Giovanni Cantoni, Cristianità n. 31 (1977)
Sulla strada del “compromesso storico”
IL “COMPROMESSO CULTURALE”
III
IL CONTRAPPUNTO PROGRESSISTA
Parallelamente all’erosione condotta dall’esterno, il progressismo, all’interno della Chiesa, aggredisce i principi fondamentali della permanente dottrina sociale cattolica, tentando di abbassarla a “riflesso di una situazione storica e geografica determinata”, per di più viziato dalla “pregiudiziale metafisica” e dalla “raffigurazione” di “un Dio che ha stabilito eternamente le leggi costitutive dell’ordine del mondo”.
Come dicevo, presentando il contesto meno e più remoto della mossa comunista, la lettera dell’on. Berlinguer a mons. Bettazzi ha suscitato rinnovata attenzione per le prospettive cattolico-comuniste, e quindi per le tesi passate e presenti di Franco Rodano. Ma, purtroppo, attenzione simile non è stata dedicata al contrappunto culturale che, in perfetta sintonia, è stato fatto, in campo cattolico, alle prospettive di Rodano e compagni, elevate al rango di posizioni ufficiali del PCI dalla loro utilizzazione da parte del segretario generale del partito.
Poca attenzione, se non nulla, si è prestato all’uscita, in questo stesso autunno 1977, di uno scritto del padre domenicano Marie-Dominique Chenu, dedicato a La dottrina sociale della Chiesa. Origine e sviluppo (1891-1971) (1). Il testo compare in prima edizione mondiale nella nostra lingua, in una collana diretta da Giuseppe Alberigo – il primo commentatore della lettera dell’on. Berlinguer su Rinascita, dove si esibisce in una grottesca «ecclesiologia secondo Berlinguer» (2) -, ed è stato tempestivamente recensito dal vaticanista de L’Unità, Alceste Santini, in un articolo dall’occhiello rivelatore: Esiste ancora una dottrina sociale cattolica? (3).
Nell’opera in questione, il domenicano francese presenta una antologia di documenti del Magistero, da Leone XII a Paolo VI, dove, tra l’altro, manca un sia pure minimo brano di Pio XII, e dove si lascia intendere, senza neppure giustificare la cosa, che la dottrina sociale coincida sic et simpliciter con la dottrina socio-economica, trascurando completamente quella socio-politica, il che permette di prescindere, per esempio, da Pio IX. Ma queste «lacune» sono di dettaglio, in un testo il cui significato è esclusivamente indicativo di tendenze del progressismo che lavora nella Chiesa. E, se il valore della introduzione di padre Chenu e della antologia di documenti è pressoché nullo, il testo ha una importanza notevole come «spia». Vediamo di che, riportando ampiamente brani dell’VIII e ultimo paragrafo della introduzione, significativamente intitolato La dottrina sociale come ideologia.
1.
DALLA «DOTTRINA» SOCIALE ALL’«INSEGNAMENTO» SOCIALE
Il progressismo ha operato e opera perché il termine stesso di «dottrina» sociale sia abbandonato, al fine di negare più facilmente che esista, o sia mai esistita, la dottrina morale della Chiesa circa la società.
«Le parole hanno una storia – scrive padre Chenu – sempre significativa […]: la lettura dei testi ci ha portato a osservare l’uso e le vicissitudini dall’espressione “dottrina sociale” […].
«La prova incontestabile di questo destino storico è, dopo un uso durato settant’anni, l’eliminazione, prima implicita, poi intenzionale, di questa espressione dai discorsi ufficiali. Ancora frequentemente usata nella Mater et Magistra (1961), è assente nella Pacem in terris (1963), e esclusa dalla costituzione conciliare Gaudium et spes. Vi si sostituisce una formula apparentemente simile nella sua formulazione materiale, ma diversa nel suo significato: “insegnamento sociale del Vangelo”, che comporta ”insegnamento” invece di “dottrina”, e un richiamo diretto al Vangelo e alla sua ispirazione. È spiacevole che negli stessi indici ufficiali queste espressioni differenti siano state collocate sotto la stessa voce “dottrina sociale”.
«A proposito del vocabolario del concilio – ci confida il domenicano progressista -, durante l’elaborazione dei testi e nel corso della redazione, sono avvenuti incidenti rivelatori. In diverse occasioni “dottrina sociale” è stata usata in senso globale; ma, a più riprese, l’espressione fu contestata. Nel decreto sull’ufficio pastorale dei vescovi durante la discussione fu proposto e accettato un emendamento che chiedeva l’eliminazione di una espressione ambigua e soggetta a contestazione; e infatti fu eliminata dalla redazione finale.
«È soprattutto nella costituzione Gaudium et spes che i responsabili chiesero di sostituire “dottrina sociale” con “dottrina cristiana sulla società”, minuscola variante per evitare la formula stereotipa. Così avvenne al cap. 2 n. 23 e nel capitolo relativo alla comunità politica (n. 76), dove per un disgraziato malinteso ci si è arbitrati di sostituire l’espressione [dottrina sociale] dopo la promulgazione del testo.
«Da allora, malgrado qualche oscillazione, l’espressione è stata sempre più contestata. […]
«In verità fu quella la prima sconfitta di questo concetto: esso accomuna categorie socio-culturali che sono il riflesso di una situazione storica e geografica determinata e che, di conseguenza, offendono le realtà che non hanno integrato. Tale concetto destoricizza nozioni che sono il prodotto del tempo determinato in cui furono elaborate. […] In breve, si enunciano principi astratti, a partire dai quali per via deduttiva si cercano delle applicazioni, invece di misurarsi effettivamente con la realtà, nei luoghi concreti dove si svolge la vita collettiva, “lontano dal palazzo delle idee e del potere”, come diceva il prof. De Rita al convegno dei cattolici italiani a Roma del novembre 1976. È impossibile stabilire il costume sociale prendendo come riferimento per tutti gli uomini un mondo ideale, che si presume rifletta la gloria divina e che di fatto sacralizza un ordinamento gerarchico particolare della società» (4).
Se la «storia» dei retroscena conciliari non può non riempire di perplessità e sollevare problemi letteralmente angosciosi, la parte dottrinale del brano fino a questo punto citato dà il senso di una abissale lontananza più che dal «palazzo delle idee e del potere», dal «palazzo della ragione», che sarebbe in grado, anzi, è in grado di fornire all’uomo la nozione certa di Dio esistente, creatore e provvidente, ma che, secondo padre Chenu, non sarebbe in grado di offrire principi validi per soluzioni di problemi sociali contingenti!
Proseguiamo: «È questa la causa della mediocre efficacia dell’insegnamento dei pontefici. In ogni nuovo documento il papa si lamentava della indifferenza, della negligenza, delle esitazioni dei cristiani nell’applicazione delle direttive proposte; la mancanza di zelo non è la causa prima di questo scacco, ma il metodo stesso della sua mancanza di realismo psicologico e sociologico.
«È ancora questa la causa della permanente ambiguità delle soluzioni e dei consigli offerti; erano infatti idealizzate e universalizzate situazioni locali e temporanee: richiami alla vita contadina, regime di civiltà pre-industriale, costumi pre-capitalistici, organizzazioni professionali, corporativismo, sindacalismo, intervento dello stato, ecc.» (5).
2.
SUPERAMENTO DELLA «PREGIUDIZIALE METAFISICA»
Secondo il progressismo, la ribellione del mondo moderno alle verità e alle leggi naturali e rivelate andrebbe addebitata alle «astrattezze» del magistero dogmatico e morale della Chiesa, che non avrebbe ancora sufficientemente «rimesso in questione le strutture mentali all’interno delle quali ha sempre espresso la sua fede», ossia le tesi immutabili della filosofia perenne.
Dunque, gli insuccessi della dottrina sociale non derivano dal non essere stata applicata, oppure dall’essere stata applicata male, ma piuttosto dalla sua stessa natura confusa: deduzioni errate da premesse corrette? Ascoltiamo padre Chenu: «Al limite è la raffigurazione stessa di Dio che presiede a questa idealizzazione: un Dio che ha stabilito eternamente le leggi costitutive dell’ordine del mondo, che governa con la sua imperturbabile provvidenza, di fronte alla quale la docilità più o meno passiva degli esseri umani garantisce la stabilita sociale e l’autorità. Questo “deismo”, nel quale l’Evangelo del Cristo è neutralizzato, è stata l’ideologia della borghesia del XIX sec.; e non è passata senza lasciare traccia nella spiritualità della dottrina sociale. Si sarà osservato, al contrario, che nei testi recenti il richiamo al messaggio del Vangelo è proposto come la motivazione dell’impegno del cristiano, assai più che le istanze del diritto naturale o di una philosophia perennis» (6). Questo «teismo» – e non «deismo», con buona pace di padre Chenu! (7) – è la prospettiva della philosophia perennis, non di una philosophia perennis; cioè dell’uso naturale e articolato di ragione di ogni uomo, tra cui forse, anche – non vedo perché escluderlo di principio -, del borghese del secolo XIX: o anche san Tommaso è un imprenditore industriale di inizio o di metà Ottocento? E questa philosophia perennis è l’armatura su cui si regge ogni corretta teologia. La sua assenza, e soltanto la sua assenza, permette vaniloqui come il seguente: «Il cristianesimo è una “economia”, e il regno di Dio si realizza nella storia, nella quale l’apporto dell’evento non è una semplice aggiunta a una visione dell’uomo che esisterebbe in se stessa, indipendentemente dallo spazio e dal tempo. Gli eventi nuovi conducono la Chiesa a una interpretazione nuova della tradizione kerigmatica e di tutta la tradizione evangelica. Interpretare la storia della salvezza a partire da un fatto nuovo esige che la chiesa sia profondamente inserita nell’avvenimento salvifico. Così, mediante il suo magistero, può portare i suoi fedeli a inserirsi nella storia della salvezza, impegnandosi nella storia della liberazione degli uomini. Il rapporto tra liberazione e salvezza non ha senso se non storicamente situato. In altri termini la liberazione totale e definitiva del Cristo si concretizza sempre attraverso liberazioni storiche parziali. Così bisogna rifiutare una teologia astratta che prenda in considerazione soltanto la condizione permanente dell’umanità, nelle sue speranze come nella sua miseria. Questo tipo di teologia ha spesso servito da garanzia ideologica a coloro che, dal momento che detenevano il potere economico e politico, cercavano di mantenere lo status quo» (8). Prego il lettore di notare, tra mille «stranezze», la denuncia di quella «teologia astratta», che prende «in considerazione soltanto la condizione permanente dell’umanità», ovvero la sua natura!
«Oggi – incalza padre Chenu -, lo sviluppo dei popoli (Populorum progressio) rimette in questione le strutture mentali all’interno delle quali la chiesa ha sempre espresso la sua fede. L’uomo che essa vedeva al servizio di un ordine divino impresso nella natura, si rivela come il creatore della propria libertà, il suo sforzo genera continuamente l’assetto che gli permette di diventare una persona. […] Le libere azioni dell’uomo creatore e liberatore, che costituiscono la storia, formano il processo che, realizzando l’immagine di questo mondo, fa di questo stesso mondo un mondo liberato, un mondo salvato. Così si forma una concezione della vita sociale che supera l’idea dell’essenza nell’ambito del cosmo e della natura e riconosce l’orizzonte più vasto della libertà, del tempo, della storia. La storia non è più dunque una semplice modificazione di una essenza eterna, ma al contrario non vi è natura che all’interno del quadro più vasto della storia» (9). Le affermazioni sono sempre più traumatizzanti. Dunque, è vero, come scrive Giuseppe Alberigo, che «molti cristiani hanno preso le distanze dalla […] “pregiudiziale metafisica”»? (10). Come non annoverare tra costoro padre Chenu?
3.
SUPERAMENTO DELLA «DOTTRINA SOCIALE»
Secondo il progressismo, la conversione della società nei suoi costumi, nelle sue leggi e nelle sue istituzioni, ossia l’avvento della Cristianità, è un «mito». Mito colpevolmente illuso di possedere «soluzioni razionalmente irrefutabili, e, a un tempo, fedele espressione dei princìpi cristiani». È necessario, secondo i progressisti, abbandonare tale «mito», e capovolgere la «tendenza» alla conversione del mondo, «schema» che «comandava la dottrina sociale».
Che legame ha quanto ho riportato, con il problema che ci riguarda in questo momento, relativo alla «deideologizzazione» del cattolicesimo? Rinnovando le mie scuse al lettore per le lunghe citazioni – ma la composizione di un mosaico storico e dottrinale, anzi, la ricomposizione di esso, si deve piegare alle esigenze e alle dimensioni delle «tessere»che sono anzitutto reperti, né basta, a dare il sapore del testo o la malizia del dettaglio, un sommario rimando culturale a pié di pagina, mentre lo stralcio può alimentare il sospetto della manipolazione, del «trattamento» del documento -, passo a riportare i due brani che forniscono la «deontologia» della «filosofia» e della «teologia» sopra fedelmente trascritta. Si tratta di una pagina in cui convivono affermazioni di padre Chenu e di Giuseppe Alberigo: «Non si tratta dunque per la chiesa di proporre un modello prestabilito, un progetto di società che si troverebbe in concorrenza ideologica con altri regimi sociali e a motivo del quale una chiesa-cristianità professerà la sua religione come la forma determinante della civiltà. Coscientemente o no i sostenitori e i protagonisti della “dottrina sociale” erano permeati da questo mito della cristianità. Concezione giuridico-societaria che non èche una incarnazione della potestas indirecta: “Si stabilisce pertanto un regime competitivo della chiesa con la società umana nell’illusione di poter presentare agli specialisti di problemi sociali un sistema di soluzioni razionalmente irrefutabili, e, a un tempo, fedele espressione di principi cristiani. Non è difficile riconoscere in questo schema l’impostazione fondamentale delle ideologie, tra le quali infatti, da alcuni decenni, si allinea anche un’ideologia di ispirazione cristiana”.
«“Con la teologia del popolo di Dio, introdotta come secondo capitolo della Lumen gentium, si è verificata la rivoluzione copernicana dell’ecclesiologia cristiana contemporanea. In tal modo si è ridato spazio e dinamica a tutta la riflessione sulla chiesa ponendola in una prospettiva storica e di comunione. E su tale base che si è aperta la reale possibilità, anzi l’urgenza, di superare la fase della dottrina sociale cristiana, per impostare una riflessione sul rapporto fra storia della salvezza e storia umana, abbandonando tutte le tentazioni competitive rispetto alle società civili e la pretesa di impegnarsi in un discorso tecnico sui vari problemi dello sviluppo e dell’equilibrio sociale” (G. ALBERIGO, La Costituzione Gaudium et spes in rapporto al magistero globale del concilio, in La Chiesa nel mondo di oggi, Firenze, 1967, p. 186, 190).
«La Gaudium et spes non è un semplice restauro della dottrina sociale; essa è un elemento decisivo dell’inversione di tendenze rispetto allo schema che comandava la dottrina sociale».
4.
I «SEGNI DEI TEMPI»: VERSO UN’«ETICA SOCIALE DELLA SITUAZIONE»
Secondo il progressismo, tutti gli eventi storici, «nella misura in cui costituiscono punti di convergenza per molte persone ed esprimono in qualche misura la loro attesa», sono «segni» dotati di «senso divino». È necessario dunque, secondo i progressisti, non già conformare il mondo alle leggi divine, ma «leggere» il «senso divino» degli eventi storici e desumerne la nuova teologia.
Procediamo: «Di questa posizione noi possiamo offrire la linea e il nucleo, applicando la nozione di “segni dei tempi”, l’espressione evangelica alla quale Giovanni XXIII ha dato credito in questa materia. “Segni dei tempi”: è l’espressione adeguata per significare lo sforzo nuovo dei cristiani nella loro ermeneutica della società e per qualificare la nuova coscienza della chiesa nello svolgimento della storia attuale. Invece di cercare di applicare una dottrina generale ai casi particolari, l’attenzione si concentra sulla lettura della storia come tale, per distinguere in alcuni fatti il loro valore simbolico, nella misura in cui questi avvenimenti costituiscono dei punti di convergenza per molte persone e esprimono in qualche misura la loro attesa. Leggere il senso divino e evangelico di questi eventi non significa affatto astrarli dalla loro realtà terrena; è in se stessi, nella loro piena e propria pregnanza umana, che essi sono segni. È proprio in questa realtà che la chiesa legge in essi un’attitudine a divenire richiamo al Vangelo e soggetto della grazia. Così la promozione dei popoli del Terzo Mondo nelle giovani chiese con la loro liturgia, e la loro teologia della liberazione; così la socializzazione in forza dei rapporti di produzione; così la mondializzazione dei problemi, ecc.» (11).
Come non cogliere in queste affermazioni i termini di una ben identificabile «etica sociale della situazione», intrisa, come quella individuale, di residui relativistici e modernistici? (12).
Note:
(1) Cfr. MARIE-DOMINIQUE CHENU, La dottrina sociale della Chiesa. Origine e sviluppo (1891-1971), Editrice Queriniana, Brescia 1977.
(2) Cfr. GIUSEPPE ALBERIGO Che immagine della Chiesa ha il Pci? in Rinascita, anno 34, n. 41, 21-10-1977, pp. 3-4.
(3) Cfr. ALCESTE SANTINI, La Chiesa e il pluralismo, in L’Unità, 10-10-1977.
(4) MARIE-DOMINIQUE CHENU, o.p. cit., pp. 48-49.
(5) Ibid., p. 50.
(6) Ibidem.
(7) Questa confusione tra «deismo» e «teismo» stupisce sotto la penna di padre Chenu, che il risvolto di copertina dell’opera citata segnala come già «rettore delle facoltà teologiche domenicane di Saulchoir (Parigi), e attualmente […] professore alla Facoltà di teologia cattolica di Parigi, membro della Società filosofica di Lovanio e della Medieval Academy of America».
(8) Ibid., pp. 50-51.
(9) Ibid., pp. 51-52.
(10) GIUSEPPE ALBERIGO, art. cit.
(11) MARIE-DOMINIQUE CHENU, op. cit., pp. 52-53.
(12) Per la connotazione dell’«etica della situazione» nei suoi termini generali, cfr. l’istruzione del Santo Ufficio del 2 febbraio 1956 (Denz.-Sch., 3918-3921). Di una «etica della situazione», una «etica sociale della situazione» non può che essere una semplice specificazione.
Non mi pare possibile chiudere i riferimenti allo scritto più volte citato di padre Chenu, senza segnalare il brano in cui l’autore accredita il più grossolano fraintendimento dell’incipit della Rerum novarum. Là dove Leone XIII ha parole di deprecazione per «l’ardente smania di novità, che da gran tempo ha incominciato ad agitare i popoli», padre Chenu legge: «“Realtà nuove”: queste prime parole dell’enciclica devono essere capite nel loro significato più pieno: Leone XIII ha preso coscienza della trasformazione del mondo, in particolare del mondo del lavoro, e la sua sensibilità verso questa novità – “l’ardente brama di novità” – si manifesta nel suo testo, animato da una viva emozione, umana e cristiana» (op. cit., p. 13)!