La decisione del Consiglio dei ministri di ieri di riconoscere la cittadinanza italiana al piccolo Alfie è un gesto di coraggio e di civiltà. Ora si tratta di fare in modo che non resti un pur importante passo politico, producendo le auspicate ricadute giuridiche. I dati certi della vicenda sono che:
1. nei confronti di Alfie i genitori non invocano alcun “overtreatment” (o, come si dice impropriamente, accanimento terapeutico), bensì il mantenimento vitale attraverso supporti tecnici. Ciò accade ovunque vi sia un disabile grave, che non può essere ucciso o lasciato morire solo perché disabile e solo perché rappresenta un costo per il sistema sanitario;
2. se il Regno Unito non intende garantire tale mantenimento, Alfie – attraverso i suoi genitori – ha il diritto di recarsi altrove, e in particolare nello Stato di cui è diventato cittadino per fruire del trattamento. Lo tutelano in tal senso gli articoli 2 della Convenzione EDU, 56 del Trattato sul funzionamento dell’UE, 2 13 e 32 della Costituzione;
3. né Alfie né i suoi genitori hanno commesso reati per i quali possa loro essere interdetta con atto del giudice alcuna libertà, e in particolare la libertà di circolazione.
Poiché è immaginabile che il Governo italiano non intenda limitarsi al gesto simbolico, ma punti a conseguire il risultato, le norme sui poteri dell’autorità consolare italiana, contenute nel decreto legislativo n. 71/2011 – che recepisce decisioni comunitarie – offrono delle possibilità al riguardo. Soprattutto permettono, in caso di pervicace diniego da parte dei giudici inglesi, di ricorrere con urgenza alla Corte di Giustizia europea: la cui pronuncia nel caso specifico potrebbe salvare la vita ad Alfie evitando diatribe diplomatiche fra Stati amici. Tutti gli italiani di buon senso vorrebbero estendere l’apprezzamento sincero manifestato sul punto verso il Governo italiano al raggiungimento dell’obiettivo di far vivere un bambino.
E’ quanto sostiene il Centro Studi Rosario Livatino, formato da magistrati, docenti universitari e avvocati.