HENRI LE FLOCH, C.S.Sp, Cristianità n. 24 (1977)
Contributo alla comprensione del “pluralismo”
IL CARDINALE BILLOT SUL LIBERALISMO
Il dibattito religioso e politico corrente – sotto la spinta di concrete necessità, come quelle costituite, per esempio, dai problemi della «Chiesa conciliare», rimessi in luce dal cosiddetto caso Lefèbvre, o dalla pendente revisione consensuale del Concordato – va riscoprendo, con una frequenza sempre maggiore, il termine liberalismo – e quindi liberalismo cattolico -, che comincia a essere usato come sinonimo di pluralismo, o almeno come a esso abbondantemente equivalente, quando pluralismo, da fatto e constatazione, diviene dottrina e programma.
Per contribuire alla esplicatio terminorum, cioè a quel chiarimento dei termini che è già battaglia delle idee, pare opportuno fornire al lettore una sostanziosa esposizione e confutazione del liberalismo, dovuta alla dottrina del cardinale Louis Billot (1846-1931) – dal servo di Dio Raffaele Merry del Val definito «onore della Chiesa e della Francia» -, e contenuta nel trattato De Ecclesia, tomo II, pp. 19-63.
L’insegnamento cattolico del cardinale Billot è magistralmente sunteggiato da p. Henri Le Floch, della Congregazione dello Spirito Santo, che fu superiore del seminario francese di Roma, ed è tradotto dal volume Le cardinal Billot, lumière de la théologie, senza indicazione di editore, 1932, pp. 43-61.
RIASSUNTO DELLA DOTTRINA DEL CARDINALE BILLOT SULL’ERRORE DEL LIBERALISMO E LE SUE DIVERSE FORME, SECONDO L’ESPOSIZIONE DEL TRATTATO SULLA CHIESA
Il liberalismo in materia di fede e di religione è una dottrina che pretende di emancipare l’uomo, più o meno, da Dio, dalla sua legge, e dalla sua rivelazione, e di emancipare anche la società civile da ogni dipendenza dalla società religiosa, dalla Chiesa, custode, interprete e maestra della legge rivelata da Dio.
L’emancipazione da Dio, fine ultimo dell’uomo e della società, è quanto anzitutto persegue. E, per giungervi, fissa come principio primo che la libertà è il bene fondamentale dell’uomo, bene sacro e intangibile, che non è assolutamente permesso violare con qualsiasi coazione; perciò, questa libertà senza limiti deve essere la pietra immobile su cui si organizzeranno tutti gli elementi dei rapporti tra gli uomini, la norma immutabile secondo cui saranno giudicate tutte le cose dal punto di vista del diritto; quindi sarà equo, giusto e buono quanto, in una società, avrà come base il principio della libertà individuale inviolata; iniquo e perverso tutto il resto. Questo il pensiero degli autori della rivoluzione del 1789, rivoluzione di cui il mondo intero gusta ancora i frutti amari. Questo l’oggetto completo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, dalla prima riga all’ultima. Questo, per gli ideologi, il punto di partenza necessario per la riedificazione completa della società nel campo politico, nel campo economico, e soprattutto nel campo morale e religioso.
Il trattato critica anzitutto il principio generale del liberalismo, considerato in sé stesso e nelle sue molteplici applicazioni. Poi tratta del liberalismo religioso e delle sue diverse forme (pp. 19-20).
In un magnifico preambolo, in cui si eleva alle altezze di sant’Agostino nel De Civitate Dei e di Bossuet nel Discours sur l’Histoire universelle, e che si concentra nella spiegazione e nella applicazione della profezia di Daniele a Nabucodonosor, p. Billot annuncia che seguirà, trattando del liberalismo, i potenti spiriti del secolo XIX che hanno lottato contro la perversità dei principi della Rivoluzione, J. de Maistre, de Bonald, Ketteler, Veuillot, Le Play, il cardinale Pie, Liberatore, ecc. E li cita nel corso della sua esposizione. E con loro cita Charles Maurras, di cui apprezzava la confutazione del liberalismo in campo filosofico, politico ed economico.
I limiti che ci siamo fissati ci permettono, in questa sede, di presentare solo l’ossatura del ragionamento di questo studio, lasciando da parte tutto lo splendore dello svolgimento, che potrebbe essere fatto intravedere soltanto da una traduzione completa.
ARTICOLO I. ENUNCIAZIONE E CRITICA DEL PRINCIPIO FONDAMENTALE DEL LIBERALISMO (pp. 21-43)
Il principio fondamentale del liberalismo è la libertà da ogni e qualsiasi coazione, non solo da quella esercitata con la violenza, e che riguarda soltanto gli atti esterni, ma anche dalla coazione che proviene dal timore delle leggi e delle pene, dalle dipendenze e dalle necessità sociali, in una parola, dai legami di ogni genere che impediscono all’uomo di agire secondo la sua inclinazione naturale. Per i liberali, questa libertà individuale è il bene per eccellenza, il bene fondamentale, inviolabile, al quale tutto deve cedere, a eccezione, forse, di quanto è richiesto dall’ordine puramente materiale della città; la libertà è il bene a cui tutto il resto è subordinato; è il fondamento necessario di ogni costruzione sociale conforme all’equità e al bene.
PARAGRAFO I. CRITICA DI QUESTO PRINCIPIO IN SÉ STESSO
Questo principio fondamentale del liberalismo è assurdo, contro natura e chimerico (pp. 22-30).
1. Assurdo (Incipit ab absurdo), in quanto pretende che il bene principale dell’uomo stia nell’assenza di ogni legame capace di intralciare o limitare la sua libertà. Il bene dell’uomo, infatti, deve essere considerato o come un fine, o come un mezzo per pervenire a questo fine. Ora, la libertà non può essere un fine in sé e il fine sommo, perché non è altro che un potere o potenza operativa, perché ogni potere o potenza è in vista della operazione, e perché ogni operazione, in questa vita, consiste completamente nel perseguimento di un bene reale o apparente. Quindi, la libertà non può essere per l’uomo il suo bene considerato come fine. D’altra parte, essa non è neppure un bene considerato come mezzo per pervenire a un fine buono, se non a condizione di essere contenuta da certi freni, e questa è la rovina pura e semplice del principio del liberalismo … a meno di ammettere o che la libertà, nella vita presente, è infallibile, oppure che bisogna sempre lasciarla fare, quali che siano i suoi difetti.
2. Contro natura (in ea progreditur quae evidentiori naturae intentioni contraria sunt), in quanto pretende che tutto debba cedere il passo al bene della libertà individuale, che le necessità sociali hanno moltiplicato gli ostacoli a questa libertà, e che il regime ideale per l’uomo è quello in cui regni la legge dell’assoluto e perfetto individualismo; perché questo individualismo è assolutamente contrario alla natura umana. Infatti, se vi è una cosa evidente e manifesta, è che la condizione sociale è la legge della vita umana, come lo provano le necessità della sua esistenza anche corporale. «Agli altri animali, la natura ha preparato nutrimento, vestimento di pelo, mezzi di difesa, come i denti, le corna, le unghie, o almeno la rapidità nella fuga. L’uomo, invece, si è trovato creato senza che dalla natura gli sia stato fornito nulla di simile; ma, in cambio, èstato provvisto della ragione che lo mette in condizione di preparare tutte queste cose con le sue mani; e siccome un uomo da solo non basta a preparare tutto, e se fosse da solo non saprebbe assicurare neppure a sé stesso i beni che gli permettano di mantenersi in vita, ne segue che, per natura, l’uomo deve vivere in società. Inoltre, in tutti gli altri animali è insita una naturale capacità a discernere quanto è a essi utile o nocivo. Così, l’agnello sente istintivamente nel lupo un nemico. Per una capacità analoga certi animali sanno naturalmente distinguere le piante curative e anche quanto è loro necessario per vivere.
«L’uomo, invece, conosce ciò di cui abbisogna per vivere, ma solo in generale. Così, con la sua ragione può pervenire, attraverso i principi universali, alla conoscenza delle cose particolari necessarie alla sua vita. Ma non è possibile a un uomo, da solo, attingere con la sua ragione tutte le cose di questo ordine. È quindi necessario che gli uomini vivano insieme, per aiutarsi a vicenda, per dedicarsi a ricerche diverse in rapporto con la diversità dei loro talenti: uno, per esempio, alla medicina, un altro a questo, un altro a quello. (S. Tommaso, De regimine principum, libro I, cap. I).
«O insensati sophistae, scrive p. Billot, quis vos ita dementavit, ut ad naturam continuo appellantes, contra naturam talia et tam enormia peccetis?», «O sofisti dissennati, chi vi ha fatto tanto uscire di ragione, che, pur richiamandovi continuamente alla natura, peccate tanto e così grandemente contro la natura?».
3. Chimerico,
1º perché non combina in nessun modo con la realtà:
Suppone, all’origine della società, un patto iniziale. Dove l’ha visto?
Suppone il libero ingresso di ciascuno nella società. È ancora più spinto.
Suppone che tutti gli uomini siano ritagliati esattamente sullo stesso modello – assolutamente uguali -, l’uomo astratto riprodotto milioni di volte senza note individuanti.
Dov’è? «Applicate il contratto sociale, se vi sembra buono, ma applicatelo solamente agli uomini per i quali è stato fabbricato. Sono uomini astratti che non appartengono a nessun tempo e a nessun paese, pure entità sbocciate dalla bacchetta metafisica» (Taine, La Révolution, tomo I, libro II, cap. II).
2º perché tende a distruggere direttamente proprio ciò che vuole proteggere: la libertà individuale.
Se la cosa è evidente nel caso delle minoranze, tiranneggiate dal numero, non è meno certa per le maggioranze, che si lasciano condurre, non dal «giudizio autonomo di ciascuno dei loro membri, ma da agitati, da violenti, da oligarchi nati dall’individualismo, che le soggiogano e che se ne servono come di uno strumento di dominio ai fini del loro interesse privato e della loro ambizione» (pp. 29-30).
PARAGRAFO II. CRITICA DEL PRINCIPIO NELLE SUE APPLICAZIONI ALLE COSE UMANE
Bisogna notare che esso non è applicabile integralmente (il male integrale non esiste), ma che, nella misura in cui è applicato, comporta due conseguenze:
1º La disgregazione e la dissoluzione di ogni organismo sociale, la soppressione di ogni società minore, naturale o connaturale, distinta dallo Stato o che non riceva da esso la sua legge, operante nel campo domestico, in quello economico e in quello politico.
Questo si prova:
a) A priori, l’individualismo liberale permette l’esistenza di una sola società: quella che è derivata dal contratto sociale.
b) A posteriori, con la guerra fatta in primo luogo alla famiglia (è la «delenda Carthago» dei rivoluzionari), di cui si è distrutto progressivamente il fondamento, cioè il matrimonio (con l’istituzione del contratto civile, poi del divorzio, in attesa dell’unione libera), e nello stesso tempo l’autorità (con la soppressione della libertà testamentaria, della libertà di insegnamento e attraverso le leggi di successione); con la guerra fatta, in secondo luogo, e con un successo completo al primo colpo, alle corporazioni, con il pretesto di proteggere la libertà individuale. Questa «libertà del lavoratore genera la piaga della società moderna, il proletariato, cioè l’esistenza di una classe numerosa priva di ogni proprietà e che vive in un certo senso in uno stato di indigenza ereditaria» (Le Play, Réforme sociale, tomo I).
2º La costituzione di uno Stato dispotico, assoluto, irresponsabile, che estingue tutte le libertà reali e assorbe tutti i diritti, senza che vi sia limite alcuno alla sua onnipotenza e al suo arbitrio.
«Come gli organi del corpo fisico non sono le molecole e gli atomi, ma le articolazioni e le membra, allo stesso modo gli organi del corpo sociale non sono gli individui, ma la famiglia, la corporazione e la città. Se le supponiamo disorganizzate nel loro stesso organismo, ne deriva inevitabilmente che tutte le libertà reali svaniscono. La ragione di questo è evidente: su queste monadi dissociate dall’individualismo, rimane soltanto questo enorme colosso costituito dallo Stato onnivoro, che, essendo crollata sotto di esso ogni organizzazione e ogni autonomia, assorbe in sé ogni forza, ogni potenza, ogni diritto, ogni autorità e diventa l’unico amministratore, procuratore, istitutore, precettore, educatore e tutore, in attesa di diventare anche l’unico proprietario e possessore. E che cosa ne risulta, di grazia, se non una mostruosa schiavitù?» (pp. 35-36).
PARAGRAFO III. RISPETTO ALLA RELIGIONE, IL PRINCIPIO DEL LIBERALISMO ESSENZIALMENTE ANTIRELIGIOSO (pp. 38-43)
Esso si erge direttamente contro Dio. Persegue completamente la distruzione del culto di Dio, della religione di Dio, della legge di Dio, e anche della nozione di Dio, con il pretesto di salvaguardare la libertà in campo politico ed economico.
1. Prova a posteriori: la storia della Rivoluzione francese, la cui caratteristica è quella di essere «satanica netta sua essenza» (de Maistre, Du Pape, Discorso preliminare). Il liberalismo è il grande principio della Rivoluzione francese.
2. Prova a priori: Dio e Nostro Signore Gesù Cristo costituiscono il grande ostacolo e alla libertà rivoluzionaria e al dispotismo dello Stato, suo corollario. A tale punto che la distruzione di Dio, del suo culto, della sua religione, della sua legge, del suo nome e del suo concetto, è non soltanto un articolo del programma, ma il programma stesso e il fine al quale tutto il resto è ordinato come mezzo. «Il pretesto è la libertà, il codice è il contratto sociale, il mezzo è la demagogia; ma la ragione ultima è la costituzione di uno Stato ateo ed enorme, arbitro supremo di tutti i diritti, dittatore onnipotente del giusto e dell’ingiusto, del lecito e del vietato, grazie al quale siano aboliti per sempre il nome e il culto infame di Dio. È ciò a cui tutto è diretto, a cui tutto il resto è ordinato come mezzo: e la distruzione della famiglia, e la distruzione della corporazione, e la distruzione delle libertà tanto comunali quanto provinciali, di modo che, infine, resti in piedi soltanto la potenza dello Stato empio, fuori da cui nessuno potrà, su tutta la terra, muovere una mano o un piede» (pp. 41-42). «Noi vogliamo organizzare una umanità che possa fare a meno di Dio» (Jules Ferry).
«Dalla Rivoluzione siamo in rivolta contro l’autorità divina e umana, con la quale, con un solo colpo, abbiamo regolato un terribile conto il 21 gennaio 1793» (Clemenceau).
ARTICOLO II. LE DIVERSE FORME DEL LIBERALISMO IN MATERIA RELIGIOSA (pp. 44-63)
Con p. Liberatore (cfr. La Chiesa e lo Stato), si possono ricondurre a tre: il liberalismo assoluto, il liberalismo moderato e il liberalismo che si potrebbe chiamare il liberalismo dei cattolici liberali. Le tre forme hanno in comune il volere emancipare l’ordine civile dall’ordine religioso, cioè lo Stato dalla Chiesa. Ma la prima forma vuole il dominio dello Stato sulla Chiesa; la seconda, la piena indipendenza dello Stato rispetto alla Chiesa, e della Chiesa rispetto allo Stato; quanto alla terza, anch’essa ricerca questa indipendenza, non come una verità di diritto, ma come, in pratica, la migliore condizione di esistenza e di vita.
PARAGRAFO I. LIBERALISMO ASSOLUTO
La prima forma del liberalismo, il liberalismo assoluto, riporta al materialismo e all’ateismo (pp. 44-48).
Concepisce lo Stato come la potenza più elevata alla quale è dato all’umanità di poter salire nel suo progresso sociale. Non solo lo Stato non ha nulla al di sopra di sé, ma non ha nulla che a esso sia uguale o che a esso non sia sottomesso. È la potenza suprema e universale, alla quale nulla può resistere, alla quale tutto deve ubbidire.
Questa è la teoria che regge, più o meno, le costituzioni moderne dell’Europa, nate dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Non solo la Chiesa vi ha perso ogni preminenza rispetto allo Stato, essa non vi ha neppure più il suo carattere di società perfetta e indipendente.
Ora, questa è la negazione implicita della spiritualità e dell’immortalità dell’anima; in ultima analisi, è materialismo. Lo Stato, infatti, può essere concepito come potenza suprema solamente a condizione di ricondurre tutto il destino dell’uomo alla sua vita organica e materiale.
Inoltre, vi è la negazione di Dio; infatti, se Dio esiste, bisogna riconoscere assolutamente che è il padrone supremo e il legislatore universale; bisogna riconoscere che la regola suprema dell’azione, sia nella vita privata che in quella pubblica, sono i principi immutabili della morale impressi da Dio nell’anima umana, e non lo Stato, né l’opinione pubblica; bisogna riconoscere, infine, che i poteri più elevati hanno solo un diritto subordinato di comandare, così che governano i popoli secondo la volontà di Dio, alla quale sono per primi sottomessi.
PARAGRAFO II. LIBERALISMO MODERATO
Il liberalismo moderato vuole l’emancipazione dell’ordine civile rispetto all’ordine religioso, dello Stato rispetto alla Chiesa, così che il dominio dello Stato e quello della Chiesa sono considerati completamente separati e separabili, e la Chiesa e lo Stato sono considerati nel loro rispettivo dominio come pienamente indipendenti.
Un tale sistema, già abbondantemente incoerente, è:
a) praticamente irrealizzabile;
b) teoricamente assurdo. Si riduce, se non a un ateismo formale, almeno a un manicheismo certo, a un dualismo assurdo, sia considerando l’uomo stesso che considerando il principio e il fine dell’uomo.
1) Considerando il principio e il fine dell’uomo: infatti, se vi sono per l’uomo un solo principio e un solo fine, questo principio e questo fine sono: o lo Stato (e ricadiamo nel liberalismo assoluto), o Dio (ed eccoci nel cattolicesimo).
2) Considerando l’uomo: infatti, questa separazione assoluta del civile e del religioso suppone in lui due anime, due spiriti, due coscienze. Se vi sono solo un’anima, uno spirito, una coscienza, vi è necessariamente subordinazione del civile al religioso o del religioso al civile.
Libera Chiesa in libero Stato, è la formula del liberalismo moderato. «Più nessuna alleanza tra la Chiesa e lo Stato: la Chiesa non abbia più niente in comune con i governi, i governi non abbiano più niente in comune con la religione, non si immischino più negli affari rispettivi. Il singolo professa a suo modo il culto che sceglie secondo il suo gradimento; come membro dello Stato non ha un culto proprio. Lo Stato riconosce tutti i culti, assicura a tutti una uguale protezione, garantisce a essi una uguale libertà; questo è il regime della tolleranza; ed è conveniente che lo proclamiamo buono, eccellente, salutare, che lo conserviamo a tutti i costi, che lo offriamo costantemente». Questo è quanto Louis Veuillot ha chiamato l’illusione liberale.
Ma volere che il fine della città e il fine della religione siano divergenti, volere che i poteri incaricati di regolare il perseguimento dell’uno e dell’altro fine siano separati, significa, implicitamente, negare l’unità del principio primo del mondo e affermare che vi sono un creatore delle cose spirituali e un creatore delle cose temporali; che esiste un dio che dirige l’uomo verso la vita civile, e un dio che lo dirige alla vita religiosa; in una parola, che bisogna ammettere, con i manichei, due principi, opposti l’uno all’altro.
D’altra parte, il liberalismo moderato, separando l’ordine civile dall’ordine religioso, separa il cittadino dal cristiano, il filosofo dal credente, l’uomo pubblico dall’uomo privato, il politico dal fedele, e li separa, non come due belligeranti di cui l’uno vuole la morte dell’altro, ma come due vicini, di cui ciascuno segue la propria via, di cui ciascuno, nello stesso tempo e regolarmente, compie il suo dovere, come se fossero mossi tutti e due per cose divergenti e contrarie da motori separati. Chi non vede che tale concezione è possibile soltanto a condizione di supporre in un solo e stesso uomo due anime, un duplice spirito, due coscienze realmente distinte tra di loro, l’una atea, l’altra religiosa, l’una credente, l’altra miscredente, l’una attenta alle cose temporali senza rapporto alcuno con le cose spirituali; l’altra intenta alle cose spirituali e come esistente fuori da questo mondo, nel mondo della luna; l’una che serve Cesare e l’altra che serve Dio?
Infine, comunque si concepisca questa indipendenza reciproca dei due poteri, o questa finzione della libera Chiesa in libero Stato, si cade in un nuovo manicheismo che, assurdo dal punto di vista teorico, è in pratica impossibile. Come immaginare che due motori possano essere normalmente applicati a un solo e medesimo mobile, senza che vi sia tra di essi qualche subordinazione? Solo la subordinazione permette di evitare i movimenti contrari e di mantenere la necessaria unità di direzione. I liberali moderati se ne sono ben resi conto, e si sono visti costretti ad ammettere o la subordinazione dello Stato alla Chiesa, o la subordinazione della Chiesa allo Stato; ora, non hanno potuto accettare la subordinazione dello Stato alla Chiesa, perché avrebbe significato rinunciare al principio essenziale e primo del liberalismo; costretti dalla necessità, e non potendo mantenersi in questo equilibrio di indipendenza reciproca, hanno dunque, come il liberalismo assoluto, posto la Chiesa sotto la dipendenza e il potere dello Stato, tutte le volte che, a giudizio di questo stesso Stato, un fine politico o un interesse temporale sembrano esigerlo. «La società religiosa, diceva Portalis (Discours et travaux inédits), ha dovuto riconoscere nella società civile, più antica, più potente, e di cui veniva a fare parte, l’autorità necessaria per assicurare l’unione, e il sovrano è rimasto padrone di fare prevalere l’interesse dello Stato in tutti i punti disciplinari in cui si trova immischiato».
PARAGRAFO III. LIBERALISMO DEI «CATTOLICI LIBERALI»
Consiste nella emancipazione dell’ordine civile rispetto all’ordine religioso, dello Stato rispetto alla Chiesa, considerata non come una verità di diritto, ma come offerta, in pratica, di un eccellente «modus vivendi».
Il liberalismo dei cattolici liberali sfugge a ogni classificazione, e ha una sola nota distintiva e caratterizzante, quella di una perfetta e assoluta incoerenza (pp. 55-63).
a) Questa incoerenza è evidente nel termine stesso «cattolico liberale», dal momento che liberale implica «emancipazione», cattolico implica «sottomissione».
b) È non meno evidente nella opposizione che i suoi partigiani pongono tra principi e pratica (i principi, che pretendono di accettare, sono solamente regole pratiche d’azione, che rifiutano precisamente di ammettere). Lo stesso accade dell’opposizione tra convenienza di diritto e utilità di fatto, per esempio della collaborazione della Chiesa e dello Stato, di cui ammettono di diritto la convenienza e di cui negano di fatto l’utilità.
Con l’incoerenza, si può dare come nota del cattolicesimo liberale la mania delle confusioni, per esempio tra tolleranza e approvazione.
La prova di questa affermazione si può trarre anzitutto dal nome stesso di cattolico liberale. Il cattolico, infatti, professa che l’uomo è stato creato per questo fine: lodare il Signore, onorarlo, servirlo secondo la volontà divina, e così salvare la propria anima; che tutto in questo mondo non ha altra ragione d’essere che quella di aiutarlo a realizzare questo fine; che, di conseguenza, bisogna mettere da parte la prosperità della vita presente, se la si può ottenere, soltanto con la perdita della propria anima; bisogna fare della vita presente una preparazione della vita futura; bisogna subordinare i beni temporali ai beni eterni; bisogna, quindi, che il potere che presiede alle cose temporali sia sottomesso al potere superiore incaricato da Dio, con la promessa di un’assistenza perpetua, di procurare il fine eterno. Ora, il liberale è attaccato agli immortali principi del 1789, e il principio rivoluzionario per eccellenza, dice Louis Veuillot (cfr. Illusion libérale, par. 33), «è ciò che l’educazione rivoluzionaria dei conservatori del 1848 chiama la secolarizzazione della società; è ciò che la franchezza rivoluzionaria del Siècle, dei Solidaires e del signor Quinet, chiama brutalmente l’espulsione del principio teocratico; è la rottura con la Chiesa, con Gesù Cristo, con Dio, con ogni riconoscimento, con ogni ingerenza, e con ogni comparsa dell’idea di Dio nella società umana».
Questa affermazione è confermata anche dall’esame delle ragioni addotte dai cattolici liberali.
Costoro distinguono tra i principi astratti e la loro applicazione: riconoscono, certamente, l’unione e la subordinazione necessarie tra i poteri; ma, dicono, altro è l’oggetto della speculazione, altro quanto si realizza in concreto, così diverso dalle condizioni della teoria. In questo modo, pensano di avere soddisfatta la verità, relegandola nel mondo delle astrazioni. Ma questi principi, detti astratti, riguardano o no la morale, costituiscono la norma degli atti umani e la regola dell’operazione buona, cioè dell’operazione che, in una società umana, è diretta secondo le esigenze del fine? E, se sono norme pratiche, non è il massimo dell’incoerenza ammetterle senza volere che vengano applicate? Dal fatto che l’ordine concreto delle cose differisce dalle condizioni ideali della teoria, ne segue che le cose concrete non avranno mai la perfezione dell’ideale, ma non ne segue niente di più. Con il modo di argomentare dei cattolici liberali, si proverebbe ugualmente bene che i precetti relativi alle virtù devono restare sul terreno puramente speculativo, perché la condizione umana non li può realizzare perfettamente. Si potrebbe anche dimostrare che le scienze matematiche non possono e non devono assolutamente essere applicate alle arti, con il pretesto che il triangolo ideale, esatto, geometrico, non esiste in concreto, oppure perché la prova sperimentale contraddice sempre il rigore del calcolo.
I liberali distinguono tra il diritto e il fatto, tra ciò che dovrebbe essere di diritto, e ciò che è, di fatto, utile alla Chiesa. A sentire loro, il regime dell’unione è sempre stato, di fatto, dannoso alla Chiesa. La Chiesa non ha mai avuto tanti mali quanto al tempo dei vescovi con il foro esterno, dei principi protettori, come attestano le lotte ininterrotte con gli imperatori di Bisanzio, con i Cesari germanici, con i re di Francia, d’Inghilterra, di Spagna: «La Chiesa perisce per gli appoggi illegittimi che si è voluta dare. È venuto il momento, per essa, di cambiare principi: i suoi figli gliene devono far sentire la necessità. Bisogna che rinunci a ogni potere coercitivo sulle coscienze. Più nessuna alleanza tra la Chiesa e lo Stato» (Louis Veuillot, Illusion libérale, par. 1-4). Il rimedio sarebbe dunque soltanto la libertà. Ma, in primo luogo, se principi a priori enunciano un ordine istituito e stabilito da Dio, è impossibile che sia più utile per la Chiesa trascurarlo. In secondo luogo, gli inconvenienti che vengono segnalati provano solo che l’uomo, per la sua perversità, spesso corrompe le istituzioni divine, ma non che queste devono, per tale ragione, essere respinte e messe da parte. In terzo luogo, l’argomento storico pecca per omissione: si limita a elencare i mali del regime di unione, senza dire anche i beni enormi che la Chiesa ha ricavato dalla protezione dei principi. In quarto luogo, non dice nulla dei mali tanto gravi quanto numerosi che derivano normalmente dallo stato di separazione, come ne può testimoniare l’esperienza attuale. In quinto luogo, niente mostra meglio l’incoerenza dell’argomentazione dei cattolici liberali, della loro conclusione ultima, che propone il ricorso alla libertà: la libertà, pronta al male, predisposta alla irreligione, è la causa di ogni male, ed essa viene presentata come rimedio.
I liberali riprendono: indubbiamente l’unione e la subordinazione dei poteri sono auspicabili in sé, ma sono ormai impossibili, poiché sono ripugnanti per lo spirito moderno, ed è inutile urtarlo; la prudenza, dunque, comanda di accettare il nuovo stato di cose, sia per impedire un male più grande, sia per ottenere i migliori effetti possibili. Ma a questo punto si palesa una incoerenza ancora maggiore delle precedenti, perché tende a spostare il problema. Il problema tra i liberali e noi, infatti, non sta nel sapere se, data la malizia del secolo, bisogna sopportare con pazienza quanto non dipende da noi, e lavorare, nello stesso tempo, per evitare mali maggiori e per fare tutto il bene che è ancora possibile fare; ma il problema è proprio se conviene approvare questa condizione sociale a cui porta il liberalismo, decantare i principi che sono il fondamento di questo stato di cose, promuoverli con la parola, la dottrina e le opere, così come fanno i cattolici detti liberali.
HENRI LE FLOCH, C.S.Sp. (†)