quegli anni, il futuro segretario generale del PCUS Andropov, ideatore e primo artefice della «svolta» degli anni 1980: «[…] Andropov mi intrigava molto. Se tipici apparatciki alla [Michail Andreevič] Suslov [1908-1982], dopo aver mentito tutta la vita, potevano effettivamente non distinguere più fra ideologia e realtà, e se vecchi fossili come Breznev e Cernenko probabilmente non erano stati in grado di pensare nemmeno nei loro anni migliori, Andropov non mi dava l’impressione d’essere né idiota né fanatico. A differenza dei suoi colleghi di partito, non sembrava essere un uomo capace di credere alla sua stessa disinformazione» (p. 256). Nonostante la sua fama di «liberale», però «in realtà egli non era più liberale di [Lavrentij Pavlovic] Berja [(1889-1953)] […]. Esattamente come Berija aspirava al potere e non gli sorrideva l’idea di farsi il nome di strangolatore dell’intelligencija» (pp. 258-259).
f. Si apre l’era Gorbacev
Seguono molte pagine dedicate a riprendere, illuminandole con i documenti segreti, le questioni e le posizioni interne all’intelligentija russa e al movimento di resistenza al regime fino all’apparire della glasnost’, la «trasparenza», gorbaceviana, il cui primo attore ricorda a Bukovskij Cicikov — un personaggio del capolavoro di Nikolaj Vasil’evič Gogol’ (1809-1852), il romanzo Le anime morte (22) —, il perfetto mediocre, «[…] un signore piacevole sotto tutti gli aspetti! [… ] non bello, ma nemmeno di brutto aspetto, né troppo grasso né troppo magro; non potevi dire che fosse vecchio, e tuttavia nemmeno che fosse troppo giovane…» (p. 317). E Bukovskij si sofferma su quest’ultima fase del regime per smascherarne la natura profondamente «conservatrice», al di là delle parole d’ordine, come glasnost’ e perestrojka, e delle autentiche menzogne fatte circolare in Occidente, come l’esistenza di uno spauracchio nazionalista costituito dal movimento Pamjat’, «Memoria», o dallo stesso Vladimir Volfovič Zirinovskij — quella del falso nazionalismo era un’idea del KGB approvata nel 1989 —, che Bukovskij definisce «un informatore del KGB di seconda categoria» (p. 778). Anche l’«investitura» politica di Gorbacev da parte dei vertici della nomenklatura è riportata diffusamente, attingendo sempre ai verbali del CC (23).
f. L’«establishment» occidentale sordo ai richiami delle vittime
La seconda parte — In Occidente (pp. 371-798) — si apre con la rievocazione — nel quarto capitolo, Il tradimento (pp. 371-458) — dell’accoglienza ricevuta da Bukovskij in Occidente alla metà degli anni 1970, dopo la sua espulsione. Un’accoglienza sostanziata da una sordità pervicace alle sue spiegazioni della realtà sovietica, che cozzavano contro i preconcetti, gli schemi ideologici mondialisti (24) e pacifisti, con la disinformazione (25) e la mitologia seminate dal KGB, nonché contro gl’interessi economici dei «poteri forti». Un atteggiamento più di sopportazione di un disturbatore che non di fraterna solidarietà con un compagno di lotta e una vittima del comune nemico. «Abbiamo dovuto farci strada attraverso l’ottusa opposizione dell’establishment dell’Occidente, resistere alla calunnia, sentirci apertamente odiati, come se fosse compito esclusivamente nostro eliminare il comunismo, neanche fosse un problema locale, estraneo al resto del mondo» (p. 374), lamenta Bukovskij.
Una premessa questa all’analisi di come l’URSS fu vista «da Occidente», dai tempi della «coesistenza pacifica» e della «distensione» alla dottrina del «contenimento» — e non della sconfitta — del comunismo mondiale, alla realtà delle ripetute invasioni o re-invasioni o presa del potere operate dai sovietici in sempre più numerosi paesi del mondo. In questa panoramica Bukovskij torna sulle origini della Ostpolitik tedesca, propiziata da ricatti nei confronti dei vertici politici e dall’infiltrazione nella SPD — che veniva rinchiusa nello schema-trappola della dialettica menscevichi-bolscevichi —, si può dire «cascata nel piatto» dei sovietici all’indomani della sanguinosa invasione praghese dell’estate del 1968. Si sofferma anche insistentemente sull’atteggiamento costantemente collaborativo e sostanzialmente proditorio tenuto dai governi occidentali verso il regime, in particolare sul contegno degli Stati Uniti d’America, per cui esprime sentimenti di scarsi stima e affetto, che verranno ribaditi nell’ultima parte dell’opera, quando tratterà del «nuovo ordine mondiale» a guida statunitense. Eccone un saggio: «Penso che l’ideologia comunista non avrebbe mai potuto mettere radice negli USA per il semplice fatto che è troppo complicata, troppo concettuale e presuppone una certa conoscenza della storia. Il comunismo è una malattia della cultura e dell’intelletto e siccome in America mancano sia l’una sia l’altro, non c’è nessun pericolo di epidemia» (p. 415). L’establishment statunitense di sinistra però, con il suo illuminismo semplicistico, è visto da Bukovskij come naturalmente recettivo degli stimoli ideologici comunisti e, nella misura in cui affolla i ranghi dell’Amministrazione, la rende sempre più prona all’avversario strategico — con un flusso di scambi particolarmente intenso durante le presidenze di Richard Milhous Nixon (19131994) e James Earl «Jimmy» Carter —, almeno fino alla «svolta» dei primi anni 1980, con l’avvento alla presidenza di Ronald Wilson Reagan (1911-2004) e il relativo irrigidimento della politica americana verso l’Unione Sovietica.
g. L’inizio della fine
Gli anni della svolta — come s’intitola il lungo quinto capitolo — sono appunto gli anni 1980, con l’invasione sovietica dell’Afghanistan iniziata nel dicembre del 1979 e conclusasi nel febbraio del 1989 — che suscita condanna in Occidente, ma non impedisce che Mosca venga scelta come sede dei Giochi Olimpici del 1980 — e la sconfitta finale, almeno in termini strategici, subita dall’impero socialcomunista. Lo scacco afghano va a sommarsi all’esplosione di Solidarnosč in Polonia, all’installazione nei paesi dell’Europa Occidentale dei missili a medio raggio Pershing e Cruise, che neutralizzavano gli SS-20 sovietici — nonostante la furibonda campagna di contro-informazione scatenata dall’Unione Sovietica e dai partiti comunisti e assecondata dagli ambienti pacifisti occidentali — e all’introduzione — o almeno al progetto avanzato — della SDI, la Strategic Defense Iniziative, il cosiddetto «scudo spaziale» antinucleare americano, che vanificava il sensibile vantaggio sovietico nel campo delle armi tattiche e tradizionali. In ultima analisi, questo insieme di realtà accentua e accelera il tracollo del complesso politico-militare-industriale, vero nucleo della potenza sovietica, e convince il Politbjuro a imboccare la strada del «cedere per non perdere».
Due paragrafi — Le colombe della pace (pp. 563-570) e Pagamento in natura (pp. 571-577) — sono specificamente dedicati a trattare degli aiuti indiretti — viaggi e soggiorni gratuiti per convegni e per campagne propagandistiche — fatti affluire in questa fase dall’URSS e dai partiti comunisti alle organizzazioni pacifiste e di sinistra occidentali per tentare di bloccare le iniziative militari. Nonostante questa prodigalità nei confronti di tutti i centri e le realtà che potevano diffondere la Rivoluzione comunista nel mondo — Bukovskij non dimentica di sottolineare il sostegno finanziario quasi totale fornito alla disastrosa economia cubana e quello fornito al regime polacco, calcolato in quasi tre miliardi di dollari per il periodo 1981-1982 — e contribuire allo sforzo competitivo globale sovietico, la situazione economica interna dell’impero negli anni 1980 si fa di giorno in giorno più grave e critica. «Da un lato l’Afghanistan, dall’altro la Polonia, la crescente ostilità dell’Occidente, il fiasco della campagna per il disarmo, e in terzo luogo, ma in posizione centrale, l’economia che slittava sempre più giù, il malcontento delle masse, il ritardo tecnologico, la corruzione irrimediabile dell’apparato del potere. Tutto ciò messo assieme significava la crisi del sistema» (p. 638): così Bukovskij riassume la situazione sovietica agl’inizi degli anni 1980. La responsabilità è intrinseca al modello socialista, che Bukovskij considera una contradictio in terminis: infatti «l’idea base del socialismo è quella della “giusta distribuzione” dei beni, non della loro creazione, per cui ogni “modello” lavora alla dissipazione dei beni, nel senso che “distribuisce” finché c’è qualcosa da distribuire. Quando le ricchezze che si sono andate accumulando nei secoli sono state “distribuite” ed è stato distrutto tutto quanto può recare profitto, si comincia a dissipare le risorse naturali e ad accumulare debito estero fino alla bancarotta» (p. 647); e la relativamente lunga vita del modello è legata esclusivamente all’abbondanza di ricchezze naturali della Russia. In realtà, «già negli anni sessanta cominciò a mancare la mano d’opera, negli anni settanta la terra coltivabile, negli ottanta il combustibile, l’energia, il petrolio, sebbene tutto ciò esistesse in natura. Il sistema si dimostrò persino incapace di dilapidare in modo efficace le sue ricchezze naturali» (p. 648). Tenendo conto del fatto che più di metà dell’economia lavorava per mantenere l’apparato militare e che era iniziata la rivoluzione tecnologica nelle comunicazioni, con la comparsa di miriadi di centri informativi alternativi a quelli controllati dal regime, il collasso si profila all’orizzonte. Da questa crisi sempre meno controllabile e da una meno rinunciataria politica occidentale, portata avanti soprattutto dall’Amministrazione Reagan, intenzionata almeno ad alzare il «costo dell’impero» sovietico — Bukovskij fa l’esempio dell’attacco concentrico al predominio sovietico nel campo del gas naturale, che costa all’URSS la perdita di oltre un terzo dei vitali introiti in valuta pregiata —, nascono le «riforme» dell’era Gorbacev.
h. Gorbacev
Nel sesto capitolo La rivoluzione che non ci fu viene analizzato in profondità il periodo dal 1985 al 1991.
Il lancio di Gorbacev, come «liberale», «giovane», «energico», «amico dell ‘Occidente», e della sua elegante consorte Raissa Maksimovna Titorenko (1932-1999) — già docente di storia delle religioni, di ateismo e di filosofia marxista- leninista (26) — era stato accuratamente pianificato e massicciamente attuato ancor prima del suo insediamento al vertice del PCUS. «Attorno a Gorbacev e alle sue “riforme” — esordisce Bukovskij — c’è stato un tale cumulo di menzogne (alimentate anche da lui stesso), e di dimensioni talmente fantastiche, che si può credere soltanto ai documenti. Va inoltre tenuto presente che i documenti riguardanti il suo periodo di governo hanno subito una sostanziale ripulita: dopo il fallimento del putsch dell’agosto 1991 i suoi informatori fecero sparire tutto quello che poterono» (p. 666). Al momento della sua nomina a segretario generale del PCUS Gorbacev ribadirà: «Non abbiamo bisogno di cambiare politica. È una politica vera, giusta, autenticamente leniniana» (p. 667). Come già con Vladimir Il’ič Ul’janov Lenin (1870-1924) nel 1924 e con Chruscev nel 1956, il partito non esita a scuotere il regime dalle fondamenta per salvare il socialismo. Con la nuova leadership la disinformazione assume dimensioni enormi e realizza il suo capolavoro quando fa credere all’Occidente che nel partito sovietico esistano «falchi» e «colombe» o «conservatori» e «riformatori», forgiandosi così una leva potentissima per dialettizzare le situazioni.
i. L’idillio fra Gorbacev e l’«establishment» occidentale
Mentre il regime non molla di un palmo in Afghanistan e rimane più repressivo che mai all’interno, ogni vago accenno al cambiamento viene subito interpretato all’estero come una riforma già realizzata. Anche il disastro nucleare di Cernobyl, avvenuto nel 1986 in Ucraina, non scalfisce Michail Sergeevič, mentre si ritorce paradossalmente ai danni del potenziale nucleare occidentale. Il credito di fiducia che l’establishment occidentale faceva nei confronti di un uomo del tutto sconosciuto e in quanto alto funzionario di carriera del partito — e, aggiungo, responsabile per alcuni anni di un settore delicatissimo del partito, gli organi amministrativi, una sorta di ufficio del personale dell’organizzazione comunista — implicato fino al collo nei crimini del regime, avveniva del tutto al buio. Le parole d’ordine e i contenuti del piano di perestrojka elaborato per uscire dalla crisi e per riprendere la rimpianta politica di distensione con l’Ovest erano frutto non del caso o di un soprassalto di buona volontà del carismatico leader o del regime, ma dello sforzo coordinato di cervelli di prim’ordine per salvare il comunismo: «[…] fin da prima del 1985 ben 110 ricerche e lavori erano stati presentati al CC dai vari trust di cervelli» (p. 679). Anzi, in un’opera «controcorrente», un ex collaboratore della Sezione Internazionale del CC del PCUS, Eugen Novikov (27), sostiene che la preparazione era già cominciata all’inizio degli anni 1970, sotto Andropov, fra i «pensatori» di professione e grazie all’«[…] attività [di] tutta una serie di istituti accademici. Fra i loro compiti rientrava la revisione dell’ideologia, l’elaborazione di modelli alternativi e la ricerca di vie per trasformare il modello esistente in qualcosa di più razionale» (p. 680). Riforme nate sotto la regìa di Andropov e coordinate dalla sezione esteri del CC non potevano uscire dai «[…] confini del marxismo: si trattava soltanto di una revisione della sua variante “leniniana che lo avvicinava alla social-democrazia”» (ibidem).
l. Gli eventi del 1989
«Gli impressionanti avvenimenti verificatisi nel 1989 nel mondo comunista rimangono tuttora un enigma che per qualche ragione nessuno sembra interessato a sciogliere. Sotto i nostri occhi è accaduto apparentemente qualcosa di grandioso e di incredibile: nell’Europa Orientale, senza spargimento di sangue e senza particolari conflitti, è crollato il potente blocco sovietico. Tuttavia nessun governo occidentale e nessuna organizzazione internazionale […] ha analizzato come e perché ciò sia potuto accadere» (p. 694). Le spiegazioni che si trovano nelle più recenti enciclopedie risultano futili o si limitano a registrare puramente i fatti. La mano dei servizi segreti sovietici emerge evidente nell’orchestrazione delle false rivolte del 1989 e, in particolare, di quella monstre di Bucarest, conclusasi con successo ma al prezzo dell’eccidio della famiglia comunista «regnante», i Ceausescu — Nicolae (1918-1989) ed Elena (1919-1989) —, solo perché non accettava supinamente le disposizioni moscovite. Anche la «caduta del muro» a Berlino e la dissoluzione della Repubblica Democratica Tedesca — favorita nel piano non per amore di libertà, ma in vista di una riunificazione e contemporanea neutralizzazione del paese —, culminata nell’invasione «popolare» della sede dei servizi segreti dello Stato comunista, la Stasi — la Staatssicherheit, la «Sicurezza di Stato» —, e la distruzione «popolare» di migliaia di dossier, sono per Bukovskij un capolavoro di manipolazione. Ma perché l’URSS ritenne o dovette inscenare quello spettacolo di «liberazione spontanea», invece che effettuare un semplice avvicendamento di leadership nei vari paesi? Ancora più strano che Mosca abbia «abbandonato» i partiti comunisti dell’Europa Orientale, se si pensa che nel contempo non abbandona affatto quelli delle nazioni extra europee — cileno, libanese, turco, cipriota —, ma continua a finanziarli, ad addestrarne i membri, a dirigervi e a mantenervi reti spionistiche. La tesi di Bukovskij è che la casa-madre moscovita puntasse a creare tanti «PDS», ovvero partiti non più marxisti ma «democratici» sul modello di quello tedesco-orientale della fase precedente la caduta del Muro, tuttora esistente nella Germania riunificata, oppure del partito italiano che nascerà dalle ceneri del PCI al momento della «svolta della Bolognina» — un quartiere di Bologna —, operata da Achille Occhetto nel 1989. Mantenere cioè nei diversi paesi una presenza immutata, sotto forma di partito apparentemente rinnovato e magari insediatosi al potere attraverso elezioni democratiche, ma sotto il pieno controllo della centrale sovietica. Il piano riesce in pieno — pur con i limiti evocati — solo nella Romania di Ion Iliescu. Negli altri paesi il risultato è imperfetto ed eterogeneo: si va dalla perdita completa di controllo della Repubblica Democratica Tedesca e dei regimi comunisti in Cecoslovacchia, in Ungheria e in Polonia, a forme intermedie di conservazione del potere, come in Bulgaria e in Albania. Dove il partito comunista perde la titolarità del potere conserva però un’influenza enorme in campo economico, burocratico e finanziario. Non solo, dove perde è in genere per poco tempo: solo il partito comunista dispone infatti di una classe dirigente e di quadri in grado di amministrare i paesi, mentre l’opposizione, distrutta da anni di terrorismo di Stato, dovrà attendere molto tempo prima di poter formare una classe dirigente alternativa.
m. L’URSS fra il 1989 e il «putsch» di agosto del 1991
Poi è la volta dell’URSS stessa. In primis, si assiste alla cosiddetta «privatizzazione» del potere, così descritta da Bukovskij: «Da un lato, le strutture del KGB e della Sezione internazionale del CC crearono una miriade di cosiddette “imprese commerciali” e di joint-ventures con i loro “amici” occidentali; dall’altro, sotto la copertura della nuova Legge sulle Cooperative, la nomenklatura economico-partitica cominciò a impadronirsi delle proprietà statali, fondendosi ancor di più con l’economia sommersa» (p. 718).
Con una nota segretissima del 23 agosto 1990 — che Bukovskij cita dall’opera di Novikov — il CC «[…] proponeva l’entrata massiccia dell’elite del partito nel mondo dei mercati finanziari» (ibidem). Era l’inizio dell’allestimento in tutte le regioni della federazione di centinaia d’imprese, di società e di banche per «lavare» il denaro del partito «succhiato» dallo Stato sovietico. Riguardo al cardine della società socialista, l’abolizione della proprietà privata, vengono introdotti cambiamenti in apparenza radicali ma in realtà scaltramente conservatori. Invece che reintrodurre in pieno tale principio, «il partito progettava di tenere nelle sue mani il possesso e di affittare l’utilizzo a chi ne fosse interessato, garantendosi in tal modo il godimento in comune con i produttori di tutti i mezzi di produzione del paese» (pp. 719-720), e questo veniva fatto passare per introduzione dell’economia di mercato.
Nella primavera del 1989 doveva essere attuata anche un’apertura in campo politico, con la concessione di maggiore spazio ai soviet, ovvero elezioni. «E di nuovo — commenta Bukovskij —, sulla carta tutto pareva ragionevole e perfettamente marxista: se la “classe dominante” aveva deciso di dividere con altri il diritto alla proprietà sui mezzi di produzione, doveva dividere con loro anche il potere» (p. 721). Ma la sortita si chiude imprevedibilmente con la sconfitta elettorale del partito. Se nelle province la galassia dei dirigenti di partito si limita semplicemente a trasferirsi dalle scrivanie di partito ai posti di comando delle assemblee elette, la situazione al centro sfugge di mano al PCUS.
Prima deve assistere impotente alla disgregazione dell’impero, che sulle prime aveva cercato duramente di contrastare nei paesi baltici, poi, di fronte alla marea montante della protesta popolare, deve abrogare l’articolo 6 della Costituzione, che sancisce l’egemonia assoluta del PCUS sullo Stato.
I quadri del partito iniziano allora a trasformare la «privatizzazione» del potere in un’autentica fuga verso la società e il mondo finanziario e comincia anche, d’accordo con i partner occidentali, l’esodo di miliardi di valuta pregiata dello Stato verso l’estero, una fuga sancita dopo il finto golpe dell’agosto 1991 dal «suicidio» dei «[…] due uomini che disponevano direttamente delle proprietà e delle finanze del partito durante la perestrojka» (p. 724). Altri alti papaveri spariscono nel nulla magari andando all’estero, come Valentin Michailovič Falin, che vi risiede tuttora (28).
Il quadro del crepuscolo del mondo socialista sovietico è dipinto da Bukovskij con toni volutamente duri ed efficaci. «Stupefacente: hanno devastato il paese per più di settant’anni, hanno eliminato popoli interi, hanno disseminato discordie sanguinose su tutta la terra, hanno mortificato anche le minime manifestazioni dello spirito umano, e durante gli ultimi sette anni hanno cercato con disperazione di salvare il loro regime, senza fermarsi né di fronte allo spargimento di sangue, né di fronte all’inganno più sfrontato. Infine, perso ormai il controllo, hanno depredato il paese e vigliaccamente se la sono squagliata nascondendosi dietro le spalle dei loro complici occidentali. E noi ora dovremmo essere loro grati!» (pp. 724-725).
n. Il «golpe» di agosto
Riguardo al golpe dell’agosto del 1991 (29) Bukovskij inizia mettendo in discussione, documenti alla mano, che il primo segretario del partito, Gorbacev, non fosse informato dell’evolversi della situazione e che, quindi, non ne fosse responsabile, ma vittima. «Sul suo tavolo approdava letteralmente tutto, dai problemi economici delle regioni, alla situazione delle singole organizzazioni del partito e agli avvenimenti internazionali» (p. 726). Il collasso economico, la crescita delle organizzazioni dell’opposizione, il caos montante nei paesi baltici e nelle repubbliche, problemi d’immagine di grande portata — come riconoscere o no la responsabilità dell’Unione Sovietica nel massacro di Katyn — configuravano uno scenario in cui il gruppo dirigente rischiava seriamente di perdere il controllo della situazione e del paese.
Di qui la decisione presa alla fine del 1990 e all’inizio del 1991 d’intervenire e d’intervenire con durezza, «alla polacca». Bukovskij individua i prodromi di questo cambiamento di tattica nel progressivo uscire di scena dei membri più «gradevoli» all’Occidente, come il georgiano Eduard Amvrosievič Sevardnadze (1928-2014) (30), e l’arrivo di personaggi più consoni allo sporco lavoro — «ottusi esecutori che non temessero il sangue» (p. 728), come li chiama Bukovskij — di riportare l’ordine in URSS. Lo schema del piano che verrà seguito in agosto a Mosca — soprattutto l’isolamento informativo e la creazione di un «comitato per la salvezza nazionale» — viene collaudato nella ribelle Lituania lo stesso gennaio del 1991.
Ma il «caso» lituano suona giustamente come un campanello d’allarme non solo per i lituani, ma per tutta la Federazione e gli scioperi e le dimostrazioni anticomuniste si moltiplicano. Davanti a questa reazione imprevista l’intervento di forza viene temporaneamente accantonato e il gruppo dirigente tenta invano di aprire negoziati con l’opposizione e con le forze sociali. Il 19 agosto segna il tentativo di forzare i tempi e di uscire con la forza della disperazione dalla crisi. Gorbacev non poteva essere all’oscuro né vittima degli eventi in quanto nulla, per la specifica conformazione della struttura del potere sovietico, avrebbe potuto muoversi, né in campo militare né nel partito, senza una sua specifica approvazione. Ma il succo dell’operazione doveva essere confezionato in maniera tale da non indisporre il pur ultraflessibile Occidente. Il ricorso alla sceneggiata del golpe contro Gorbacev e contro le riforme, attuato dai conservatori comunisti, nasce da questa pluralità di esigenze. Si trattava di un piano, che prevedeva di prendere le misure più dure e impopolari contro l’opposizione e poi una volta ripristinato l’«ordine socialista», pur nella versione corretta degli anni 1990, far tornare dopo pochi mesi Gorbacev in veste di vincitore sui «falchi», per riottenere ancora maggior credito e appoggio da parte dell’Occidente e per poter così risolvere anche quella che in termini marxisti poteva essere considerata «l’infrastruttura della crisi», ovvero il disastro economico.
Due sono però gli errori di valutazione che portarono alla sconfitta del disegno di autogolpe comunista: sottovalutare la capacità di reazione del popolo, perennemente assente dalle ipotesi di lavoro del partito, e non tenere sufficiente conto della disgregazione dell’apparato partitico e militare-spionistico. Anche il grottesco comportamento tenuto dai golpisti «in corso d’opera» si spiega con questi imprevisti ostacoli. Quando si accorgono di non riuscir più ad attivare le leve della manovra repressiva allora si precipitano in Crimea dalla loro «vittima». «Sembra di vederli — scrive Bukovskij — mentre tentano di convincere Gorbacev: “Michail Sergeevic, senza di Lei non si combina nulla. L’esercito si rifiuta di muoversi senza un ordine dello Stato Maggiore, il popolo si è ammassato attorno alla Casa Bianca e non lo si può disperdere senza spargimento di sangue. La nostra unica speranza è Lei…”» (pp. 733-734).
o. Lo scenario dopo il «golpe»
Ma il frutto di questi eventi e della grande mobilitazione popolare dell’agosto, che lasciava preludere a una liberazione di cui il popolo russo era per la prima volta dopo quasi un secolo protagonista attivo, non fu purtroppo una «rivoluzione». «Ormai scardinato — scrive Bukovskij —, il paese cadde a pezzi, e ciascun pezzo finì nelle mani delle mafie del partito. La “nuova” elite politica che era venuta in superficie risultò essere la vecchia nomenklatura che siera adattata per tempo alle nuove condizioni. Quella “nuova” elite non aveva bisogno di nessun cambiamento radicale come non aveva bisogno della vecchia ideologia, perché nelle sue mani erano rimaste sia le “strutture commerciali”, sia la proprietà, i finti partiti, i mezzi d’informazione e le relazioni internazionali con i vecchi “amici”. Cominciava l’era del “potere occulto”, nella quale era impossibile stabilire chi stesse alle spalle di chi, e chi fosse al servizio di chi. Cominciava l’era della “cleptocrazia” [governo dei ladri], dalla quale la Russia probabilmente non uscirà più» (p. 734) (31).
p. Bilancio dell’esperienza Gorbacev
Che dire dell’esperienza Gorbacev? Il giudizio di Bukovskij è come sempre sferzante. «Gorby» era un manichino a uso dell’Occidente, era lo «zar-riformatore» liberale da lungo tempo atteso per addolcire ulteriormente l’ormai accettata coesistenza pacifica. Avevano tentato di crearne uno ancora prima, con Andropov, ma costui era morto troppo presto… Lo scopo era «fare business» con lui, come si espresse, apprezzando il fatto, il premier britannico Margaret Hilda Roberts Thatcher (1925-2013), e per salvare il socialismo in Russia d’accordo con i mondialisti americani, desiderosi di salvare a tutti i costi l’esperimento sovietico, e con l’«altro» socialismo, quello «democratico» dei paesi occidentali, anch’esso interessato a non subire delegittimazioni di riflesso. Questo minuetto dell’Occidente della Thatcher, di George Herbert Walker Bush e perfino di Reagan — che recede a un certo punto dalla sua politica di logoramento economico dell’avversario e dà il via al fantastico finanziamento dei «riformisti» sovietici sulla base di prestiti, di facilitazioni commerciali, di rifornimenti alimentari, di trasferimenti o di mancato impedimento ai trasferimenti di tecnologia — con Gorbacev sarebbe costato almeno sette anni di ritardo nella caduta del comunismo sovietico e una situazione di uscita dallo stesso così ambigua e dolorosa. Spicca nel quadro delle incomprensioni, delle decisioni ideologiche e dei tradimenti del popolo russo la figura del segretario di Stato americano James Addison Baker, che — secondo Bukovskij — è stato solamente «[…] un imbecille, ignorante, tronfio e pieno di sé, tutto preso da sogni di strutture globali “da Vancouver a Vladivostok”, di cui egli sarebbe diventato l’architetto […]. Ricordo di aver proposto in una mia conferenza l’introduzione di un’unità di misura della sconsideratezza politica come “un Baker” (mentre nel caso dell’uomo della strada si sarebbe misurato in “millibaker”). Persino al culmine del sanguinoso spettacolo sovietico di Bucarest del Natale 1989, Baker dichiarò che avrebbe accolto “con comprensione l’invio di truppe sovietiche in Romania per aiutare i nemici insorti di Ceausescu”» (p. 739). Il regime sovietico, dal canto suo, evitava d’inasprire i toni nei confronti degli oppositori e, nel mercanteggiare con l’Occidente, iniziava a cedere impassibilmente su punti sui quali mai aveva accettato il dialogo, né condizioni, fossero essi ideologici — come la liberazione di Sacharov e la pubblicazione delle opere di Solženicyn —, oppure di carattere internazionale — come la rimozione del muro di Berlino e l’abbandono dell’Afghanistan. Un grande limite degli occidentali in questa negoziazione apparentemente bilaterale — o, almeno, meno unilaterale che in passato — era la difettosa comprensione del comunismo dovuta a carenze dottrinali. In particolare — scrive Bukovskij, prendendo come spunto alcune analisi di Nixon, «[…] se non capiscono che il marxismo è derivato dagli “ideali dell’Illuminismo”, non sono in grado di scorgerne la pericolosità. Il marxismo senza la deformazione “slavofila” per loro diventa accettabile anche per un “nuovo ordine mondiale”, perché dunque combatterlo?» (p. 746). Ma come potrebbero gli ambienti intellettuali e politici occidentali, gravidi di socialismo «fabiano» (32) e di socialdemocrazia? Una conferma tipica di questo handicap è il comportamento tenuto dalle potenze occidentali al momento della Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa — i cosiddetti «accordi di Helsinki» del 1973-1975 —, autentica occasione d’importanza capitale per contenere realmente l’espansionismo sovietico e aiutare in concreto la resistenza anticomunista. Invece di essere «giocati» negli anni successivi da Reagan, dalla Thatcher e dal cancelliere tedesco Helmut Kohl (1930-2017) in una prospettiva offensiva, ovvero come insieme di accordi nel cui quadro negoziare la libertà nell’Unione contro la sicurezza reciproca, si erano tramutati in un’opportunità per i sovietici di accentuare la spinta pacifista e destabilizzatrice verso le nazioni occidentali. L’idea addirittura di un secondo «piano Marshall» per l’Unione Sovietica in crisi economica negli anni gorbaceviani scatena questo puntuale e acuto commento di Bukovskij: «[…] 50 anni fa a nessuno era venuto in mente diproporre nulla del genere a una Germania non ancora sconfitta! Chi l’avrebbe proposto alla Francia di [Philippe] Pétain [1856-1951], all’Italia di [Benito] Mussolini [1883-1945] o alla Norvegia di [Vidkun] Quisling? [1887- 1945]. […] Se [i nostri padri] avessero agito altrimenti, l’Europa non avrebbe conosciuto la democrazia e avrebbe vissuto per decenni in una assurda realtà post-totalitaria» (p. 754).
q. Gli ultimi atti
Il dopo-golpe è anch’esso lungi da segnare una svolta decisiva. La ragione principale dell’incapacità dell’opposizione anticomunista di prendere in maniera decisa le redini di una situazione che si aggravava sempre di più è, secondo Bukovskij — che nell’aprile del 1991, come detto, aveva raggiunto Mosca per cercare di aiutare la resistenza —, la mancanza di una élite consapevole di quanto accade, che conosca la vera natura della cricca neo-comunista ancora occultamente al potere e disponga di mezzi di azione di massa proporzionati alla smisurata realtà del paese, necessari per fare leva su una ondata reale e montante di reazione popolare, unico antidoto alla controreazione e all’arroccamento militare della classe dirigente. I leader emersi per la prima volta dalle elezioni democratiche per i soviet erano almeno psicologicamente «figli» del regime, nonché troppo attaccati a un potere di recente conquistato in maniera del tutto inaspettata e, quindi, naturalmente conservatori e moderati nelle proposte di azione contro il regime. Lo stesso El’cin era troppo amico dei comunisti «liberali»: «Ma che senso ha incolpare solo lui, un vecchio apparatcik perennemente ubriaco?» (p. 760), si domanda Bukovskij.
Il periodo intercorrente fra l’aprile e l’agosto 1991 è stato importante e secondo Bukovskij è stato anche una grande occasione perduta, da rievocare con amarezza — «[…] da una generazione di gente immiserita e avvilita» (p. 761) — durante i freddi inverni successivi.
Nella chiusa della seconda parte e dell’opera — nel capitolo settimo, La resa dei conti (Epilogo) (pp. 765-798) — Bukovskij rievoca la difficoltà incontrata a far riflettere i russi, anche i meglio dotati intellettualmente, che c’era qualcosa di strano nel subitaneo «crollo» del comunismo e nell’altrettanto rapida e veemente spinta verso prospettive neo-capitalistiche «avanzate». Bukovskij avverte nei suoi concittadini un desiderio forte di chiudere frettolosamente con il passato, di tirare una riga sulle responsabilità e le colpe di azioni che hanno avuto conseguenze d’incalcolabile gravità per generazioni di cittadini sovietici. Una sorta di auto-assoluzione senza accusa di peccati e senza perdono.
Lo stesso putsch di agosto 1991 era stato una mezza rivoluzione: dopo i magnifici gesti dell’arringa al popolo dall’alto del carro armato e la messa fuori legge del partito comunista, El’cin aveva lasciato pressoché intatto il potere dell’apparato in periferia, non aveva smantellato del tutto le strutture del potere bolscevico, ovvero l’esercito e la burocrazia, che in un sistema come quello sovietico dominavano realmente sul paese, né aveva il controllo pieno dell’apparato spionistico e repressivo, di cui il KGB era solo un elemento, anche se di primo piano. Né aveva attaccato sufficientemente l’avversario con l’epurazione, attraverso i media e servendosi della magistratura. Anche le riforme vere, quelle che avrebbero davvero tagliato le gambe alla nomenklatura comunista, come la dichiarazione di piena legittimità della proprietà privata, che avrebbe inaugurato realmente un’economia di mercato, non vennero neppure iniziate. Un altro grave errore di base — complicato da tutta una serie di contraccolpi che Bukovskij descrive in dettaglio — è stato che, mentre «[…] le repubbliche vennero proclamate indipendenti e come tali riconosciute da Mosca, [… ] la Russia si proclamava “erede legittima” dell’Unione Sovietica, investita della responsabilità di mantenere la pace nell’ex impero. Questo [… ] non solo rese il popolo russo unico responsabile dei crimini del comunismo [… ] ma rese altresì impossibile qualsiasi riforma di rilievo delle mastodontiche forze armate sovietiche, disperse com’erano sul territorio dell’ex impero e molto spesso utilizzate per vigilare sui conflitti etnici locali» (p. 772).
L’esplosione della burocrazia, il riemergere della nomenklatura sotto aspetto di organizzazioni di affari, il mercato nero, la corruzione e la criminalità, non più frenati dalla almeno formalmente severa legislazione socialista, sono state le conseguenze del rinnovamento a metà. Tutta questa serie di fattori deformanti contribuiva e contribuisce a screditare l’idea stessa di libero mercato presso i russi e ad accrescere il loro scetticismo e la loro apatia. I neo-comunisti tornati alla legalità sfruttavano e sfruttano tutti questi fattori per sabotare la vera ristrutturazione del paese. Le intense e improvvisate “terapie» neo-liberistiche dei «figli» della nomenklatura, poi, come l’ex dirigente della rivista ideologica Kommunist Egor [Timurovič] Gajdar (1956-2009), hanno contribuito ad affondare una situazione già ai limiti. Né altre forze apparivano all’orizzonte in grado di governarla. Né i neo-bolscevichi, troppo contenti che fossero altri a scottarsi le mani con la patata bollente delle riforme, né gli pseudo-nazionalisti di Zirinovskij, mentre il paese sembrava sempre più disgregarsi geograficamente e politicamente.
5. Il contraccolpo del crollo
Ma neppure l’Occidente, secondo Bukovskij, rimarrà immune dalla «crisi universale di un’utopia vecchia di 200 anni» (p. 782). In primo luogo sul piano dei princìpi. Osserva Bukovskij: «Dal collasso dell’ordine mondiale alla bancarotta dello stato sociale, dalla crisi della democrazia rappresentativa, strapazzata e assediata da “minoranze” assetate di potere, alla degenerazione della nostra vita culturale, tutto ciò è il risultato diretto del sogno egualitario collettivista che ha regnato supremo fin dalla Rivoluzione Francese. […] le elite occidentali non sono ancora pronte a prendere atto della crisi, e tanto meno a dominarla. Senza pentirsi d’essersi rese complici in passato di orrendi delitti contro l’umanità, restano tenacemente aggrappate alla loro utopia in fallimento nel disperato sforzo di salvare le loro posizioni di potere» (ibidem). E aggiunge un’osservazione di estrema attualità: «Le rivelazioni di alcuni ex funzionari sovietici riguardo all’ampiezza della collaborazione occidentale con il regime sono state accolte con indignazione, come una “caccia alle streghe”. O al massimo con un’alzata di spalle: “So what? Who cares?”. Molti continuano a presentare quella loro alleanza ideologica con una certa nostalgia, se non addirittura con orgoglio, come una buona lotta per una nobile causa (andata storta per qualche ragione). Come se non stessimo parlando di un sistema che ha fatto fuori in un giorno più esseri umani di quanti non ne abbia giustiziati la Santa Inquisizione in trecento anni di esistenza (ricordatevi la nota di Stalin, che con un tratto di matita condannò a morte 6.000 persone in un colpo solo; l’Inquisizione ne ha giustiziate 5.000 nel corso di 300anni)» (p. 783; vedi il documento, «un semplice scarabocchio», che prova il gesto staliniano, a p. 128). Ma chi ha coltivato il sogno miseramente affogato nel sangue di milioni di vittime innocenti in Russia e nel mondo non rinuncia a esso nemmeno davanti al suo crollo. Non ha avuto una nuova Norimberga a fungere da risveglio e da deterrente, come per gli altri sognatori di un mondo diverso e migliore, i nazionalsocialisti. Il sistema di relazioni internazionali non rinuncia a proteggere gli ultimi spezzoni di socialismo reale, a Cuba, in Africa e altrove. Non espunge definitivamente l’utopia socialista dal quadro del «nuovo ordine mondiale» a guida occidentale, di cui l’utopia progressista tout court sembra essere rimasta la sostanza. Ha convocato tribunali internazionali per giudicare i crimini contro l’umanità commessi nella guerra jugoslava e non ha avuto il coraggio di istituirne uno contro il comunismo. Rileva Bukovskij che «l’errore fondamentale [dei nuovi architetti della società mondiale] consiste nella credenza antiscientifica e disumana che l’uomo sia malleabile all’infinito e che, alle “giuste” condizioni sociali, sia “perfettibile”, ovvero possa essere cambiato nel senso che piace a loro. Di conseguenza, essi non ammettono che le istituzioni base che la nostra civiltà ha sviluppato nel corso dei millenni riflettano i caratteri essenziali della natura umana. La proprietà privata, la famiglia, la religione e la nazione, tutte insieme e separatamente, sono state sottoposte a continui attacchi negli ultimi due secoli, con risultati inevitabilmente disastrosi» (p. 788). E acutamente prosegue: «Si è trattato, in definitiva, di una guerra combattuta per due secoli contro l’individuo, i suoi diritti, la sua dignità e la sua sovranità, da un’elite autoelettasi e assetata di potere, gli utopisti coercitivi. Il comunismo era l’espressione più coerente delle loro aspirazioni, e il suo fallimento avrebbe potuto e dovuto screditare l’intera concezione utopistica, come il crollo del nazismo aveva screditato il concetto dell’eugenetica» (ibidem).
6. Conclusioni
In definitiva però, conclude Bukovskij, «[…] non dovrei lamentarmi troppo, perché anche questo va messo nel conto della nostra natura umana. Ma attraverso tutte le tribolazioni della mia vita ho sempre continuato a credere nella sua parte migliore. E sebbene dubiti di vederla mai, credo ancora che un giorno arriverà un vecchio Giudice saggio a dirci: “Nessuna logica al mondo può rendere giusto tutto questo”. In quanto a me, tutto quello che posso fare è conservare i documenti per l’ora del Giudizio» (p. 797). Le immagini dei documenti più significativi si possono consultare nell’appendice alle pp. 799-832.
Gli archivi segreti di Mosca è dunque opera acuta e ricca di stimoli alla riflessione per i russi ma anche per gli europei e gli occidentali in genere, soprattutto ricca d’insegnamenti di straordinaria attualità, ricavati da un non comune buon senso, dalla tragica esperienza vissuta nei Lager e nella non facile condizione dell’esilio, e frutto di non secondari approfondimenti dottrinali. Le informazioni che offre sono indubitabilmente di gran lunga più numerose di quelle contenute nel più celebre Libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione.
Fra i principali takeaway dell’opera sono le prove documentate che il comunismo è stato una delle più gravi, forse la più grave malattia dello spirito umano e la più disumana tirannia concepibile in atto; quanto fosse delicato e precario l’equilibrio del regime, al punto che di ogni singolo dissidente si occupava l’organo supremo del comunismo di tutte le Russie; che esso non è finito; che non ha vinto ma non è nemmeno stato sconfitto: è «imploso» a causa delle sue carenze interne; che l’Occidente «che conta» ha sempre aiutato il comunismo a restare in sella e che esso si è pasciuto del benessere occidentale che criticava e combatteva; nonché, infine, l’eccezionale importanza della disinformazione.
L’opera di Bukovskij è scritta con prosa brillante e spumeggiante, ma al tempo stesso si appoggia su basi documentarie inoppugnabili, che lasciano intravedere le dimensioni autentiche della tragedia abbattutasi sul suo popolo. Veemente denuncia delle sofferenze patite da decine di nazioni e da milioni di uomini e di donne, nonché eloquente conferma del peso che ha avuto nel loro protrarsi l’avvilente comportamento dell’Occidente, per altro aspetto è però lo sfogo amaro di un uomo stanco e di un anticomunista — non «democratico» ma dottrinale —, che ha «giocato» la sua vita per un futuro migliore della Russia, che non ha mai rifiutato il rischio sia in gioventù sia nella maturità. Un uomo che ha visto il suo sogno vicino a realizzarsi, ma immediatamente corrompersi e sbriciolarsi fra le sue mani. Un non credente, infine, che troverà pace anche umana solo quando avrà «superato» la barriera della pura speranza terrena — che è stata l’orizzonte anche del comunismo — in direzione di una speranza che va oltre questo mondo. Solo se inquadrati nel contesto di una concezione della storia non più puramente naturale, né inesorabilmente progressiva, ma provvidenziale troveranno sistemazione eventi così giganteschi e imperscrutabili come quelli cui è stata ed è legata la vita di Vladimir Konstantinovic Bukovskij.
Oscar Sanguinetti
Note:
(1) Cfr. Stéphane Courtois, Nicolas Werth, Jean-Louis Panné, Andrzej Paczkowski, Ka- rel Bartosek, e Jean-Louis Margolin, Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione, trad. it., Mondadori, Milano 1998; cfr. una messa a punto complessiva del problema del comunismo su scala globale dopo il 1989, nonché una richiesta di rendiconto ai responsabili del comunismo mondiale, assai consonante con l’idea di Bukovskij, in Plinio Corrèa de Oliveira (1908-1995), Comunismo e anticomunismo sulla soglia dell’ultimo decennio di questo millennio, in Cristianità, anno XVIII, n. 179, marzo 1990, pp. 3-10.
(2) Vladimir Konstantinovič Bukovskij, Gli archivi segreti di Mosca, con un’appendice di documenti inediti, trad. it., Spirali, Milano 1999, pp. 856. Tutte le citazioni senza rimando s’intendono riferite alla pagina dell’opera racchiusa fra parentesi; salvo indicazione contraria, le informazioni e le valutazioni riportate sono anch’esse tratte dall’opera.
(3) Vasili Nikitič Mitrokhin, le cui «rivelazioni» stanno popolando le prime pagine dei giornali nell’autunno del 1999, sembra essere uno di questi; in un volume redatto in collaborazione con lo storico di Cambridge Christopher Andrew — autore di numerosi saggi sullo spionaggio sovietico e americano, fra cui La storia segreta del KGB, del 1990 (trad. it., 4a ed., Rizzoli, Milano 1993), scritto a due mani con Oleg Gordievskij, ex colonnello del KGB transfuga in Occidente — ha pubblicato non pochi documenti degli archivi del KGB, sciolto e ristrutturato nel 1991; alcuni di essi sembrano — a quanto riferisce la stampa sulla base delle anticipazioni dello storico inglese dal momento che il volume non è ancora disponibile in Italia — coincidere con quelli riportati da Bukovskij; cfr. C. Andrew e V. Mitrokhin, The Sword and the Shield. The Mitrokhin Archive and the Secret History of the KGB, Basic Books, New York (NY) 1999. Mitrokhin — nato nel 1922 nella Russia Centrale — fra il 1972 e il 1982 ha copiato e trafugato circa trecentomila documenti dell’archivio centrale del KGB — quindi solo uno dei numerosi archivi del regime — a Mosca: cfr. alcuni dati su di lui, in Bruno Crimi, La spia armata di penna, in Panorama, anno XXXVII, n. 42 (1749), 21-10-1999, pp. 44-45.
(4) Il testo è stato steso da Bukovskij in inglese con titolo inglese, in quanto afferma che, dopo il ritiro del visto d’ingresso in Russia, si sente ormai tanto cittadino russo quanto cittadino britannico. Così risulta a Mara Quadri Dell’Asta, di Russia Cristiana, che ha avuto modo d’intervistarlo: cfr. Quante guerre può combattere un uomo?, in La Nuova Europa, anno 8, n. 4, 1999, pp. 74-83. Per il testo dei documenti la traduttrice ha integrato con il russo. Il volume non risulta però esser stato pubblicato con il titolo originale citato dall’editore italiano, ossia Judgement in Moscow — è per esempio assente dalla Library of Congress di Washington —; viceversa, viene pubblicizzato un volume, in uscita il 1° novembre 1999, che s’intitola Judgement Day. A Nuremberg Trial for Soviet Agents and Western Fellow Travelers [«Il giorno del giudizio. un processo di Norimberga per gli agenti sovietici e i loro compagni di viaggio occidentali»], Regnery Publishing Inc., Washington (DC). Infatti, la quarta di copertina dell’edizione italiana cita l’edizione inglese e americana come di prossima uscita.
(5) Cfr. Judgment at Nuremberg (USA, 1961). Regia: Stanley E. Kramer (1913-2001). Interpreti principali: Spencer Tracy (1900-1967), Burt Lancaster (1913-1994), Marlene Dietrich (1901-1992); il film è stato distribuito in Italia, nello stesso 1961, con il titolo Vincitori e vinti.
(6) In formato PDF, Portable Data Format, leggibile con il programma Adobe Acrobat Reader, a cura di Julia Zaks e Leonid Chernikov. Ho avuto modo di accedere al sito Internet di Bukovskij nel giugno del 1999 attraverso l’indirizzo indicato sulla quarta di copertina del libro, il quale non era esatto, ma consentiva comunque di «rimbalzare» sul sito Internet giusto. A un nuovo tentativo di accesso ai primi di ottobre il sito risulta però non più esistente, né risulta essere «migrato» altrove. Anche il tentativo di accedere alla documentazione di Bukovskij attraverso altri siti collegati, come quelli dell’Harvard Project on Cold War Studies — che si può trovare all’indirizzo <http://www.fas.harvar d.edu/~hpwcs/links.htm> —, si è rivelato inutile: nel primo caso si è ottenuta la segnalazione di «sito non trovato», nell’altro si segnalava che il server del sito Internet avente legame con quello di Bukovskij — che poi risulta essere esattamente quello indicato nella copertina del volume, ovvero quello governato da Alexander E. Kaplan della Johns Hopkins University di Baltimora (Maryland, USA) — aveva avuto «seri problemi» al disco fisso, ovviamente tuttora in corso di riparazione.
(7) Cfr. Milovan Ðilas, La nuova classe. Una analisi del sistema comunista, trad. it., 6a ed., il Mulino, Bologna 1971.
(8) Cfr. V. K. Bukovskij, Una nuova malattia mentale in URSS: l’opposizione, trad. it., Etas Kompass, Milano 1972.
(9) Cfr. Idem, Il vento va e poi ritorna, trad. it., Feltrinelli, Milano 1978.
(10) Cfr. Idem, Guida psichiatrica per dissidenti, trad. it., L’erba voglio, Milano 1979.
(11) Cfr. Idem, URSS: dall’utopia al disastro, trad. it., Spirali, Milano 1991.
(12) Cfr. Idem, Il convoglio d’oro, trad. it., Spirali, Milano 1994.
(13) Cfr. Valerio Riva (1930-2004), in collaborazione con Francesco Bigazzi, Oro da Mosca. I finanziamenti sovietici al PCI dalla Rivoluzione d’ottobre al crollo dell’URSS. Con 240 documenti inediti degli archivi moscoviti, Mondadori, Milano 1999. Sul tema dei finanziamenti alla Rivoluzione d’Ottobre e al nazionalsocialismo tedesco, cfr. Pierre Faillant de Villemarest (1922-2008), A l’ombre de Wall Street. Complicités et financements soviéto-nazis, Éditions Godefroy de Bouillon, Parigi 1996; sulla base dell’edizione del 1984 di questo stesso studio, cfr. il mio Le fonti finanziarie del comunismo e del nazionalsocialismo, in Quaderni di «Cristianità», anno I, n. 1, primavera 1985, pp. 39-52.
(14) Sul passaggio da PCI a PDS, cfr. Marco Invernizzi, «Dal PCI al PDS»: le tappe e i contenuti di una metamorfosi rivoluzionaria, in Cristianità, anno XXII, n. 225-226, gennaio-febbraio 1994, pp. 5-9.
(15) Cfr. Lawrence Freedman, Atlas of Global Strategy, Facts on File, New York 1985, p. 51.
(16) Cfr., fra l’altro, Leszek Martini, La verità su Katyn alla luce di un documento, in Cristianità, anno XVII, n. 175-176, novembre-dicembre 1989, pp. 16-17; e Victor Zaslavsky (1937-2009), Il massacro di Katyn. Il crimine e la menzogna, Ideazione Editrice, Roma 1998; nonché Janusz Kazimierz Zawodny (1921-2012), Morte nella foresta. La vera storia del massacro di Katyn, trad. it., 2a ed., Mursia, Milano 1989.
(17) Per quanto concerne le memorie, cfr., per esempio — per limitarci alle traduzioni italiane —, Pavel Sudoplatov e Anatolij Sudoplatov, con Jerrold L. e Leona P. Schec- ter, Incarichi speciali, con una prefazione di Robert Conquest (1917-2015), trad. it., Rizzoli, Milano 1994.
(18) Sulla metamorfosi culturale del comunismo dopo il 1989, cfr. Giovanni Cantoni, Metamorfosi del socialcomunismo: dal relativismo totalitario al relativismo democratico, in Cristianità, anno XXV, n. 261-262, gennaio-febbraio 1997, pp. 15-21; e P. Corrèa de Oliveira, Neocomunismo, ibid., anno XVI, n. 283-284, novembre-dicembre 1998, p. 6.
(19) Cfr. una sintesi dell’evoluzione della strategia e della tattica sovietiche nell’intero arco del 1900, in M. Invernizzi, 1914-1989. Ideologia marxista e prassi leninista dalla prima guerra mondiale alla caduta del Muro di Berlino, ibid., anno XXIV, n. 260, dicembre 1996, pp. 13-21.
(20) Cfr. Andrej Alekseevič Amal’rik (!938-1980), Sopravviverà l’Unione Sovietica fino al 1984?, con un’introduzione di Carlo Bo (1911-2001), trad. it., Coines, Roma 1971.
(21) Cfr. la testimonianza del medico psichiatra esule in Svizzera Anatolij Korjagin, Il sistema repressivo psichiatrico in Unione Sovietica, intervista a cura di Ermanno Pavesi, in Cristianità, anno XVIII, n. 180-181, aprile-maggio 1990, pp. 11-13.
(22) Cfr. Nikolaj Vasil’evic Gogol’, Le anime morte, 1842, trad. it., in Idem, Opere, 2 voll., Mondadori, Milano 1996, vol. II, pp. 3-487.
(23) Cfr. lo sviluppo degli avvenimenti in Unione Sovietica durante gli anni 1980, in P. Faillant de Villemarest, Quasi un «golpe» al Cremlino, in Cristianità, anno XVI, n. 162, ottobre 1988, pp. 6-7; Idem, Verso un’Europa in simbiosi con l’URSS?, ibid., anno XVII, n. 167-168, marzo-aprile 1989, pp. 3-5; G. Cantoni, L’impero socialcomunista fra crisi e ristrutturazione, ibid., anno XVIII, n. 177, gennaio 1990, pp. 3-6; e Idem, Fra crisi e «ristrutturazione»: ipotesi sul futuro dell’impero social- comunista, ibid., anno XVIII, n. 187-188, novembre-dicembre 1990, pp. 13-19.
(24) Sul mondialismo, cfr. P. Faillant de Villemarest, L’URSS di Mikhail Gorbaciov fra resistenza religiosa e nazionale e complicità mondialiste, ibid., anno XV, n. 142, febbraio 1987, pp. 3-4, nonché il discorso del senatore statunitense Jesse Helms (1921-2008), Comunismo e mondialismo. Considerazioni di politica internazionale, ibid., anno XVI, n. 155, marzo 1988, pp. 7-12.
(25) Sulle tecniche di «disinformazione», cfr. il romanzo — basato però su fonti autentiche — di Vladimir Volkoff (1932-2005), Il montaggio, trad. it., Guida, Napoli 1992.
(26) Cfr. Maurizo Caprara, Raissa, L’ultima first-lady rossa, in io donna (supplemento del Corriere della Sera), anno IV, n. 40, 2-10-1999, pp. 47-48.
(27) Cfr. Eugen Novikov e Patrick Bascio, Gorbachev and the Collapse of the Soviet Communist Party, Peter Lang Publish., New York (NY) 1994.
(28) Cfr. P. Faillant de Villemarest, La ricostituzione dell’Internazionale Comunista dal 1990 al 1994, in Cristianità, anno XXII, n. 236, dicembre 1994, pp. 10-16.
(29) Cfr. G. Cantoni, URSS, agosto 1991: una tappa sulla strada del postcomunismo, ibid., anno XIX, n. 197-198, settembre-ottobre 1991, pp. 3-8; e P. Faillant de Villemarest, Il fallimento di un colpo di Stato, ibid., pp. 6-8.
(30) Cfr. Idem, Eduard A. Shevardnadze e la sua «banda» georgiana, ibid., anno XX, n. 201-202, gennaio-febbraio 1992, pp. 3-4.
(31) Cfr. Idem, Neocomunisti nell’ex Unione Sovietica: i nemici interni di Boris N. Eltsin, ibid., anno XX, n. 203, marzo 1992, pp. 3-6; Idem, La Russia «umiliata e offesa»: popoli alla ricerca di sé stessi, ibid., anno XXI, n. 224, dicembre 1993, pp. 3-4; Idem, Russia: comunisti e soci nella nuova Duma di Stato, ibid., anno XXII, n. 225-226, gennaio-febbraio 1994, pp. 3-4; e «1989-1994: alla ricerca del nemico perduto. Dall’impero socialcomunista all’egemonia progressista», ibid., anno XXII, n. 236, dicembre 1994, pp. 7-9. La tesi trova conferma da parte di fonti statunitensi, cit. in Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo, Russia, così sparivano i miliardi. Gli ex uomini dei servizi segreti Usa accusano: la Casa Bianca sapeva dal ’93, in Corriere della Sera, 10-10-1999.
(32) Sul «fabianesimo» come falsa alternativa al socialismo «scientifico», cfr. G. Cantoni, La socialdemocrazia fabiana, «new look» dell’«opzione socialista», in Cristianità, anno XVIII, n. 186, ottobre 1990, pp. 3-5; e Paolo Mazzeranghi, Il fabianesimo, in IDIS. Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, Voci per un «Dizionario del Pensiero Forte», a cura di G. Cantoni, con una presentazione di Gennaro Malgieri, Cristianità, Piacenza 1997, pp. 125-130 Anche nel sito web <http://alleanzacattolica.org/il-fabianesimo/>.