Giovanni Cantoni, Cristianità n. 23 (1977)
È scoppiata la IV Rivoluzione?
IL PCI E GLI “INDIANI METROPOLITANI”
Gli avvenimenti sono più che noti, e hanno già fatto il giro del mondo. Giovedì 17 febbraio un comizio, organizzato dai sindacati all’università di Roma, è stato contestato dagli «studenti» piuttosto violentemente. Gli «studenti» hanno anche costretto alla ritirata e alla fuga il massimo esponente del sindacalismo comunista, Luciano Lama, segretario generale della CGIL. Ne è nata una sequela di manifestazioni e di contromanifestazioni, di dissociazioni di responsabilità e di espressioni di solidarietà, la cui eco non pare destinata a sopirsi rapidamente.
Ma, soprattutto, ha preso corpo una querelle che riveste una importanza tutt’altro che trascurabile, e che riguarda la identificazione della natura del fenomeno rilevato, che pare più durevole o meno provvisorio tra quanti hanno fatto capolino in questi mesi, o addirittura in questi anni, tra le pieghe della cronaca.
* * *
La prima considerazione che viene spontanea è, per dire così, di politica spicciola, e riguarda il vantaggio che l’episodio ha dato – nonostante le apparenze – all’ulteriore svolgimento della strategia del compromesso storico.
Dagli avvenimenti romani, infatti, e dalle loro conseguenze in diverse parti del territorio nazionale, è uscita l’immagine di un Partito Comunista meno forte del prevedibile o del previsto, meno sicuro come «garante» dell’ordine; quindi, tale da essere meno richiesto come «pompiere», come «estintore» di incendi sociali, da chiunque appiccati. E in questo senso potrebbe parere non solo non indispensabile, ma certamente meno utile come partner dell’operazione «governo di emergenza» – versione in positivo dell’attuale formula governativa -, che costituisce un passaggio importante, dopo la «non sfiducia» e l’«astensione determinante», del compromesso storico.
Ma l’immagine indebolita, quasi umiliata, del Partito Comunista, non ne fa anche un partner meno pericoloso, perché meno sicuro di sé, e che quindi può essere imposto all’elettorato moderato, senza incontrare particolari resistenze, almeno come «sedativo» di grande parte del mondo sindacale?
La scelta tra le due versioni è lasciata alla Democrazia Cristiana, che esce comunque rafforzata dall’episodio, sì che forse non è eccessivamente malizioso ipotizzarla non estranea all’utilizzazione del dissenso a sinistra del Partito Comunista, anche se è certamente sproporzionato e puramente polemico parlare di «indiani democristiani».
Considerando, poi, le cose dal punto di vista comunista – ed escludendo che lo scacco sia stato voluto o almeno cercato -, non può comunque sfuggire ai dirigenti del PC la felice occasione di presentarsi al compromesso in tono dimesso – senza dover coprire faticosamente eventuali vittorie e contenere a stento l’entusiasmo della propria base, come al tempo del referendum o in occasione delle ultime tornate elettorali -, invocandolo anzi, tra l’altro, a difesa di una realtà di sinistra civile, cui si contrappone una insorgente sinistra incivile.
* * *
Oltre queste osservazioni di superficie, però, l’anima della querelle consiste nella individuazione e interpretazione del fenomeno rivelato dai fatti di Roma, e che non è assolutamente valutabile come un ennesimo parto dell’estremismo di sinistra, eccezionalmente prolifico da quando, dal ‘68, gli è stato concesso di riprodursi in modo non occulto, ha cioè ottenuto, almeno ufficiosamente, libertà d’aborto.
Tutti questi parti, infatti, non sono stati altro che gruppuscoli animati dalla velleità di sostituire nel cuore delle masse – si fa per dire – la classe dirigente del Partito Comunista; équipes di intenzionali rivoluzionari professionisti, smaniosi di offrire al proletariato una alternativa di gestione a quella del PC, giudicata e denunciata, di volta in volta, come più o meno marxista, più o meno leninista, più o meno gramsciana, e nella dottrina e nella prassi.
Ma, se quello comparso a Roma non è un fantasma – e pare non lo sia -, non si tratta, nel caso, di una équipe rivoluzionaria in cerca di base, ma piuttosto di una base rivoluzionaria, per quanto possibile senza classe dirigente, o almeno con una «nuova classe» per il momento implicita, non emergente, tendente anzi all’anonimato di una autogestione senza espressioni gerarchiche. Comunque, pare trattarsi di un fenomeno più prossimo alla nascita di una nuova categoria sociale, che di un movimento riconducibile ai modelli «classici» di spontaneismo organizzativo.
I termini sono estremamente importanti e ne danno la radicale differenza dal «movimento studentesco» del ‘68, così come dal suo esito partitico più specifico, il Movimento Lavoratori per il Socialismo (MLS), che invece non si sottrae alla definizione prima avanzata.
Il movimento studentesco è nato dalla pura e semplice applicazione della dialettica rivoluzionaria – con gli adattamenti e le varianti del caso – alle realtà corporative «studenti medi» e soprattutto «studenti universitari», con il corpo docente nella parte del «padrone» e la struttura scolastica in quella del «capitale», prima nella scia del «maggio» francese, poi sfruttando le occasioni offerte dall’«autunno caldo» per «unire nella lotta» studenti e operai. Quindi, il movimento studentesco è stato il puro e semplice sovvertimento rivoluzionario di una realtà sociale, nella quale la ossessiva politicizzazione ha favorito la nascita e la crescita delle équipes alternative della sinistra extra e intra-parlamentare non comunista.
Il fenomeno rivelato dai fatti romani, e in via di rilevazione, è invece il frutto sociale di almeno nove anni di sovvertimento di più categorie, ma soprattutto di quella studentesca, tra l’altro cresciuta a dismisura in seguito alla liberalizzazione dell’ingresso alla università. Non più, dunque, la semplice acquisizione di «coscienza rivoluzionaria» da parte di studenti, cioé di persone che studiano, ma il risultato del rivoluzionamento dell’intera struttura scolastica, dell’intero mondo della scuola, tematicamente frequentato ormai – fatte salve eccezioni positive, frutto di personale impegno e di notevole tenuta psicologica – da non-studianti e da ex-studenti disoccupati, cui si uniscono disoccupati non diplomati e non laureati, ma «organizzati».
Non più, ancora, una forza che opera avendo di mira il sovvertimento delle strutture scolastiche, ma il risultato di questo sovvertimento, di questa enorme eversio educationis, che, anche in assenza di contenuti «nuovi», si manifesta come una dannosissima vacatio educationis.
Il passaggio è analogo a quello avvenuto nel mondo del lavoro con l’applicazione del cosiddetto «statuto dei lavoratori»: dall’operaio talora giustamente scioperante si è passati all’operaio scioperato; allo sciopero prima sindacale, poi politico, quindi «selvaggio», è subentrata quella forma di sciopero «aperto», «elastico», a motivazioni squisitamente soggettive e soggettivamente esistenziali, che va sotto il nome di assenteismo.
Così, nella scuola, dallo studente se non studioso almeno «studiante», e talora giustamente critico nei confronti delle strutture scolastiche e dei contenuti dell’insegnamento, si è passati, attraverso gradazioni e momenti non sempre facilmente ricostruibili e individuabili, allo studente puramente anagrafico che, colpito anche dalla disoccupazione certa di chi ha studiato, si occupa a non studiare. E, moltiplicata dalla struttura corrotta, la minoranza sovversiva ha assunto la consistenza di una realtà umanamente rilevante, con uno spessore sociale degno di considerazione.
Circa le responsabilità della crisi in cui versa il sistema formativo – se dipenda, cioè, dalle lotte di studenti e insegnanti o piuttosto dalle «riforme di struttura» di cui sono stati eccezionalmente prodighi i governi che in questi anni si sono succeduti (1) -, varrà la pena di risolvere il contrasto, che oppone comunisti e democristiani, in modo salomonico, così come, di recente, «un accordo di principio è stato raggiunto fra i partiti e le parti sociali nell’attribuire la responsabilità dell’inflazione, metà e metà, al costo del lavoro e alla spesa pubblica» (2).
* * *
Di fronte a questa realtà nuova e alla sua violenta irruzione sulla scena della storia del nostro paese, la macchina interpretativa comunista ha mostrato significative incertezze e cadute, che vanno dalla giocata sclerotica e sclerotizzante del solito fascismo-jolly, a un più accurato sforzo di comprensione ideologica compiuto da Alberto Asor Rosa, che ha fatto appello a una sorta di «blocco storico» in difesa della civiltà (3)!
Rispetto ad altri, Asor Rosa ha il pregio di avere tentato una analisi in profondità e di avere compreso la natura alternativa del fenomeno registrato, il suo carattere di «seconda società», nonché la sua fondamentale non assimilabilità a un qualsiasi extraparlamentarismo; ma le categorie che la sua dottrina gli fornisce si rivelano insufficienti per una diagnosi completa ed esauriente, resa necessaria dalla urgenza evidente di interventi.
Né può essere diversamente. Infatti, per intendere in modo adeguato il fenomeno è indispensabile avere a disposizione categorie cattoliche, e partire dal peccato originale, che ha lasciato l’uomo ferito nell’intelligenza e nella volontà, e quindi «barbaro», balbuziente, perennemente incipiente senza chi gli «trasmetta il progresso», ciò che è stato definitivamente conquistato o riconquistato sul piano naturale, e ricevuto su quello soprannaturale.
Il barbaro, per dirla con de Maistre, ha davanti a sé l’alternativa di diventare civile; ricevendo la «trasmissione del progresso», la tradizione, oppure di inselvatichire, di degradarsi in selvaggio (4).
La condizione del barbaro è la condizione della società, che non è automaticamente votata né al progresso né al decadimento, ma che, vivendo della vita che le trasmettono i suoi membri, si predispone i termini della propria «conferma nella civiltà» attraverso gli strumenti di educazione e di istruzione che impediscano ai piccoli barbari, che a ogni generazione l’assalgono, di degenerare in selvaggi (5). Gli ambiti di, educazione e di istruzione che filtrano il barbaro e lo inciviliscono sono anzitutto la famiglia e quindi, oltre alla Chiesa, lo Stato e la società stessa in tutte le sue articolazioni.
Se questo processo vitale si usura, la società tutta ne risente. Che dire poi se questo processo, invece di usurarsi semplicemente, si arresta?
Ebbene, tutto il processo educativo della nostra società, lato sensu considerato, è da gran tempo usurato – sia nelle forme che, soprattutto, nei contenuti -, ma dal ‘68 si è quasi completamente arrestato, almeno nelle sue funzioni di istruzione superiore e ancora più universitaria. Senza filtro, i barbari non sono diventati civili e sono nati i selvaggi, che, dal panorama, dall’habitat in cui si muovono, si dicono «indiani metropolitani», esseri viventi alla giornata e dediti alla pratica della cueillette, più nota come «spesa proletaria», forma di raccolta di quanto offre spontaneamente la natura che li circonda – nel loro caso non la savana, ma la megalopoli -, radicalmente diversa dal raccolto, che presuppone l’avere seminato e l’attendere il compimento di un tempo oggettivo (6).
Così, ci si trova oggi di fronte alla sorpresa – tutt’altro che «divina» – di incontrare una «seconda società», costituita da persone che non intendono aspettare nulla, ma vogliono tutto e subito. Del resto, se poi non c’è niente, se non c’è l’aldilà, se manca l’oggetto della speranza, se non c’è la speranza teologale da secolarizzare in attesa e pazienza storica, che cosa e perchè aspettare? Se si tratta di persone che non hanno praticamente fatto esperienza di gerarchia né in famiglia, né in parrocchia, né a scuola, a che titolo immaginare una disponibilità alla ubbidienza? Se si tratta di giovani nei quali non è stato risvegliato il senso logico attraverso la famosa analisi logica, che costituiva il preliminare indispensabile allo studio del latino, su che base sperare di «farli ragionare»? E chi ha distrutto, come «borghesi», la famiglia, la scuola, la parrocchia? Chi, per dire il meno, ha ridicolizzato la fede?
Per i comunisti, il problema costituito dal fenomeno che sto esaminando non è assolutamente trascurabile, anche perchè sostanzialmente nuovo e scarsamente previsto, se non addirittura imprevisto, dal punto di vista operativo, mentre dottrinalmente si confonde con l’orizzonte posteriore alla dittatura del proletariato, quindi con le mete di lungo o di lunghissimo termine, piuttosto che con quelle a media o a breve scadenza.
Fino a oggi, infatti, i comunisti sono stati abituati ad arrivare al potere e al governo prima che il processo di corruzione, da loro favorito per indebolire gli avversari, giungesse a colpire non solo le élites, ma intere categorie sociali, e ad avere in esse conseguenze tanto distruttive da trasformarle in realtà sociali radicalmente mutate. Giunti al potere e al governo prima del crollo totale delle precedenti strutture, hanno sempre conservato il conservabile, per servirsene come di involucro per il loro nulla radicale, per dare una veste alla Rivoluzione.
Il lungo itinerario tra il potere e il governo, la lunga «anticamera» cui li costringe la particolare situazione italiana – analoga a quella di altre nazioni cattoliche di antica e radicata civiltà -, mette a confronto uomini che hanno rivestito il loro sovversivismo con il bon ton di una educazione «classica», «umanistica», ancora «borghese» quando non «aristocratica», con altri uomini la cui cultura è frutto maturo dello sfacelo del sistema formativo e di contenuti degradati e degradanti, forniti da mass media che veicolano diseducazione, e che scambiano il decoro formale, il tratto non ostentatamente becero – in qualche caso, ostentatamente non becero – con borghesismo e reazionarismo efascismo.
Da un parte Il Principe e Gramsci, la strategia dell’internazionalismo proletario e la sua delicata articolazione con la nozione e la pratica della «egemonia», nazionale ed eurocomunista; dall’altra la tattica breve esenza mediazioni del tutto e subito, propria del neo-selvaggio in cui si ètrasformato il neo-barbaro, al quale qualcuno ha insegnato a odiare la civiltà in generale, e quella europea e cristiana in particolare, senza arrivare ad impadronirsene – e quindi a cambiarne propagandisticamente il segno – prima che le sue vestigia venissero attaccate anche alla radice, e non soltanto esternamente.
L’alternativa, per il comunismo, è il disconoscimento di paternità e l’appello a un «blocco storico» contro il pericolo emergente – cioè, per la Rivoluzione, fare un passo indietro, e ritornare un po’ borghese -; oppure il tentativo – faticosissimo, anche perchè necessariamente rapido – di «rieducazione» degli «indiani», per non perdere tutto questo materiale umano esplosivo; e altre soluzioni non si danno, dal momento che, come scrive significativamente Asor Rosa, il Partito Comunista è presentato come «antemurale del sistema di fronte ai tentativi della disgregazione sociale e studentesca, con l’inconveniente […] che contemporaneamente non abbiamo in mano quegli strumenti del potere che ci consentirebbero di sviluppare e praticare fino in fondo il nostro discorso politico» (7). Sulla natura di questo «discorso politico», suggerisco soltanto quello di cui sono stati oggetto gli anarco-sindacalisti nel corso della guerra di Spagna!
* * *
La terza edizione italiana del magistrale studio di Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, è accresciuta di una nuova parte in cui l’autore ipotizza, dopo quella comunista, una IV Rivoluzione – le prime due essendo rispettivamente Rinascimento e protestantesimo, e la Rivoluzione francese -, caratterizzata da connotazioni dissolutrici di ogni ordine, anche di quel «disordine organizzato» costituito dalla cosiddetta dittatura del proletariato e dallo Stato totalitario (8).
Gli indizi offerti dai fatti romani sono perfettamente combacianti con la tesi sostenuta dall’acutissimo pensatore cattolico brasiliano, ne sono anzi una strabiliante conferma a due mesi dalla sua stesura e a un mese dalla sua pubblicazione nel nostro paese, in prima edizione mondiale.
Dunque, è forse scoppiata la IV Rivoluzione. Si è forse aperto un ulteriore fronte per la Contro-Rivoluzione, un fronte prima da capire e poi da coprire.
Per quanto riguarda i termini della comprensione si deve anzitutto ricordare che non ci troviamo di fronte a un fenomeno di reazione al comunismo – se non in misure infinitesimali, psicologiche e imponderabili -, ma piuttosto di filiazione dal comunismo e dalla cultura di cui si serve, con conseguente «scontro generazionale» derivante dalla insoddisfazione per il comunismo stesso, che – e non potrebbe essere diversamente – promette ed è un fallimento anche come semplice reazione alla società liberale, di cui a sua volta è figlio.
In secondo luogo, quali che siano le decisioni operative dei capi comunisti – quella di disconoscere la paternità del fenomeno sovversivo, tentando di distruggerlo, in esecuzione della legge secondo cui la Rivoluzione divora i suoi figli; oppure quella di provare a realizzarne un rapido regressus in uterum spegnendo i clamori e fingendo di nulla -; qualunque sia, dicevo, il comportamento cui si atterranno, non bisogna dimenticare, e bisogna fare sì che non si dimentichi che quello che abbiamo visto, il mostro in formato ridotto, è filiazione del mostro grande che abbiamo di fronte, e che il parto è, eventualmente, semplicemente rimandato, procrastinato, ma non definitivamente scongiurato.
Quest’ultima considerazione introduce alle necessità operative aperte dal nuovo fronte della IV Rivoluzione. Infatti, se continuamente osservando il comunismo e la Rivoluzione, fosse subentrato in noi – ed è molto probabile – una condizione di assuefazione, di mitridatizzazione, dobbiamo essere grati alla Provvidenza del fatto che facendoci intravedere uno squarcio di futuro, ci permette di risvegliarci, di provare di nuovo un salutare disgusto e quindi di riprendere con lena rinnovata la buona battaglia. E, in tema di insegnamento, essa consiste anzitutto nel denunciare dannosi slogans sovversivi (9); quindi nel combattere ogni forma di invadenza statale e nel favorire la rinascita di articolazioni scolastiche espresse dalle famiglie e dai corpi sociali, con espliciti e confessi contenuti naturali e cristiani.
GIOVANNI CANTONI
Note:
(1) Cfr. Rinascita, anno 34, n. 8, 25-2-1977.
(2) CESARE ZAPPULLI, La frenata, in il Giornale nuovo, 26-2-1977.
(3) Cfr. ALBERTO ASOR ROSA, Forme nuove di anticomunismo, in l’Unità, 20-2-1977.
(4) Cfr. JOSEPH DE MAISTRE, Le serate di Pietroburgo, trad. it., Rusconi Editore, Milano 1971, p. 85. Merita particolare attenzione anche l’osservazione, alla stessa pagina, secondo cui il selvaggio può essere civilizzato solo dal cristianesimo. «È – nota De Maistre – un prodigio di prim’ordine, una specie di redenzione riservata esclusivamente al vero sacerdozio».
(5) Cfr. FRÉDÉRIC LE PLAY, Textes choisis et préface par Louis Baudin, Librairie Dalloz, Parigi 1947, pp. 79-82.
(6) Anche questo tratto distingue significativamente il neoselvaggio dall’«extra». E li infatti pratica la «spesa proletaria», l’«occupazione» di case sfitte, si confonde con il «disoccupato organizzato»: compie, cioè, gesti visibili e si appropria di cose direttamente e immediatamente fruibili e consumabili, senza esercitare la previsione.
L’«extra», invece, vede più lontano, e anche quanto non è immediato; e alla «spesa» sostituisce l’«esproprio proletario», facendo sua la lezione di Lenin su Proletary del 30 settembre 1907, secondo cui «la lotta armata persegue due mete diverse […] in primo luogo la meta dell’uccisione di persone singole, funzionari superiori e subalterni nella polizia e nell’esercito, in secondo luogo la confisca di fondi tanto al governo quanto a privati cittadini. I fondi confiscati vanno in parte al partito, in parte all’armamento e ai preparativi delle insurrezioni, in parte a sostegno delle persone che conducono la lotta». Il brano è citato in MARCELLO LUCINI, Chi finanziò la Rivoluzione d’ottobre, Editrice Italiana, Roma 1967, p. 66. Nel volume, purtroppo trascurato, è affrontato con serietà il problema storico delle «espropriazioni» dette, nel gergo dei rivoluzionari comunisti, semplicemente «ex». E poi qualcuno si chiede a chi si ispirino le Brigate Rosse, e accetta come buoni e fondati i distinguo di chi pure si professa marxista-leninista!
(7) ALBERTO ASOR ROSA, art. cit., ibid.
(8) Cfr. PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3ª ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, pp. 189-195.
(9) Cfr. RAFAEL GAMBRA CIUDAD, Il tema dell’insegnamento e la «Rivoluzione culturale», in Cristianità, Piacenza maggio-giugno 1974, anno II, n. 5.