Michele Vietti, Cristianità n. 43 (1978)
“Germi di socialismo” nella legislazione italiana
IL “NUOVO REGIME DEI SUOLI”
1. POLITICA DELLE RIFORME E STRATEGIA COMUNISTA
Il 18 ottobre 1976, parlando al comitato centrale del Partito Comunista, l’on. Berlinguer indicava gli obiettivi che il partito avrebbe dovuto perseguire negli anni a venire, e individuava alcuni settori specifici che la strategia comunista avrebbe dovuto avere di mira in modo prioritario.
«Vogliamo proporre […] – così si esprimeva – la necessità di interventi trasformatori in alcuni settori. Alludiamo a settori come quello dei trasporti, dell’istruzione, della sanità, della casa […] perché un impegno in direzione dei trasporti collettivi, dell’istruzione e della scuola e infine della sanità e della casa obbliga a porre in modo più evidente il nesso tra l’intervento economico […] e l’operazione – non più certo solo economica – volta a creare gradualmente condizioni per un mutamento profondo nel modo di vivere della società» (1).
Ciò significa che l’operazione «politica delle riforme» che dagli anni Sessanta viene sistematicamente realizzata in Italia su ispirazione comunista, dopo avere sovvertito i principi economici della libera iniziativa e della proprietà privata nei settori dei servizi essenziali, della finanza, dell’industria, ecc., mediante una statalizzazione forsennata e rovinosa, deve ora venire applicata a quei campi che più da vicino toccano e condizionano la vita di ogni cittadino.
Tale cosiddetta «politica delle riforme» altro non è che la realizzazione del fine classico del comunismo, l’abolizione della proprietà privata (2), secondo le modalità graduali e indirette imposte dalla peculiare situazione italiana; come bene sintetizza Luciano Barca, «occorre concepire la Rivoluzione [comunista] come processo», e non come salto, «porsi l’obiettivo storicamente conseguibile di fuoriuscire dal capitalismo con un processo e non con un atto istantaneo», con il metodo di «sviluppare via via elementi di socialismo» (3).
Dunque, non comunistizzazione immediata dei mezzi di produzione e dei beni, ma graduale inoculamento nel corpo sociale, in dosi sempre più elevate, di quelli che Franco Rodano definisce efficacemente «germi di socialismo», (4), ossia progressive riduzioni della sfera della proprietà privata a vantaggio di uno statalismo sempre più assorbente.
E ancora, non esplicitazione della manovra, ma azione indiretta che induca – attraverso pressioni di ordine politico-sindacale – governi non comunisti a operare mediante gli strumenti legislativi, giuridici e fiscali, in direzione antiproprietaristica, facendo assumere loro la responsabilità della somministrazione del veleno e garantendosi così contro eventuali reazioni del paziente.
Ora, ritornando alla citazione iniziale, l’on. Berlinguer ritiene sia giunto il momento di procedere alla socializzazione di quei settori, quali scuola, casa, trasporti, assistenza, in cui l’inserimento dei «germi di socialismo» otterrà in maniera più immediata ed efficace – data la loro essenzialità e interrelazione con l’esistenza di ciascuno – l’effetto di accelerare la trasformazione economica, sociale e infine politica verso il comunismo: ovvero, l’operazione antiproprietaristica in questi settori consente di realizzare non solo una trasformazione economica, ma una vera e propria operazione in senso comunista sul costume e sulla mentalità.
Poste queste premesse, tutta la produzione legislativa degli ultimi due anni – apparentemente, per l’osservatore benpensante, mirante solo allo «sfascio» di ciò che resta in Italia della scuola, delle strutture sanitarie e del settore edilizio – assume una sua logica consequenzialità e ci è facile coglierne la ratio alla luce delle indicazioni del leader comunista.
Mi propongo di analizzare brevemente l’operazione sopradescritta, specificamente in uno dei settori elencati, in cui forse più degli altri è evidente l’applicazione dei criteri strategici che ho delineato, e cioè il settore della casa, con riferimento essenzialmente a una delle leggi con cui è stato sferrato l’attacco su questo fronte, il cosiddetto «nuovo regime dei suoli».
Una portata non meno sovversiva e un significato ugualmente antiproprietaristico riveste indubbiamente la recentissima «nuova disciplina delle locazioni degli immobili urbani», meglio nota come «equo canone», cui mi riservo di dedicare in prosieguo un analogo commento.
2. LA LEGGE 28 GENNAIO 1977 N. 10: SUOI PRECEDENTI LEGISLATIVI
Una vera rivoluzione nel tradizionale regime della proprietà privata sui beni immobiliari è stata operata dalla legge 28 gennaio 1977, n. 10 intitolata Norme per la edificabilità dei suoli.
Esula dal mio intento, né sarebbe possibile farlo in questo contesto, un esame e un commento analitico dei 22 articoli di cui è composta la legge.
Mi preme piuttosto sottolinearne – mediante un giudizio d’insieme – la portata sostanziale e l’incidenza sociale.
Per fare ciò è necessario, anzitutto, inserire questa legge nel quadro dei provvedimenti legislativi in materia edilizia onde coglierne gli aspetti di continuità e quelli di radicale novità.
Fino all’entrata in vigore della legge del 1977 lo ius aedificandi (come si suole indicare la facoltà di costruire anche da parte di chi appartiene a gruppi che hanno da sempre dichiarato guerra al latino!) è stato considerato una modalità di esercizio del diritto di proprietà a esso inscindibilmente legato, una – e talora la principale – delle estrinsecazioni dello ius utendi, fruendi che il proprietario ha sul bene, conformemente alla nozione tradizionale e cristiana che definisce la proprietà la «destinazione permanente dell’utilità di un bene economico a vantaggio esclusivo di una persona» (5), «sia perché gli individui possano provvedere a sé e alla famiglia, sia perché […] i beni del Creatore essendo destinati a tutta l’umana famiglia, servano veramente a questo fine» (6).
Chi possiede un campo può coltivarlo o, a suo insindacabile giudizio, costruirvi una casetta per abitarvi con la sua famiglia, o per locarla.
Tuttavia, a questo sistema, naturale prima che consacrato dalla concezione tradizionale della proprietà, già erano state apportate, prima della legge in questione, non poche limitazioni.
Vigente la legge urbanistica del 1942, coloro che volevano eseguire, modificare, ampliare costruzioni edilizie nell’ambito dei centri abitati, dovevano richiedere al sindaco la licenza edilizia (7). Solo in presenza di piano regolatore si esigeva la licenza anche per le costruzioni da realizzarsi nelle zone di espansione contemplate dal piano; ma i comuni per cui era prescritta l’adozione di tali piani regolatori erano allora pochissimi (8).
Fuori di questi limiti la facoltà di edificare poteva esercitarsi liberamente, senza bisogno di licenza, quale normale estrinsecazione del diritto di proprietà.
Anche nei casi, poi, in cui la licenza era prescritta, essa non poteva venire negata, salvo il caso che la costruzione non fosse conforme agli strumenti urbanistici o alle norme di «ornato pubblico» (9).
Ciò significava che la natura giuridica di tale licenza era quella di semplice «autorizzazione», cioè che essa costituiva «la semplice rimozione di un limite all’esercizio di un diritto proprio di chi aveva disponibilità dell’area da utilizzare» (10).
La diffusione sempre più massiccia dei piani regolatori e dei programmi di fabbricazione verificatasi dagli anni ‘50, rese l’edificabilità sempre più soggetta alle scelte compiute dagli organi preposti alla cosiddetta «pianificazione urbanistica», e diede origine a una dicotomia della proprietà immobiliare tra suoli edificabili e suoli non edificatili. In sostanza – nota un grande studioso della materia – «l’edificabilità non ineriva più in via generale ad ogni tipo di proprietà immobiliare ma soltanto a quelle proprietà immobiliari per le quali le autorità avessero deciso di mantenerla in vita […] e nei limiti entro cui avessero ritenuto di mantenerla in vita» (11).
È evidente quanto la discrezionalità pressochè assoluta delle scelte urbanistiche, traducentesi in vero arbitrio verso il privato, avesse un effetto discriminatorio nei confronti di proprietari i cui terreni erano dall’autorità urbanistica condannati alla inedificabilità perpetua o a tempo indeterminato.
Il pennarello dell’urbanistica infatti, colorando di verde intere zone, lasciava i proprietari con terreni privi di ogni valore; concedendo alti indici di edificabilità altrove, faceva di altri proprietari ricchi privilegiati. E tutto ciò senza possibilità di appello (12).
A ciò si aggiunga, poi, l’inesistenza di indennizzi a favore di coloro che, a causa di vincoli incompatibili con ogni tipo di sfruttamento edilizio del terreno, si trovavano sottoposti a una vera e propria procedura di espropriazione.
3. LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 55 DEL 1968
Per porre rimedio a una situazione tanto sperequata si rese necessario un intervento della Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 55 del 1968, dichiarò incostituzionali alcune disposizioni della legge urbanistica del 1942 (13), che consentivano ai comuni di privare, senza limiti di tempo e senza alcun compenso, un proprietario del diritto di costruire sul suo terreno: la Corte riconobbe ai vincoli di piano regolatore importanti un divieto assoluto di edificare e illimitati nel tempo la natura di vincoli a carattere espropriativo e come tali comportanti il diritto a essere indennizzati ai sensi dell’art. 48 della Costituzione.
Il giudizio della Corte si fondava sul presupposto che la garanzia del godimento della proprietà privata risulta menomata quando singoli diritti, che si ricollegano all’istituto della proprietà, sono compressi o addirittura soppressi senza indennizzo alcuno, e che la compressione o soppressione della proprietà privata può avvenire di fatto anche con uno svuotamento di rilevante entità e incisività del suo contenuto.
Mentre i mass media accusavano la Corte di reazionarismo e di volere creare il caos urbanistico, il governo non seppe fare di meglio che emanare una nuova serie di leggi – le cosiddette leggi «tampone» (14) – con cui i suddetti vincoli venivano confermati, ma limitati nel tempo, per sfuggire in tale modo alle censure di incostituzionalità ed evitare l’indennizzo.
Seguì, nel 1971 la cosiddetta «legge della casa», che, integrata da una leggina del 1974, dispose che l’indennità da corrispondersi per la espropriazione di terreni a scopo di realizzazione di opere pubbliche, dovesse commisurarsi ai valori agricoli, il che contribuì ad accentuare ancora di più la disparità di posizione tra chi poteva costruire direttamente sui propri terreni e chi invece doveva metterli a disposizione dei pubblici poteri.
Poi, il nuovo regime dei suoli.
4. INTRODUZIONE DEL REGIME CONCESSORIO
Il contrasto tra le eccessive limitazioni alla proprietà e la concezione generale della proprietà privata comprensiva dello ius aedificandi, rilevato dalla Corte Costituzionale, veniva superato alterando quest’ultima e riformulando un concetto di proprietà non più inglobante la facoltà di costruire.
L’attività edificatoria – si dice esplicitamente nella relazione alla legge – viene infatti subordinata alla «concessione» rilasciata dall’autorità pubblica; e quindi non si può più parlare di vincoli che la colpiscono, prima del formale provvedimento di concessione, perché solo in forza di questo il soggetto acquisisce il diritto di costruire.
La facoltà di edificare non inerisce più, come in regime di licenza-autorizzazione, al diritto dominicale preesistente in capo al soggetto (anche se non utilizzabile prima dell’intervento pubblico); al contrario, nel nuovo regime concessorio, tale facoltà solo con la «concessione» può trasformarsi nel contenuto di un autonomo diritto, non già preesistente ma insorgente con lo stesso provvedimento amministrativo e solo in forza di questo (15).
Il che equivale a dire, al di là di quelle che potrebbero apparire sottigliezze giuridiche, che il proprietario del suolo prima aveva un diritto autonomo a costruire, quantunque condizionato nell’effettivo esercizio, dal rilascio della licenza; ora, invece deve farsi concedere, dietro versamento di un tributo, tale diritto dalla pubblica autorità.
5. ATTIVITÀ EDIFICATORIA COME ATTIVITÀ O VIETATA O DOVUTA
Ma v’è di più. «Il nuovo assetto giuridico ha inflitto alla posizione proprietaria un colpo decisivo, modificandone radicalmente la essenza», ha potuto affermare Sandulli (16): esso ha subordinato ai programmi pluriennali di attuazione degli strumenti urbanistici la realizzazione delle previsioni in essi contenute; il che significa che l’autorità urbanistica non dispone solo del potere di statuire se, dove, come la città può subire modifiche e sviluppi, ma anche quando ciò debba avvenire.
Nel sistema anteriore la regola generale era che quella edificatoria fosse una attività permessa, per il cui esercizio era sufficiente la verifica della corrispondenza della costruzione alla disciplina del settore; ora la regola è che l’attività edificatoria, pure conforme alle previsioni degli strumenti urbanistici, è, in principio, o vietata o dovuta (17).
Ciò significa che non è lecito costruire se non quando, dove e come l’autorità abbia deciso che così avvenga, e per di più che, qualora l’autorità abbia deciso che si costruisca, le costruzioni devono inevitabilmente essere edificate, pena, per i soggetti titolari di diritti reali legittimanti che non si assoggettino a tale onere, la sottoposizione alla espropriazione a scopo sostitutivo da parte del Comune (18).
Ciò perché, come si è detto, lo ius aedificandi non costituisce più un attributo inerente naturaliter alla proprietà, non fa più parte del contenuto essenziale di questa, ma è un quid novi che si aggiunge al diritto dominicale in forza di un provvedimento discrezionale dell’autorità urbanistica (l’inserire o meno in un programma di attuazione l’area cui sia stato conferito l’attributo dell’edificabilità in sede di strumento urbanistico), rimanendo poi condizionato sospensivamente nel suo concreto esercizio fino al rilancio della concezione edilizia.
D’altro canto la proprietà compresa in un «programma d’attuazione» è ormai onerata, vale a dire che il proprietario è tenuto a costruirvi entro il termine di durata del programma.
È difficile immaginare in materia un marchingegno più vessatorio.
6. L’ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ
Una trattazione a sé stante meriterebbe la nuova normativa sulla espropriazione che la legge in esame ha introdotto.
Mi limiterò ad alcuni cenni (19). È noto che anche l’art. 42 comma 3 della Costituzione, nell’ammettere che la proprietà privata possa essere espropriata per motivi di interesse generale, ha imposto l’obbligo della corresponsione dell’indennizzo.
Tale indennizzo, come si evince da numerose pronunce della Corte Costituzionale, non deve necessariamente corrispondere al valore venale del bene espropriato o può esserne inferiore, ma, ciononostante, deve essere equo e congruo, non meramente simbolico, e rappresentare «il massimo di contributo e di riparazione che, nell’ambito degli scopi di interesse generale, la pubblica Amministrazione può garantire all’interesse privato» (sent. n. 61 del 1957).
Non pare quindi dubbio, anche in base a un puro giudizio di legalità (20), che l’indennizzo debba pur sempre essere sostitutivo, anche se in misura solo parziale, della utilità che il proprietario poteva trarre dal bene sottrattogli e che di conseguenza vada sempre determinato con riferimento al valore effettivo di quel bene.
Ora, che a questo criterio non sia informato l’art. 14 della legge 1977, n. 10, è di tutta evidenza. Basta osservare che la indennità di espropriazione delle aree urbane è determinata, secondo questa disposizione, in base al valore agricolo medio dei terreni della regione, sia pure rettificato da modesti coefficienti, per rendersi conto che viene assunto come parametro un fattore esterno al bene, non avente alcun rapporto con il valore effettivo del bene stesso.
Non senza aggiungere che la commisurazione dell’indennizzo a un valore medio astratto, neppure esso corrispondente a quello agricolo effettivo, esaspera ulteriormente i difetti del sistema, portando in concreto alla liquidazione di indennizzi che nulla hanno a che vedere con il valore del bene espropriato e che sono di gran lunga inferiori a quelli rappresentativi di un serio ristoro, pur diminuiti del sacrificio che si pretende che il proprietario sopporti nell’interesse generale.
Né si dica che, con il sistema adottato, si mira unicamente a evitare che la collettività paghi quella cosiddetta «rendita di posizione», che in ultima analisi è stata la collettività medesima, e non il singolo proprietario, a produrre. Anzitutto è evidente, dopo quanto si è detto, che l’indennizzo così determinato non sarà mai uguale al valore del bene, depurato dalla «rendita di posizione»: la giustificazione pertanto non calza.
Inoltre, imporre solo ad alcuni proprietari di vedere annullata, e con criteri tanto grossolani, tale pretesa «rendita di posizione», equivale a una disparità di trattamento che certo contrasta quanto meno con il disposto dell’art. 3 della Costituzione. A ciò si aggiunga che molto spesso l’espropriato non gode personalmente di alcuna «rendita di posizione» perché, se l’acquisto è recente, ne ha corrisposto tutto il valore al venditore, cosicché, anche sotto questo aspetto, l’art. 16 in esame consacra una ulteriore ingiustizia.
Infine, essendo l’indennizzo collegato al valore agricolo, secondo i tipi di coltura praticati nelle diverse regioni, gli espropriati godranno di indennizzi più o meno alti a seconda che il territorio circostante sia più o meno intensamente coltivato o destinato a colture più o meno pregiate: in tale modo, proprio perché manca ogni concreto riferimento al valore del bene espropriato, terreni urbani siti in insediamenti differenti, ma dal prezzo di mercato sostanzialmente identico, saranno indennizzati in modo del tutto difforme tra loro, equiparati solo dalla irrisorietà della indennità.
7. ARBITRARIETÀ. ESTENSIONE DELLA LEGGE. ONERI DI URBANIZZAZIONE.
Si deve infine rilevare che la nuova legge, nata con la pretesa di realizzare la tanto agognata uguaglianza sostanziale e porre fine alle sperequazioni di situazioni tra proprietari di immobili magari analoghi, ma aventi valori diversissimi a seconda delle destinazioni prescritte dagli strumenti urbanistici, non solo non consegue questo obiettivo, ma accentua il divario che si voleva eliminare.
È vero che in partenza la perfetta uguaglianza è realizzata, perché lo ius aedificandi non compete a nessuno, ma concretamente l’affidarne la concessione alle amministrazioni locali significa dare luogo a una situazione di totale arbitrio in cui il potere politico periferico (a forte componente comunista), avrà agio di operare con piena discrezionalità, consentendo o meno che un proprietario perfezioni il proprio diritto di proprietà con l’aggiunta della facoltà di edificare, in base a un giudizio inappellabile.
Si noti ancora che la «concessione» è richiesta non soltanto per le nuove costruzioni, ma altresì per ogni sorta di operazione edilizia su ogni tipo di costruzione, sia che si tratti di risanamenti, restauri, ristrutturazione e addirittura manutenzione straordinaria (21); pertanto, anche la rinnovazione di un tetto, al pari della costruzione di una tettoia nel proprio giardino o della copertura del proprio terrazzo, necessitano, per essere legali, del placet dei pubblici poteri.
Si è detto che costituisce elemento equilibratore del vantaggio concesso il contributo contemplato dalla legge sotto forma di «onere di urbanizzazione» (22).
Ciò è inesatto anzitutto perché il contributo non è altro che l’estrema istituzionalizzazione dello spoglio operato dallo Stato del diritto di costruire del privato, il quale, per poterlo esercitare, deve chiederne la concessione dietro versamento di un tributo (23); a ciò si aggiunga che esso talora non è richiesto (24), e che comunque viene poi fatto gravare dall’imprenditore sull’eventuale compratore, appesantendo ancora di più la situazione del mercato edilizio.
Vero esproprio collettivo, dunque, quello realizzato da questa legge, che ha confiscato non a pochi speculatori, ma a milioni di proprietari italiani (che tanti sono) (25) il diritto di costruire sul proprio campo la propria casa, arrogando allo Stato il compito, dopo avere requisito ogni ricchezza, di farsi dispensatore ad libitum di privilegi clientelari (26).
8. CONCLUSIONE
In conclusione, per quanto non siano infondati i rilievi di coloro che affermano che il legislatore non ha poi portato alle estreme conseguenze la separazione dello ius aedificandi dal diritto dominicale (27), rimane il fatto che questa legge ha inteso sovvertire il sistema precedente e, istituendo il principio della «riserva pubblica di decisione» in merito a ogni intervento di trasformazione del territorio, ha voluto sancire una ulteriore dilatazione della sfera statale a detrimento del «privato».
È un ennesimo spazio di libertà che scompare; e in proposito ricordo le parole di Pio XII: «Il riconoscimento di questo diritto [del diritto alla proprietà privata] sta saldo o crolla con il riconoscimento della dignità personale dell’uomo, con il riconoscimento dei diritti e dei doveri imprescrittibili, inseparabilmente inerenti alla personalità libera che egli ha ricevuto da Dio. Solamente chi rifiuta all’uomo questa dignità di persona libera, può ammettere la possibilità di sostituire al diritto alla proprietà privata […] non si sa quale sistema di assicurazioni o garanzie legali di diritto pubblico. Deh! possiamo vedere non levarsi il giorno nel quale su questo punto una frattura definitiva verrà a separare i popoli […]. Nello stesso istante uno dei pilastri maestri che hanno sostenuto, durante tanti secoli, l’edificio della nostra civiltà e della nostra unità occidentale, cederebbe e, come quelli dei tempi antichi, resterebbe a giacere sotto le rovine ammassate dalla sua caduta» (28).
Parole profetiche, puntualmente confermate dai fatti; questo stesso Stato, che opera incessantemente per l’abolizione della proprietà privata e per la sua sostituzione con un sistema di soffocante «garantismo pubblico» che già ci opprime, ha potuto calpestare la dignità dell’uomo fino al punto di proclamare con una propria legge la legalizzazione dell’omicidio, affermando la liceità dell’aborto; ha potuta rivendicare a sé, negandolo al Creatore, il diritto di vita o di morte su ogni concepito; ha potuto sovvertire ogni gerarchia di valori dichiarando lecito l’illegittimo!
Questo Stato sempre più onnipotente, fattosi «padre e padrone», tragicamente si muove verso l’acquisizione dell’ultimo attributo, quello di Dio: e allora sarà la perfezione delle barbarie e del totalitarismo, il comunismo.
MICHELE VIETTI
NOTE
(1) ENRICO BERLINGUER, Il PCI e la crisi italiana, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 43.
(2) MARX-ENGELS, Manifesto del Partito Comunista, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1971, p. 78: «I comunisti possono riassumere la loro dottrina in questa unica espressione: abolizione della proprietà privata».
(3) LUCIANO BARCA, L’austerità e il capitalismo reale, in Rinascita, anno 34, n. 5, 4-2-1977, pp. 5-7.
(4) FRANCO RODANO, Sulla politica dei comunisti, Boringhieri, Torino 1975, pp. 102 ss.
(5) Così P. DESQUEYRAT, cit. in J. VILLAIN, L’insegnamento sociale della Chiesa, trad. it., Centro studi sociali, Milano 1957, p. 135.
(6) PIO XI, Enciclica Quadragesimo anno, del 15-5-1931, in Grandi encicliche sociali, 6ª ed., Edizioni Domenicane Italiane, Napoli 1972, p. 142.
(7) ALDO M. SANDULLI, Il nuovo regime dei suoli, in Rivista giuridica dell’edilizia, 1976, III, pp. 334-336.
(8) La legge urbanistica del 1942 (art. 8) attribuì al governo il potere di obbligare singoli comuni a provvedersi di un piano, ma il primo elenco dei comuni fu redatto solo nel 1954. A questo primo decreto ne seguiranno altri nove fino al 1966, comprendenti complessivamente un migliaio di comuni. Ma neppure la metà si sono dotati del piano prescritto.
(9) La licenza edilizia fu introdotta per la prima volta con i caratteri attuali della legislazione statale nel 1935; anteriormente era prevista soltanto nel regolamento di alcuni comuni, ma non pochi autori mettevano in dubbio la legittimità di tale previsione (cfr. GIUSEPPE FRAGOLA, Teoria delle limitazioni del diritto di proprietà con speciale riferimento ai regolamenti comunali, Società Editrice Libraria, Roma-Milano-Napoli 1910, pp. 24 ss.; ANTONIO GAMBARO, Jus aedificandi e nozione civilistica della proprietà, Giuffrè Editore, Milano 1975, pp. 301 ss.).
(10) Cfr. in questo senso abbondanti e concordi indicazioni di giurisprudenza e dottrina in Rassegna di giurisprudenza in materia di licenze edilizie, in Rivista giuridica dell’edilizia, 1958, II, p. 3.
(11) ALDO M. SANDULLI, art. cit., ibidem, Fu la legge 765 del 1967 che impose a tutti i comuni di informare propri strumenti urbanistici a certi limiti inderogabili circa l’intensità della edificazione e circa i rapporti tra zone a destinazione residenziale e zone di interesse collettivo (art. 17 cp.), nonché di munirsi di uno strumento urbanistico generale (art. 11) e di un piano regolatore (art. 1). Impose inoltre gravi limitazioni all’attività costruttiva nelle zone non dotate di uno strumento di attuazione o di uno strumento generale, escludendo per esse ogni possibilità di lottizzazione e perciò di nuovi insediamenti edilizi.
(12) È singolare notare a questo proposito la contraddizione palmare tra la rigidità delle normative in materia edilizia e la spettacolare proliferazione di abusivismo edilizio da un lato e il rovinoso deterioramento del tessuto urbanistico italiano dall’altro, verificatasi in vigenza di tale normativa e di cui sono piene le cronache quotidiane. Si tratta di una vera eterogenesi dei fini, tipica di ogni situazione di eccesso di legge e di forzato statalismo, che, anziché disciplinare la realtà socioeconomica, la violenta e la altera innaturalmente, determinando una situazione in cui una fittizia e apparente legalità convive con il clientelismo e la corruzione più sfacciati.
(13) In specie gli articoli 7 e 40.
(14) L. 1187/1968, 1. 756/1975, 1. 6/1977.
(15) Così FELICE DELFINO, La concessione a edificare nella nuova legge sui suoli, in Rivista giuridica dell’edilizia, 1976, II, p. 198.
(16) ALDO M. SANDULLI, Nuovo regime dei suoli e Costituzione, in Rivista di diritto civile, 1978, n. 3, p. 277.
(17) ALDO M. SANDULLI, art. cit., ibidem.
(18) Cfr. art. 13, 1. 28 gennaio 1977, n. 10.
(19) I rilievi esposti sono tratti dall’ordinanza di rinvio 3 maggio 1974 della Corte d’Appello di Torino, in Giurisprudenza Costituzionale, 1974, II, pp. 3071-3073.
(20) È insegnamento costante della dottrina sociale della Chiesa che, perché lo Stato possa rivendicare per la comunità certi beni e quindi espropriarli, occorre anzitutto una ragione sufficiente nell’interesse comune: quindi che non vi siano altre soluzioni accettabili e infine è necessaria la corresponsione di una giusta indennità: cfr. M. VILLAIN, op. cit., pp. 150-151.
(21) Cfr. art. 1, 1. 28 gennaio 1977, n. 10: «ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e l’esecuzione delle opere è subordinata a concessione da parte dei sindaco, ai sensi della presente legge», e art. 9: «gli interventi di manutenzione straordinaria, di restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione, di ampliamento, in misura superiore al 20%. Per le modifiche interne necessarie per migliorare le condizioni igieniche o statiche delle abitazioni […]».
(22) Art. 3, 1. 28 gennaio 1977, n. 10: «La concessione comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza delle spese di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione».
(23) Il contributo ha natura tributaria e non di corrispettivo.
(24) Art. 9: «Il contributo […] non è dovuto per le opere da realizzare nelle zone agricole, nonché per opere già elencate alla nota 16».
(25) Una stima prudente fa ammontare la consistenza delle unità immobiliari adibite ad abitazione, in Italia, a circa 16 milioni; una metà degli alloggi sono di proprietà di chi li occupa, l’altra metà sono di proprietà di enti preposti alla edilizia residenziale pubblica (in minima parte) o di privati.
(26) Non è possibile né rilevante affrontare in questa sede l’ampio problema dei profili di incostituzionalità della nuova legge. Cfr. in merito ALDO M. SANDULLI, Nuovo regime dei suoli e Costituzione, cit., p. 290 ss.
(27) FELICE DELFINO, art. cit., ibid., sottolinea gli stretti margini di discrezionalità nel rilascio della concessione: CESARE RIBOLDI, Problemi pratici di applicazione della nuova legge sul regime dei suoli, in Il Foro Padano. Rivista mensile di giurisprudenza italiana e di dottrina, 1977, n. 7-9, II, p. 10, afferma che «la riforma sì è fermata a metà, limitandosi a mutare il nome dell’istituto»: ALBERTO PREDIERI, La legge 28 gennaio 1977. n. 10 sull’edificabilità dei suoli, Giuffrè, Milano 1977, parla di concessione costitutiva «nel senso che essa aggiunge al contenuto della proprietà quella facoltà di costruire che la legge aveva scorporato»: nota acutamente ALDO M. SANDULLI, in Nuovo regime dei suoli e Costituzione, cit., p. 287, che, quantunque il rilascio del permesso di costruire abbia carattere meramente attuativo e si basi sulla semplice verifica di conformità ai presupposti giuridici cui possono accompagnarsi solo tenui valutazioni di merito, l’autentico «momento concessorio» sta però, sul piano sostanziale, a monte del provvedimento di cui all’art. 1 della legge e precisamente nelle diverse fattispecie in cui l’attributo dello ius aedificandi viene conferito alle singole proprietà conformandole nel senso della edificabilità.
(28) PIO XII, Allocuzione al Congresso di diritto privato, del 20-5-1948, in La pace interna delle nazioni, insegnamenti pontifici a cura dei monaci di Solesmes, trad. it., Edizioni Paoline, Roma 1959, pp. 559-560.