di Giovanni Milano
A San Pietroburgo ho visitato la mostra allestita all’Ermitage per i 100 anni dalla cosiddetta Rivoluzione di Ottobre. In particolare, un dipinto offre lo spunto per qualche osservazione. È un ritratto “bifronte”, da un lato lo zar Nicola II (Nikolaj Aleksandrovič Romanov, 1868-1918) e dall’altro Lenin (Vladimir Il’ič Ul’janov, 1870-1924), e la sua storia è curiosa. Si tratta di una immagine ufficiale, esposta in un ufficio pubblico che, dopo la rivoluzione e stante la carenza di materiali, è stato “riciclato”. L’artista ha prima ricoperto di vernice bianca lavabile il volto dello zar, salvando così l’opera precedente, e poi vi ha dipinto quello di Lenin sul lato opposto. È una metafora perfetta della Russia post-sovietica, dove pressoché ovunque convivono simboli opposti senza soluzione di continuità.
Quanto alla mostra, ricca di materiale storico e iconografico, essa descrive gli eventi in modo che si potrebbe definire quasi cronachistico senza esprimere giudizi. Tutto sommato, lo zar ne esce bene, a differenza invece del leader socialista Aleksandr F. Kerenskij (1881-1970), il “moderato” che nel 19171 aprì la strada a quella rivoluzione comunista leniniana che subito lo divorò e lo superò. Giustamente viene ricordato che da tempo lo zar non risiedeva più nel Palazzo d’Inverno, il quale era utilizzato esclusivamente per le cerimonie ufficiali; già prima dell’abdicazione, infatti, la famiglia imperiale viveva in una più modesta residenza a Carskoe Selo, 26 chilometri da San Pietroburgo. A spese dello zar, l’Ermitage era stato trasformato all’inizio della Prima guerra mondiale (1914-1918) in ospedale militare, dotato delle più moderne attrezzature mediche allora disponibili, neurochirurgia compresa. Le stesse figlie maggiori dell’imperatore, dopo aver conseguito l’abilitazione, operarono come infermiere in diversi ospedali militari.
All’imperatore la mostra contestato insomma soltanto il carattere indeciso e influenzabile. A tal proposito, la figura del “mistico” Grigorij E. Rasputin, Pokrovskoe (1869–1916) e il suo forte ascendente sulla zarina giocarono un ruolo importante nello screditare la famiglia imperiale. In più, l’esito infausto della guerra russo-giapponese (1904-1905), i moti prerivoluzionari del 1905 culminati nella creazione dei soviet (i consigli rivoluzionari per la conquista e la gestione del potere da parte della “classe operaia”) e le successive timide riforme varate dal governo non furono sufficienti a porre termine a un malcontento diffuso. Furono questi fattori, assieme ai rovesci subiti dall’esercito russo nella Prima guerra mondiale, a creare il terreno favorevole alla rivoluzione del 1917.
Molto interessante, nella mostra, è l’accostamento tra la Rivoluzione bolscevica russa e la Rivoluzione Francese (1789-1799). L’esposizione ne evidenzia le analogie ricordandone: per esempio il significato puramente simbolico di eventi ritenuti cruciali e invece puramente propagandistico quali la Presa della Bastiglia, il 14 luglio 1789, a Parigi e quella del Palazzo d’Inverno, la notte tra il 7 e l’8 novembre 1917, a Mosca. Da tempo, infatti, la Bastiglia non era più una prigione per prigionieri politici, tanto quanto appunto l’Ermitage non era più una residenza imperiale, e l’assalto al Palazzo d’Inverno rappresentato con toni epici nel celebre film Ottobre del regista Sergej M. Ėjzenštejn (1898–1948) non è mai avvenuto: un esempio eclatante di disinformazione pura che però ha plasmato l’immaginario di generazioni intere. In realtà, le persone uscite dal teatro Mariinskj che nella notte fatidica passeggiavano tranquillamente nella piazza antistante l’Ermitage non si resero nemmeno conto di quanto stava accadendo. Dopo il colpo di cannone “a salve” sparato dall’incrociatore Aurora, i bolscevichi s’introdussero nel palazzo da un ingresso secondario per arrestare Kerenskij e gli altri membri del governo provvisorio, e socialista non più oramai zarista. I prigionieri furono poi condotti nella fortezza dei Santi Pietro e Paolo per essere rilasciati quasi subito.
Ma torniamo alla suggestione del ritratto “bifronte” dello zar e di Lenin. Nella mancanza più totale di una valutazione della rivoluzione comunista, la mostra giustappone in una carrellata unica visioni del mondo diametralmente opposte cementate da un solo collante: il patriottismo russo, capace di unire persino gli opposti. Uno specchio fedele della società russa attuale.
La Pietra di Solovki, il monumento alle vittime del Gulag e della repressione rossa, fa bella mostra di sé in un parco a pochi centinaia di metri dal Palazzo Kshesinkaya. Sede del Museo della storia politica della Russia, già Museo statale della Rivoluzione socialista di ottobre, sulla facciata campeggia una lapide che ricorda solennemente come proprio in quel luogo Lenin abbia pronunciato un celebre discorso all’indomani della presa del potere. Vittime e carnefici assieme.
Poco oltre, ormeggiato sulla riva della Neva, staziona il famoso incrociatore rivoluzionario Aurora, quello della salva di cannone arruolata dalla propaganda: ebbene, sulla prua sventola la bandiera di bompresso della Marina zarista a cui era stato confiscato dai bolscevichi per suggellare l’“assalto” al palazzo d’Inverno. A bordo sono esposti manufatti e oggetti che ricordano la vita dei marinai imbarcati, dalla battaglia di Tsushima combattuta tra il 27 e il 28 maggio 1905 nel corso del conflitto russo-giapponese alle operazioni di soccorso delle vittime del terremoto di Messina nel 1909 fino appunto alla cannonata del 1917. Un foglio di congedo ricorda al marinaio uno dei suoi doveri principali di buon rivoluzionario, ovvero combattere contro la religione, ma, a pochi passi, c’è un’icona di San Nicola. Né mancano fotografie di ufficiali e di marinai bolscevichi accanto a un dipinto di una Messa celebrata a bordo.
Chi ha assistito all’imponente parata militare che si svolge il 9 maggio a Mosca e a San Pietroburgo per celebrare l’anniversario della vittoria della Grande Guerra Patriottica (1941-1945), l’offensiva sovietica antitedesca, avrà osservato che il picchetto alla testa della parata porta due bandiere: la prima è quella della Federazione Russa, già bandiera dell’esercito dei “bianchi” zaristi durante la guerra civile (1917-1922), a ruota la segue la “Bandiera della Vittoria” rossa con falce e martello.
Anche la toponomastica è caratterizzata da questo dualismo: se infatti San Pietroburgo ha riavuto il proprio nome, lo stesso non è per la provincia di cui la citta è capoluogo, che ancora si richiama alla vecchia Leningrado: Leningradskaja Oblast’.
Insomma Lenin, molti monumenti al quale continuano a campeggiare in numerose piazze russe, non è stato affatto dimenticato e il giudizio nei suoi confronti è sostanzialmente positivo. Insomma, le efferatezze del comunismo vengono pressoché esclusivamente imputate a Stalin (Iosif Vissarionovič Džugašvili (1878-1953).
Oggi sono probabilmente pochi i russi che si definiscono comunisti, ma la nostalgia per l’Unione Sovietica come superpotenza “imperiale” è viva e vegeta. Molti rimpiangono le “sicurezze” che il sistema sovietico assicurava: lavoro, casa, ordine pubblico, e così via. Del resto il sistema sovietico post-stalinista godeva di un consenso superiore a quanto in Occidente si credeva e la dissidenza era un fenomeno di élite. Certamente le cause dell’implosione dell’Unione Sovietica vanno cercate più nell’insostenibilità del sistema economico ‒ come previsto dall’economista austriaco naturalizzato statunitense Ludwig von Mises (1881-1973) nello studio Socialismo. Analisi economica e sociologica (presentazione di Friedrich A. von Hayek, premessa all’edizione italiana di Dario Antiseri, trad. it., Rusconi, Milano 1990), pubblicato originariamente in tedesco nel 1922 a Jena in Germania ‒ che non nel malcontento popolare.
Nel mondo occidentale, libertà e responsabilità personali sono valori fondanti, e la comunità valorizza l’individualità dei propri membri attraverso una “pedagogia delle relazioni” che parte dalla famiglia. Non è così invece in Oriente, dove la comunità tende ad assorbire la persona e il soddisfacimento dei bisogni primari garantito dallo Stato viene spesso preferito ai rischi legati alla libertà.
Certi entusiasmi tutti occidentali per la nuova Russia del presidente Vladimir Putin appaiono dunque eccessivi. Certamente vi sono numerosi e innegabili segni positivi di rinascita, impensabili due decenni orsono, ma vanno considerati in modo oggettivo, senza sentimentalismi. La Russia è davvero un mondo “altro” rispetto all’Occidente, proprio come diceva lo statista britannico Winston Churchill (1874-1965) in un radiomessaggio del 1939: «un indovinello avvolto in un mistero all’interno di un enigma».