La confisca di prevenzione è uno strumento utile, che esiste già. Perciò non ha senso l’estensione prevista dal “codice antimafia”. Si rischia di farne il cattivo uso fatto con i “pentiti”
1. L’efficacia e l’importanza della confisca di prevenzione. Ammetto l’addebito. Nel 2008-2009, avendo avuto un ruolo nel governo dell’epoca, ho coordinato i lavori che hanno esteso l’applicazione delle cosiddette misure di prevenzione patrimoniali, e cioè del sequestro e della confisca dei beni di provenienza illecita. Il punto di partenza era la consapevolezza che le associazioni di tipo mafioso – chi le dirige e chi ne fa parte con ruoli importanti – sono certamente colpite dalle condanne penali, ma ricevono sconfitte storiche se sono loro sottratte le ricchezze accumulate con i traffici illeciti di vario tipo. Sconfitte materiali, poiché la privazione di contanti, di titoli, di immobili e di aziende riduce l’operatività di un clan criminale; sconfitte simboliche, poiché la trasformazione della villa del boss al centro del paese in una stazione dei Carabinieri, superate con successo le fasi della confisca e della destinazione, rappresenta per quel boss e per il suo giro una perdita di credibilità non da poco. L’intento di quelle modifiche normative era di superare alcune anomalie, come poi è accaduto. Le disposizioni precedenti rendevano possibile colpire i beni costituenti il provento dell’attività mafiosa solo se il loro titolare, effettivo o per interposta persona, fosse attualmente pericoloso. Se il boss moriva, i beni illecitamente acquisti transitavano legalmente agli eredi (come fa un defunto a manifestare attuale pericolosità?); se iniziava una collaborazione con la giustizia per ciò stesso non era più fonte di pericolo, quindi i beni restavano a lui… Aver scisso dalla confiscabilità il requisito della attualità della pericolosità ha permesso di far crescere la quantità di ricchezze sottratte alle mafie.
Le riforme del 2008-2009 hanno pure esteso le misure di prevenzione patrimoniali oltre i confini delle attività qualificabili come mafiose: era parso un passaggio logico, sempre che la dimostrazione della pericolosità di una persona sia rigorosa, e si riscontri la ripetizione da parte di quel soggetto di condotte per esempio di concussione o di corruzione, pur poste in essere al di fuori di contesti mafiosi, con la conseguente accumulazione di beni di provenienza criminale, e con una evidente sproporzione fra il tenore di vita e i redditi legalmente percepiti. Attualmente mi occupo di misure di prevenzione patrimoniali dal lato della loro applicazione, lavorando in un ufficio giudiziario cui in grado di appello è demandata, fra le altre, questa competenza. Mi è capitato in più d’un caso di confermare confische di importi significativi, in presenza di reati contro la pubblica amministrazione: a riprova che questo strumento è già da tempo adoperato contro pubblici ufficiali infedeli che abusano della loro funzione per conseguire vantaggi patrimoniali illeciti. Proprio per questo sfugge la ratio della ulteriore estensione prevista dalla riforma del cosiddetto codice antimafia, approvata mercoledì e tanto enfatizzata: corruzione e concussione sono già colpite dalla prevenzione patrimoniale, sempre che le modalità di consumazione di questi reati descriva la pericolosità di chi li commette. Andare oltre quanto previsto rischia di squilibrare il sistema.
2. La patologia del sistema: prescrizione dei reati e confische dei patrimoni. La quotidiana applicazione delle confische di prevenzione – insieme con la comparazione con esperienze di altri uffici giudiziari – fa osservare che la necessità dell’oggi non è una applicazione più larga di questo strumento; è da un lato conferire serietà al governo del settore (l’Albo degli amministratori giudiziari doveva esserci da sei anni ed è stato reso operativo solo sei mesi fa), dall’altro riflettere in modo obiettivo sul sistema penale nel suo insieme, al cui interno questo strumento si inserisce. La dinamica che si è affermata è la seguente: gran parte dei reati commessi in Italia o non sono perseguiti o, se si apre un fascicolo con la loro iscrizione, finiscono in prescrizione. Sarebbe lungo illustrarne le cause; certamente non dipende da termini di prescrizione troppo contenuti. Per cui è facile prevedere che la riforma del processo penale, pur essa di recente varo, avendo incrementato i termini medesimi non limiterà tuttavia l’estinzione dei reati per il decorso del tempo: basta ricordare che una parte significativa di prescrizioni matura già prima della conclusione delle indagini.
Qui però interessa altro: capita che un soggetto che ha commesso degli illeciti penali ma è stato quasi sempre “graziato” dallo scorrere del tempo, sia poi sottoposto a una misura di prevenzione patrimoniale, che – ritenendolo pericoloso per un arco temporale passato, anche lungo – sottrae a lui e ai suoi stretti familiari l’intero loro patrimonio. In tal caso la pericolosità viene configurata rivalutando gli “elementi di fatto” ricavati dai procedimenti definiti con la prescrizione. I due binari – non essere stato colpito per i reati di volta in volta commessi, essere in un secondo momento privato di tutti, o quasi, i suoi beni – vanno considerati congiuntamente. Sono stato estensore qualche anno fa di un decreto di conferma di una confisca di beni – cash, mobili registrati, immobili, aziende – del valore di svariate decine di milioni di euro a carico di una persona che era giunta a un’età avanzata con un certificato penale sproporzionato per difetto rispetto alla sua cospicua attività criminale. Posso parlarne perché la decisione è diventata definitiva, e comunque non ne riporto il nome. Questa persona era specializzata in due tipologie di reati: stoccava prodotti contraffatti provenienti da oltre Europa, e li commercializzava previa apposizione di falsi marchi; in parallelo, realizzava bancarotte fraudolente seriali di considerevole entità. Per decenni questi reati sono finiti in prescrizione: è incredibile, soprattutto per la bancarotta, che ha termini lunghi, ma è andata così. Superata la soglia dei 70 anni gli è stato tolto tutto, o quasi, con la confisca di prevenzione. Il problema non è il caso specifico, ma il cambio di paradigma che – come illustra questo caso, tutt’altro che isolato – si sta realizzando negli uffici giudiziari: al di là di quel che dicono codici e manuali, la quantità crescente di improcedibilità per prescrizione sta facendo in concreto allontanare da un diritto penale del fatto, che sanziona il singolo atto criminale. Nel contempo, la sempre più estesa applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali individua una sanzione rivolta a una persona, per quello che ha mostrato di essere nell’insieme della sua esistenza: ti punisco, togliendoti i beni, non per le specifiche condotte delittuose che hai commesso ma per la descrizione della tua pericolosità derivante da quelle condotte esaminate congiuntamente, pur se risalenti al tempo che fu. Più in sintesi: la griglia della pericolosità mi permette di giudicare la tua vita, più dei singoli comportamenti contrari alla legge che in tale vita si sono manifestati.
3. Per non finire come con i “pentiti”. Autorevoli sentenze e approfondite monografie insegnano che la prevenzione patrimoniale è, appunto, prevenzione, non sanzione, e che le relative misure hanno caratteristiche simili alle misure di sicurezza: loro obiettivo è impedire ulteriori illeciti, non sanzionare illeciti già commessi. Studio con attenzione le monografie e tengo doverosamente conto delle sentenze che hanno fissato questi orientamenti. Mi permetto però di porre la questione non sul piano della qualificazione scientifica e del relativo approfondimento tematico, bensì su quello della tenuta del sistema e della coscienza di ciascun giudicante: e quindi del ruolo del magistrato penale. Costui sta progressivamente – e non si sa quanto avvertitamente – passando dal giudizio su specifici episodi criminali al giudizio sulla persona nel suo insieme. La prima è già in sé una funzione impegnativa e drammatica, che incrocia la valutazione della persona solo dopo avere con rigore ricostruito il fatto; la seconda è qualcosa che per chi crede compete a Dio, per chi non crede crea sgomento. Non è una trasformazione di poco conto: impone una riflessione di politica giudiziaria, prima che relativa alle singole pronunce giurisdizionali. E’ questa trasformazione avrebbe richiesto in Parlamento una riconsiderazione della prevenzione patrimoniale: molto più della quantità di norme cambiate due giorni fa, talune anche in modo confuso, tanto da far immaginare problemi applicativi superiori a quelli che punta a risolvere. Per non trascurare che sulle misure di prevenzione italiane da qualche mese si è rifatta viva la CEDU, con una sentenza della Grande Chambre che, se non seguita dalle modifiche di garanzia che prospetta, sarà la premessa per censure incisive. Perché non impiegare la parte conclusiva dei lavori del Parlamento per una riflessione di sistema, che punti a ritrovare quell’equilibrio che oggi non c’è, annebbiato come è da rivendicazioni all’insegna dell’io sono più antimafia di te? Perfino qualche sostenitore del nuovo codice antimafia ha spinto per l’approvazione immediata dell’intero testo, ma con la riserva di tornare presto su aspetti di esso che non vanno.
Nel proporre queste riflessioni, mi pongo nell’ottica di chi è convinto che la confisca di prevenzione costituisca un’arma efficace di contrasto alle mafie, dunque non auspico che sia cancellata. Mi chiedo però se l’estensione e il peso che essa ha assunto non rischi alla lunga reazioni che possano delegittimarla e travolgerla. E’ accaduto così per i cosiddetti pentiti: per troppi anni si è commesso l’errore di ritenere le dichiarazioni del collaboratore di giustizia non già uno strumento di ricostruzione di gravi fatti criminali, ma lo strumento. La storia è finita quando tanti castelli giudiziari costruiti esclusivamente con le carte delle collaborazioni sono crollati perché non si sorreggevano l’uno con l’altro. Qualcosa di simile, in termini di svalutazione del mezzo, accade per le intercettazioni. La bulimia della prevenzione patrimoniale rischia di condurla a una fine simile.
Alfredo Mantovano
Da Il Foglio del 3/10/2017. Foto da articolo