Camille Tawil, Cristianità n. 43 (1978)
Intervista con il comandante Bashir Gemayel
LE RAGIONI POLITICHE DEI CRISTIANI LIBANESI
Le ragioni della comunità cristiana libanese espresse da uno dei suoi massimi esponenti politici, che, nella freddezza e nell’apparente distacco delle sue parole, manifesta la nobiltà del popolo libanese, da secoli abituato a sopportare eroicamente e senza inutili lamenti i ripetuti tentativi di genocidio perpetrati nei suoi confronti. I motivi che spiegano lo sforzo internazionale per sterminare questo popolo scomodo, incrollabile testimone della verità cattolica nel corpo del mondo islamico.
Il lettore occidentale in genere, e quello italiano in particolare, da circa quattro anni viene quasi quotidianamente informato sulle vicende che si svolgono in Libano e sul dramma della locale comunità cattolica, della cui fecondità ha avuto conferma attraverso la canonizzazione, il 9 ottobre dello scorso anno, di san Sciarbel Makhluf, monaco dell’Ordine Libanese Maronita.
Ma, considerati i tempi, la informazione è abbondantemente partigiana, e non certo a favore dei cattolici, presentati con ogni tratto che possa renderli poco gradevoli.
Le ultime fasi del conflitto hanno, però, quasi costretto i mass media a rivelare, per così dire, i veri termini del problema, anche se la sostanza degli avvenimenti non emerge ugualmente con la dovuta chiarezza.
Allo scopo di meglio illuminare la causa della eroica comunità cattolica libanese, abbiamo pensato di intervistare il comandante Bashir Gemayel.
Nato a Bikfaya, nel Metn, il 10 novembre 1947, ha compiuto i propri studi presso l’università Saint Joseph, tenuta a Beirut dai padri gesuiti, e si è laureato in giurisprudenza e in scienze politiche. Alla pratica dell’avvocatura ha affiancato studi di politica internazionale negli Stati Uniti.
Sceikh Bashir, che parla correttamente arabo, francese e inglese, è attualmente comandante del consiglio militare del Kataeb e delle Forze Libanesi Unificate.
Le risposte, raccolte nello scorso mese di ottobre nella sede del consiglio militare, rivelano un uomo politico pressoché ignoto in Occidente, dove corrono quasi esclusivamente i nomi di Pierre Gemayel e di Camille Chamoun; un uomo destinato, anche per f a sua giovane età, a pesare sul futuro del Libano, e quindi a intervenire autorevolmente a proposito di quella Questione d’oriente da lui stesso evocata.
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D. Il Libano è praticamente in guerra da ormai quattro anni. Chi sono i belligeranti, e quali sono gli obiettivi di questa guerra?
R. Effettivamente il Libano è entrato nel suo quarto anno di guerra. Quando si pensa che la guerra del ‘14-18, in quattro anni, ha scosso dalle fondamenta la principale potenza d’Europa, si ha la misura della forza di resistenza degli abitanti di questo paese di diecimila chilometri quadrati, nonché dell’ampiezza del disastro e dei sacrifici sostenuti. Abbiamo lottato per quasi duemila anni in condizioni più o meno simili, per conservare la nostra indipendenza e la nostra libertà. Siamo veramente figli della tempesta. Una volta ancora, la guerra fatta contro di noi ha come unico fine quello di sottometterci alla egemonia araba, oppure di buttarci fuori dal nostro paese. È una guerra come si dice siano state quelle dei tempi barbarici, con tutta la ferocia e l’orrore a esse proprie.
Ci si illude se si pensa che l’età dei genocidi sia passata, che appartenga solo ai capitoli tenebrosi della storia, perché il secolo XX ha conosciuto quelli più abominevoli e «tecnicamente» meglio organizzati, proprio nella sua prima metà, come per esempio, per restare nella nostra area geografica, il genocidio degli armeni. Più tardi ve ne sono stati molti altri, perpetrati nella indifferenza complice dell’ONU, in India, in Biafra, nel Sudan, in Cambogia. Lo sterminio dura da più di tre anni. Che cosa hanno fatto le grandi potenze, membri permanenti del consiglio di sicurezza dell’ONU, per fermarlo? … Decine di migliaia di profughi e di senza tetto non hanno ancora commosso a sufficienza la comunità internazionale.
Noi lottiamo contemporaneamente contro i palestinesi, i siriani e la sinistra internazionale. Il Libano aveva accolto con liberalità i rifugiati palestinesi al momento del loro esodo nel 1948. Meno di vent’anni dopo, eccoli accanirsi a distruggere il paese che li ha ospitati, per dominarlo. L’aggressione palestinese era stata programmata, organizzata, alimentata dalla Siria. Staccate i palestinesi dalla Siria e tutto il terrorismo crolla. Il presidente Hafez el Assad lo ha riconosciuto pubblicamente in un famoso discorso del 20 giugno 1976, quando ha bruscamente deciso di cambiare spalla al suo fucile e di venire in aiuto dei cristiani. Allora le truppe siriane si sono sparse sul territorio libanese, inviate dalla Lega degli Stati arabi, nella veste di forza di pace venuta a ristabilire l’ordine e la sicurezza nel paese. Esse si sono molto rapidamente trasformate in forza di occupazione e oggi si sforzano di realizzare il vecchio sogno dei dirigenti di Damasco: annettere, in una forma o in un’altra, il Libano alla Siria. Dopo avere incoraggiato e organizzato massacri tra cristiani, come è accaduto nel Libano del Nord, nella speranza di ridurre l’ostacolo logorandolo dall’interno, hanno finito per togliersi la maschera e per impegnarsi in un confronto diretto con i cristiani del Libano. La sinistra internazionale ha tutto l’interesse ad annientare questo paese che ha rappresentato per tanto tempo il modello realizzato di una economia libera. La comunità cristiana ne costituisce il nocciolo e il legame vivente con il mondo occidentale. Essa costituisce quindi la vittima naturalmente designata alla vendetta di Mosca.
Non vi è dubbio sul fatto che il naufragio del Libano porti con sé quello degli altri paesi arabi, che non sono ancora stati presi nell’orbita sovietica, come la Giordania, il Koweit e la stessa Arabia Saudita Purtroppo, gli strateghi dalla vista corta, che hanno nelle loro mani il destino del mondo libero, sono ben lontani dall’essersene accorti.
D. Il Libano, per molto tempo, ha tentato di organizzarsi in uno Stato multiconfessionale. Questa esperienza è ancora possibile?
R. La popolazione è ripartita in diciassette comunità religiose diverse, ciascuna con il potere di legiferare e di applicare le sue leggi attraverso propri tribunali. Ma la divisione è tra le comunità islamiche da una parte e le comunità cristiane dall’altra, a causa delle differenze che le separano sul piano delle credenze, della cultura e dei costumi. Malgrado tutto, non si aveva esitato a organizzare i pubblici poteri nella forma di uno Stato unitario, centralizzatore e fortemente gerarchizzato, sul modello della Repubblica francese una e indivisibile.
Un patto d’onore, elaborato al momento della indipendenza, nel 1943, dava ai maroniti – la comunità cristiana più importante – certe cariche fondamentali, tra cui la presidenza della Repubblica. Come contropartita, i cristiani rinunciavano alla protezione secolare dell’occidente e il Libano aderiva alla Lega Araba.
Il sistema si è rivelato, in pratica, estremamente fragile. Per riassorbire le distorsioni della coesistenza, si viveva di espedienti, moltiplicando i compromessi, gli accomodamenti, le mezze misure, e questo, sulla distanza, ha portato alla disintegrazione dello Stato. Forse, con il tempo, sarebbe stato possibile ridurre gli antagonismi, ma bisognava non dover fare i conti con la forte pressione dell’irredentismo delle comunità islamiche. Lo Stato fu fatto vacillare fino dalle prime scosse, quando, nel 1958, Nasser tentò di integrare il Libano nella RAU. Si sarebbe completamente sbriciolato nel corso della guerra libano-palestinese, dal momento che l’Islam libanese aveva, nel suo complesso, fatta propria la causa dei palestinesi. Un sistema meglio congegnato, basato su di un autentico federalismo delle comunità, sarebbe stato più solido? Continuiamo a crederlo. Bisogna tenere conto della mentalità e delle ideologie specifiche della zona. L’Islam è in grado di rinunciare alla fusione del temporale e dello spirituale, e di accettare la uguaglianza politica dei cittadini di uno stesso paese? È facile ricostituire sulle rive del Mediterraneo orientale la confederazione elvetica? Queste sono le difficoltà contro le quali urta la ricostituzione di uno Stato islamico-cristiano. Le stesse che sono parse insormontabili in Algeria, che hanno portato alla divisione dell’isola di Cipro, e che attualmente pongono difficili problemi nelle Filippine.
D. Come definisce il destino dei maroniti?
R. Il destino di un popolo si legge nel lento movimento della sua storia. Per cogliere bene quello dei maroniti, mi permetto di fare una breve retrospettiva della storia del Libano. Vi sono in proposito due correnti di opinione. La prima fa risalire le origini della nazione libanese a quel lungo periodo dell’antichità che ha visto svilupparsi sul litorale di questi paesi dell’Asia Minore le brillanti città fenice. Questa dottrina è fiorita presso gli umanisti, nel periodo tra le due guerre, permettendo in questo modo di spiegare il tracciato delle nuove frontiere del paese, che non erano più quelle del vecchio Governatorato del Libano dalla superficie più ridotta. Essa fornisce la sua legittimità storico-culturale allo Stato libanese multiconfessionale. A questo modo, i fenici di Tiro e di Sidone (città oggi a maggioranza musulmana) diventavano gli antenati comuni delle due grandi comunità. Ma i fenici di Ugarit, che fu per altro una delle città più fiorenti della Fenicia, restavano nella eredità siriana: sincretismo semplicistico, come quello che faceva dei galli gli antenati di tutti i popoli delle colonie francesi, dalla Indocina alla Guadalupa.
In realtà, questa concezione della storia del Libano trascura totalmente un fatto considerevole, che ha sconvolto tutti i dati socio-culturali del Medio Oriente dell’antichità e dei primi secoli cristiani, e cioè la conquista araba. Ora, è innegabile che la esplosione dell’Islam abbia trasformato radicalmente il tessuto socio-politico della Zona. Da questo punto di vista il fenomeno maronita si inserisce come un costante rifiuto di integrazione (attraverso la conversione all’Islam) e di sottomissione allo Stato musulmano. È la storia di una lunga resistenza segnata da spaventose persecuzioni.
Una nazione è il prodotto di un lungo passato di sforzi e di sacrifici. Nel nostro caso, questi sforzi e questi sacrifici hanno portato alla secrezione della coscienza di un «noi» e di costumi e di tradizioni specifiche, di tutta una organizzazione della vita sociale con i suoi quadri, la sua gerarchia, i suoi ordini religiosi dotati di una grande vitalità, che hanno disseminato sulla montagna chiese e conventi, i suoi poeti, i suoi artigiani, e oggi, i suoi medici, i suoi ingegneri, i suoi avvocati sparsi anche in tutta la penisola araba.
È vero che la nazione maronita non si è mai affermata attraverso una espressione giuridica con gli attributi dello Stato-nazione così come lo si concepisce oggi. Ma accade raramente (si cita generalmente l’esempio francese) che Stato e nazione coincidano. Vi era certo una nazione irlandese in Gran Bretagna. Di fatto, noi siamo sempre stati associati a un potere che emanava da un pluralismo comunitario. Fu così nel Libano degli emiri. Allora il principato era formato da popolazioni maronite e druse viventi in perfetta armonia. L’esperienza dello Stato libanese di oggi ne è un altro esempio.
Noi non miriamo a conservare domani – come ci si accusa – uno Stato-nazione maronita. Cerchiamo una nuova forma di organizzazione statale, che sia in grado di garantire la nostra esistenza nazionale e la nostra libertà contro ogni tentativo di egemonia mirante a integrarci in un mondo arabo votato per essenza al totalitarismo. Non vogliamo perdere i valori di civiltà che i nostri antenati hanno conservato a prezzo di tanti sacrifici, che ci hanno lasciati in eredità, che difendiamo con accanimento, per la cui sopravvivenza migliaia dei nostri giovani sono morti da più di tre anni a questa parte. Il mondo occidentale (o quanto ne rimarrà) ci sarà un giorno grato di avergli mantenuti intatti, in mancanza di petrolio, questi stessi valori che ha in comune con noi e che fanno la grandezza dell’uomo.
D. Come vede i rapporti tra i cristiani del Libano e i paesi arabi?
R. I paesi arabi non devono misconoscere la specificità del Libano, che non è un paese arabo come gli altri. A differenza degli altri Stati della Lega, il Libano non appartiene a quella che si denomina la nazione araba, che è la incarnazione della Umma islamica, la «comunità dei credenti». I paesi arabi dovrebbero smettere di alimentare il sentimento di duplice appartenenza dei musulmani libanesi alla nazione araba, e il cittadino arabo – penso soprattutto al palestinese – dovrebbe smettere di considerare il Libano un territorio conquistato. Solo a questa duplice condizione lo Stato libanese potrà esercitare la sua sovranità su tutto il suo territorio, senza entrare necessariamente in conflitto con questo o quello dei suoi vicini. Insomma, tenuto conto della nostra specificità, gli Stati arabi dovrebbero imparare a rispettare la indipendenza del Libano. Tutto questo non rischia assolutamente di servire male i loro interessi bene intesi, al contrario… È abbastanza noto che la lingua araba è stata riportata alla luce nei conventi della montagna libanese, dove entrò in funzione la prima stamperia in caratteri arabi. Nello stesso luogo sono stati formati i quadri che hanno scoperto i tesori culturali del mondo islamico, e da lì è partita la scintilla della rivolta araba contro l’Impero Ottomano. Nell’interesse del mondo arabo, il Libano dovrà rimanere quella finestra aperta sull’Occidente che è sempre stato. Non è interesse di nessuno che sia chiusa.
D. Come immagina i rapporti tra il Libano e Israele?
R. I dirigenti libanesi cristiani hanno giocato onestamente il gioco della coesistenza, consacrato dal patto del 1943, e, così facendo, hanno sempre preso partito per la causa degli arabi contro Israele. È vero che il Libano ha evitato di impegnarsi nei confronti militari con lo Stato ebraico, ma non è mai venuto meno a un impegno arabo sul piano politico, diplomatico ed economico.
Oggi, tuttavia, non rimane più gran cosa del patto del 1943, e neppure della solidarietà araba di fronte a Israele. Inoltre, i dati prevalenti prima della guerra libano-palestinese sono completamente cambiati. Il Libano esangue aspira a una cosa sola: avere la pace.
D. Crede che la crisi libanese sia legata alla soluzione del conflitto medio-orientale?
R. Non vi è ombra di dubbio. Basta osservare il sincronismo dei combattimenti con l’andare e venire dei negoziatori americani e degli incontri israelo-egiziani. I primi scontri, nell’aprile del ‘75, hanno fatto seguito immediatamente al disimpegno sul Sinai. Oggi si sa con certezza che la guerra tra i cristiani del Libano e i palestinesi mirava a facilitare la integrazione di questi ultimi, assicurando preventivamente lo stabilirsi in Libano di un potere musulmano. Gli americani ne furono gli operatori. La politica delle grandi potenze è spesso consistita nel risolvere i problemi spinosi alla meno peggio. Oggi, da quando il coraggio ha abbandonato le grandi democrazie occidentali, come ha detto Solgenitsin, a farne le spese sono le piccole nazioni. Da questo i numerosi focolai di incendi male spenti in tutto il mondo. Per risolvere un problema, se ne crea un altro. Rimandando ininterrottamente le sedute, si finge di avere raggiunti risultati per il tempo necessario per ottenere un successo in politica interna sulla parte avversaria, in questo permanente confronto elettorale che mina le democrazie. Ma, ci si ricordi di Monaco …
D. Che ne è degli attuali scontri con la Siria?
R. Il piano di cui vi ho parlato sembra sia stato riveduto e corretto. La Siria ha attualmente l’incarico di portarlo a termine. Si pensa che una pax syriana riassorbirebbe tutti gli antagonismi che si affrontano sulla scena libanese. La Siria otterrebbe nello stesso tempo compensi territoriali, e così potrebbe presentarsi a testa alta (forte dei massacri dei cristiani) al tavolo nei negoziati.
Ma, in politica, come dice Jules Monnerot, tra l’idea e la sua esecuzione ve ne corre. Si dimentica che la Siria, malgrado tutte le apparenze, è uno Stato fragile, sottoposto a costanti pressioni centrifughe, e che il potere esercitato dagli alauiti, che sono in minoranza, tiene solamente grazie a una notevole organizzazione poliziesca. D’altra parte le truppe impegnate nei combattimenti sono quasi tutte comandate da ufficiali alauiti. Spesso gli ufficiali sunniti li criticano apertamente, perché la loro brutalità «rischia di sporcare l’immagine della Siria nel mondo».
Del resto, è difficile immaginare che il potere attuale, il cui sostegno popolare è estremamente ridotto, possa avventurarsi un giorno in negoziati con Israele. Per questa ragione il governo siriano si è prudentemente schierato fra i paesi del «fronte della fermezza», e si sforza di rifarsi una buona coscienza araba con questa guerra che ha intrapreso contro i cristiani libanesi.
D. Qual è, a suo modo di vedere, la soluzione del problema palestinese?
R. Si dice correntemente che la pace nella zona passa attraverso la soluzione del problema palestinese. Ma si tratta di un falso problema: gli abitanti arabi dei territori un tempo designati con il nome di Palestina avevano per la maggior parte venduto o abbandonato le loro terre agli israeliani. Per queste popolazioni, di cui una parte era ancora nomade al momento dell’esodo, e l’altra appena uscita dal nomadismo, la nozione di patria, di «terra dei padri», non aveva un grande significato. In ogni caso, è assolutamente certo che non si erano mai radicati in un suolo considerato come l’eredità di un insieme di valori sostenuti dai loro antenati. D’altra parte, proprio per questa ragione nessuno parla e nessuno ha mai parlato di una nazione palestinese. Si parla molto semplicemente di popolo palestinese. Un altro fatto significativo in proposito è che queste stesse popolazioni, delle quali una grande parte ha trovato rifugio nel nostro paese, hanno tentato e tentano ancora di stabilirsi in modo definitivo sul nostro suolo. Non avendo né tradizioni né morale, si sono accaniti nel trasformare questo paese, che li aveva generosamente accolti, in terra bruciata.
Ma, contrariamente a quanto pensano certi strateghi dalla vista corta, la integrazione nel Libano dei profughi palestinesi non basta a risolvere il conflitto medio-orientale. Le sue radici sono molto più profonde di quanto sembri. Esse giungono alla famosa Questione d’oriente, problema millenario relativo alla ripartizione della eredità di Abramo tra i seguaci delle tre grandi religioni monoteistiche. Non lo si è percepito nel famoso discorso del presidente Sadat alla Knesset. Ma è dubbio che il mondo ateizzato e positivista d’occidente sia in grado di coglierne la vera portata.
D. Si tratta di un conflitto «tra profeti». La pace definitiva in Medio Oriente non è quindi immaginabile domani?…
R. Le grandi potenze cercano veramente di stabilirla? … Di fatto, gli arabi non reclamano tanto che i palestinesi recuperino la loro terra. Le nuove generazioni, nate in esilio, non sanno cosa farsene. Si tratta soprattutto ed essenzialmente di cacciare l’israeliano per rendere questa terra all’arabismo. È stato detto abbondantemente, e non si smette di ripeterlo: «la causa palestinese si confonde con la causa araba». Questo non significa altro che i palestinesi servono come punta di lancia alla nazione araba, la Umma del profeta, che ha la missione di portare la «vera» religione fino ai confini del mondo, e nell’attesa, di conservare almeno le acquisizioni territoriali dell’Islam. Ora, la terra palestinese è una delle sue gemme. Per questa ragione Israele è e sarà sempre considerato come un elemento estraneo, che bisogna strappare dal corpo dell’Islam a ogni costo. È accaduto lo stesso, in altri tempi, per il regno di Gerusalemme. Non si può ammettere che degli «infedeli» esercitino la sia pure minima porzione di potere su dei «credenti». Tutto questo è naturale, dal momento che questo potere è un dono di Allah, regolamentato dal Corano e dalla Sunna. Forse è possibile che gli arabi accettino di venire a qualche accomodamento con Israele. Ma non potrà che essere provvisorio. «Non chiedete la pace quando avete la superiorità», si dice tra gli arabi. Questo accomodamento durerà il tempo necessario perché la congiuntura politica e militare sia modificata a favore degli arabi. La parola pace non ha lo stesso significato da una parte e dall’altra del Mediterraneo. Le cose stanno proprio così.
Da noi, come in Africa, siccome le frontiere coloniali non sono state riviste, le guerre locali si moltiplicano, mentre le grandi potenze, che talora attizzano il fuoco, e talora si sforzano di spegnerlo, non hanno il coraggio di venire alle soluzioni radicali. Qualcuno non ha forse detto che la terza guerra mondiale è già cominciata? …
D. La si definisce un nazionalista libanese. Pensa che l’avvenire sia ancora propizio alla affermazione delle identità nazionali?
R. Il nazionalismo è il principio che ha corroso il concetto di nazione. Si sa quanto il principio di nazionalità sia stato nefasto per il mondo. Anche noi siamo vittime del nazionalismo arabo.
Sì, siamo consapevoli di essere i depositari di una eredità. Il suo valore è soprattutto di ordine culturale. Pio XII diceva che la vita nazionale è qualcosa di non politico. Che cosa vi è di più legittimo della difesa della propria libertà culturale? Lo facciamo senza essere animati da uno spirito di dominio, e neppure sciovinista, e restando aperti al mondo che ci circonda, anche se ci è, come in questo momento, ostile. Dopo tre anni di guerra sentiamo di meritare ancora a maggior ragione questo patrimonio che abbiamo rischiato di perdere. È anacronistico morire perché si vuole rimanere liberi? Gli insegnamenti dell’occidente li abbiamo sempre accolti con molta attenzione e con molto profitto. Nella grave crisi morale che esso oggi attraversa, ci sia permesso di ricordargli, con l’esempio di questi giovani che muoiono volgendo le spalle al mare, il senso del coraggio e della dignità.
a cura di CAMILLE TAWIL