Smascheriamo la polemica antileninista dell’on. Craxi
IL SOCIALISMO È SEMPRE TOTALITARIO
Il dibattito politico italiano ha conosciuto, negli ultimi mesi – dopo la uccisione dell’on. Moro e la tornata elettorale immediatamente seguente -, un episodio di un certo interesse culturale e di qualche levatura, o tale in apparenza, che, originato almeno indirettamente da una dichiarazione dell’on. Berlinguer, ha preso l’avvio con la pubblicazione su L’Espresso di un lungo scritto del segretario del Partito Socialista Italiano, on. Bettino Craxi, dal titolo – che per il buon gusto dell’autore ci auguriamo redazionale – Il Vangelo socialista (1).
All’exploit del segretario socialista hanno fatto seguito svariati interventi dei più prestigiosi esponenti della sinistra, … e all’appuntamento non è voluto mancare, con la consueta lettera, mons. Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea (2).
I termini del dibattito ideologico sono estremamente semplici e perspicui. Anzi, si potrebbe perfino dire che sono stranamente semplici e perspicui – e non è piccola ragione di attenzione, – dal momento che la polemica si svolge in un’area, quella della sinistra, che in genere non brilla per chiarezza di motivazioni dottrinali, ma nella quale si è facilmente portati a notare il contrasto vistoso tra la semplicistica brutalità rivendicativa e la complessa e fumosa copertura ideologica.
Ecco, dunque, di che cosa si tratta: socialismo e comunismo coincidono o divergono? E, se divergono, la divergenza è relativa al fine da perseguire, oppure ai mezzi per raggiungerlo? La risposta dell’on. Craxi è tranchant: socialismo e comunismo divergono quanto al fine, dal momento che la meta del socialismo consiste nella socializzazione delle conquiste e dei valori del liberalismo, mentre la meta del comunismo è una palingenesi, la creazione di un uomo nuovo. Inoltre, e di conseguenza, socialismo e comunismo divergono anche quanto al metodo, e tale divergenza si incarna nella contrapposizione tra pluralismo e leninismo, tra «via democratica al socialismo» e via totalitaria (attraverso la «dittatura del proletariato»), tra «partito della classe» e «partito per la classe», ecc.
Attorno a questi temi si è venuto, quindi, svolgendo il dibattito cui prima facevamo riferimento e che non pare destinato a esaurirsi troppo rapidamente.
In tale dibattito non abbiamo certo intenzione di intervenire, anche perché trattandosi di un «dibattito interno alla sinistra», come è stato più volte ribadito, verremmo subito non solo penalizzati perché «fuori gioco», ma forse anche espulsi per «invasione di campo»! Fuori dallo scherzo, però, confessiamo che non ci spiacerebbe intervenire, dal momento che la problematica sollevata è colma di interesse e di conseguenze per tutti gli uomini, e per gli italiani in particolare; ma, siccome siamo destinati al ruolo di «spettatori», rimaniamo nella metafora del gioco e, dal nostro posto «in tribuna», tentiamo almeno un commento.
Dunque, se le cose stessero come sembrano a prima vista, si potrebbe ipotizzare facilmente per il socialismo italiano – e quindi, considerato il peso internazionale del partito guidato dall’on. Craxi, per quello europeo e per quello mondiale – un cambiamento di rotta di portata infinitamente superiore a quello segnato dalla carta di Bad Godesberg del 1959, quando la socialdemocrazia tedesca dichiarò formalmente il proprio distacco da Marx.
Infatti, quanto alla diagnosi del comunismo e del socialismo marxista, i termini proposti e le conclusioni raggiunte da alcuni socialisti italiani, sotto la guida dell’on. Craxi, sono spesso francamente felici e puntuali, anche se tutt’altro che nuovi per chi abbia qualche dimestichezza con una seria letteratura anticomunista.
Non mancano, inoltre, sparse un poco ovunque, ma particolarmente dense negli scritti di Luciano Pellicani, considerazioni anche economiche sufficientemente realistiche, e talora perfino acute.
Ma vi sono elementi che contrastano stranamente con la razionalità ideologica apparentemente conquistata da alcuni esponenti del movimento socialista italiano; e questi elementi sono tali da suscitare non solamente attenzione, ma anche sospetto.
La prima ragione di profonda perplessità è dottrinale. Infatti, il rifiuto del socialismo marxista in tesi, e «reale», cioè sovietico, in concreto, non solo non è rifiuto del socialismo simpliciter – il che era certo difficilmente immaginabile -, ma si trasforma nel lancio organizzato e clamoroso della sua versione utopistica, soprattutto «autogestionaria», mentre all’orizzonte si staglia un altamente improbabile – per dire il meno – «socialismo di mercato». E chi pure deve confessare, per ragioni non ancora precisate e comunque confuse, il legame strutturale tra proprietà privata (che non vuole dire solo individuale, ma che vuole dire certamente non solo di Stato) e libertà, non arriva poi a riconoscere anche la subordinazione della economia alla politica e alla morale; quindi ad ammettere la vanificazione completa delle stesse esigenze socialiste non marxiste nella giustizia da un lato e nel costume dall’altro, diversamente attivi, ma congiuranti a operare la correzione e il contenimento dell’egoismo economico, tragicamente presente in ogni produttore e in ogni imprenditore, sia piccolo che grande, e non in ragione dell’attività o della dimensione, ma in ragione del peccato. Così, l’itinerario incompleto finisce per descrivere semplicemente il tragitto del socialismo in un senso contrario a quello indicato dal titolo di un noto scritto di Engels: non più «il socialismo dall’utopia alla scienza», ma piuttosto «dalla scienza alla utopia»!
Il secondo elemento di sospetto è congiunturale. L’ipotetica revisione dottrinale socialista, infatti, avviene proprio mentre il comunismo internazionale ottiene enormi successi politico-militari, sia in Asia che in Africa, ma, essendo costretto a scoprirsi nell’azione, vive un momento molto difficile dal punto di vista propagandistico. Tale difficoltà non è certamente frutto della aggressività degli anticomunisti – o di chi, almeno, svolge ufficialmente il ruolo di «nemico» del comunismo -, ma ha una sua realtà e consistenza oggettive. Così, spesso, in previsione della inevitabile scoperta di sgradevoli realtà socialiste, come, per esempio, nel caso della Cambogia o del Vietnam, tale rivelazione viene fatta anticipare da «compagni di strada» e quindi, nella misura del possibile, pilotata.
Ma, se il comunismo internazionale in genere soffre le difficoltà che abbiamo indicato, quello italiano in specie patisce rovesci per più ordini di ragioni, talora ampiamente contrastanti. Infatti, per alcuni, dal ‘68 a oggi esso si sarebbe spostato troppo verso il centro, scoprendosi eccessivamente a sinistra; per altri, entrato nella maggioranza, avrebbe perso anche il fascino della sua apparente tensione morale e coonesterebbe colpevolmente, in qualche modo, il potere democristiano; per altri ancora, al contrario, giocherebbe la carta eurocomunista con una insufficiente spregiudicatezza e con una dipendenza da Mosca e dai capi del Cremlino troppo evidente e troppo sostanziale. In queste condizioni, il Partito Comunista Italiano necessita perciò, con ogni urgenza, di ridefinire il proprio ruolo e di ricomporre una propria immagine meno sfaccettata, meno poliedrica, sia in previsione del XV congresso nazionale del marzo 1979 che nella ipotesi di una anticipata tornata elettorale. E il ruolo scelto, così come pare si possa ricavare dalle tesi per tale futuro congresso, sembra proprio caratterizzato da un certo irrigidimento, senza per altro abbandonare le posizioni di potere acquisite.
Stando così le cose, mentre il socialismo reale e i suoi adepti in tutto il mondo devono mostrare la corda – «chi va al mulino si infarina», dice un proverbio, ma un altro aggiunge subito che «chi non risica, non rosica» -, che cosa vi può essere di migliore e di più utile di una formula che mantenga intelligentemente nell’area socialista chi pure ne fuggirebbe, ipotizzando, nella forma più articolata e più credibile, un altro socialismo, questa volta non reale, ma diverso, da «progettare e costruire insieme», «mutualistico» e autogestionario, e, considerati i tempi, senza l’obbligo di spiegare che cosa si nasconda sotto questi termini a una generazione educata – si fa per dire – a volere la «fantasia al potere»? Quale alternativa al socialismo reale apparentemente più efficace di un socialismo irreale, utopistico, in una nazione dei cui abitanti è stato detto che sono tutti un poco socialisti? Quale migliore antidoto contro un possibile, eventuale ritorno alla realtà economica, politica e morale?
Come ci pare di avere mostrato, o almeno suggerito, fino a prova contraria – ma non vorremmo fare l’esperimento, e quindi non lo consigliamo a nessuno -, oltre le parole, talora in libertà e talora occasionalmente bene sonanti, è lecito e quindi doveroso ipotizzare, nel dibattito in corso tra esponenti della sinistra, una delle tante mosse socialcomuniste, dichiarare a cuore leggero che il «progetto socialista» e il suo lancio polemico antileninista sono assolutamente privi di affidabilità.
Ma se qualche povero cattolico, conseguentemente anticomunista e giustamente preoccupato per la probabilmente sleale concorrenza socialista, pensasse di chiedere lumi e consigli a mons. Bettazzi, immaginando di trovare tali lumi e tali consigli nella lettera che abbiamo più sopra ricordato, siamo spiacenti di doverlo profondamente deludere. Infatti, nella missiva all’on. Craxi, il presule di Ivrea non lo prega di guardarsi dalla eventuale intenzione di ingannare dei buoni cittadini presentando loro, in forma tollerabile, il solito intollerabile cibo socialista, ma, al contrario, invita l’esponente socialista a desistere dalla ricerca di un mitico e fantastico «passaggio a Nord-ovest», facendogli presente, insistentemente, che non esiste una «terza via», e che, se non si è assolutamente socialisti, si finisce per diventare sostenitori del capitalismo. Quod Deus avertat…
Dal momento che la tesi del vescovo di Ivrea si commenta da sola, ci permettiamo di ricordare, prima di terminare, che la conclusione – reale o fittizia che sia -, a cui sembra giunto l’on. Craxi nell’agosto di quest’anno e a proposito del solo socialismo marxista, era ben nota a Papa Pio XI che, nel 1931 e a proposito di ogni tipo di socialismo, marxista e no, affermava perentoriamente: «la società […], qual’è immaginata dal socialismo, non può esistere né concepirsi disgiunta da una costrizione veramente eccessiva» (3).
Tale monito è stato evidentemente disatteso da tutti, anche dai cattolici, che non ne hanno tenuto conto nella misura del necessario nel loro giudizio e nella loro azione. Oggi, ampiamente suffragato dai fatti, troverà finalmente udienza? O un qualsiasi «progetto socialista» basta ancora a mantenerlo inefficace?
NOTE
(1) Cfr. BETTINO CRAXI, Pluralismo o leninismo, Sugarco Edizioni, Milano 1978. Il volume raccoglie il testo del segretario socialista e un’ampia scelta. degli interventi, ma non fa riferimento esplicito alla intervista dell’on. Berlinguer a la Repubblica, di cui si parla invece nella presentazione de L’Espresso allo scritto dell’on. Craxi. In tale intervista, infatti, è contenuta la battuta polemica che ha provocato lo scritto dell’on. Craxi, che, come si può notare, svela così una origine remota non priva di interesse.
(2) Cfr. MONS. LUIGI BETTAZZI, Comunità cristiana e la politica, in il regno documenti, anno XXIII, n. 21, 1° dicembre 1978, pp. 515-516.
(3) PIO XI, Enciclica Quadragesimo anno, del 15-5-1931, in Le encicliche sociali dei Papi. Da Pio IX a Pio XII (1864-1956), a cura di Igino Giordani, 4ª ed. corretta e aumentata, Editrice Studium, Roma 1956, p. 475.