Roberto De Mattei, Cristianità n. 36 (1978)
1. A un secolo dalla morte del servo di Dio Pio IX
IL PAPA DI PORTA PIA
La lotta della Rivoluzione contro la Chiesa e la civiltà cristiana vede ergersi, nella seconda metà del secolo scorso, la figura gigantesca del pontefice Pio IX. Le tentazioni a cui fu sottoposto e alle quali eroicamente resistette – pubblicando il Sillabo contro gli errori moderni e promulgando la definizione della infallibilità pontificia – gli meritarono il premio di legare il proprio nome alla proclamazione del dogma della immacolata Concezione di Maria santissima.
I
PRESAGI DI ESTREME BATTAGLIE TRA LA CHIESA E LA RIVOLUZIONE
Il 20 maggio 1846, quasi presago della prossima fine e come scosso da funesti presentimenti, Gregorio XVI fece chiamare al Quirinale Jacques Crétineau-Joly, lo storico della Vandea e della Compagnia di Gesù. Il Papa, nemico implacabile delle sètte nei quindici anni del suo difficile pontificato, volle affidare come «testamento» allo storico francese l’incarico di scrivere una Storia delle società segrete e delle loro conseguenze (1). A tale fine gli consegnò una seria di eccezionali documenti, tra i quali le Istruzioni e la corrispondenza sequestrata all’Alta Vendita, la setta i cui reseaux costituivano i più profondi canali della penetrazione rivoluzionaria in Europa negli anni della Restaurazione.
IL GRANDE DISEGNO STRATEGICO DELLA RIVOLUZIONE
«Giungere con piccoli mezzi ben graduati, benché mal definiti, al trionfo dell’idea rivoluzionaria per mezzo del Papa» (2): questo il disegno enunciato con agghiacciante lucidità nelle carte dei congiurati. «Il lavoro al quale noi ci accingiamo – spiegava l’istruzione segreta permanente data ai membri dell’Alta Vendita nel 1817 – non è l’opera d’un giorno, nè di un mese, nè di un anno. Può durare molti anni, forse un secolo: ma nelle nostra file, il soldato muore e la guerra continua. […] Quello che noi dobbiamo cercare ed aspettare, come gli ebrei aspettano il Messia, si è un Papa secondo i nostri bisogni. […] Con questo solo noi andremo più sicuramente all’assalto della Chiesa, che non cogli opuscoletti dei nostri fratelli di Francia e coll’oro stesso dell’Inghilterra. E volete sapere il perché? Perché, con questo solo, per istritolare lo scoglio sopra cui Dio ha fabbricato la sua Chiesa, noi non abbiamo più bisogno dell’aceto di Annibale, nè della polvere da cannone e nemmeno delle nostre braccia. Noi abbiamo il dito mignolo del successore di Pietro ingaggiato nel complotto; e questo dito mignolo val per questa crociata tutti gli Urbani II e tutti i S. Bernardi della Cristianità» (3).
LE SPERANZE DELLA SETTA
Gregorio XVI morì, a ottantun anni di età, il 1º giugno 1846, in seguito a una improvvisa febbre reumatica.
Sarebbe stato il suo successore il «Papa secondo i nostri bisogni» auspicato dalle sétte? Era quanto ci si chiedeva, con preoccupazione, nelle cancellerie europee, con febbrile trepidazione nelle centrali rivoluzionarie, quando il mattino del 17 giugno 1846, dalla loggia del Quirinale, il cardinale protodiacono Tommaso Riario Sforza, al termine di un conclave straordinariamente breve, annunciò l’avvenuta elezione al soglio pontificio, con il nome di Pio IX, del cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti, vescovo di Imola (4).
La personalità del nuovo pontefice, i cui tratti fondamentali erano costituiti da una bontà e da un candore che potevano apparire debolezza e ingenuità; il fatto che in conclave fosse stato contrapposto al cardinale Lambruschini, il valoroso segretario di Stato di Gregorio XVI, esponente dell’ala più intransigente della curia; soprattutto i primi gesti pubblici del pontificato, improntati alla clemenza e alla generosità, illusero le sètte che realmente fosse giunta l’ora del «Papa secondo i nostri bisogni», del pontefice che avrebbe conciliato la Chiesa e la Rivoluzione, il cattolicesimo e la civiltà moderna.
L’ANTAGONISTA DELLA RIVOLUZIONE
«Era il Mastai – scrive Balan, scolpendone il felice ritratto – uomo di singolare virtù, di vita piissima, d’innocenti costumi, d’indole mite e pietosa, ma ferma, esperto nelle cose politiche, conoscitore delle triste condizioni della società, memore di vari rivolgimenti e delle arti settarie, dotto nelle discipline ecclesiastiche, eloquente, sobrio, temperato, bello della persona, gentile nei modi, lontano da ogni indebito favore a parenti, largo di soccorsi e di protezioni, affettuoso, singolarmente delicato di coscienza ed amantissimo della Vergine immacolata.
Ma in tempi grossi di tempesta era divenuto papa» (5).
Tra coloro che seguono con maggiore preoccupazione lo svolgersi degli avvenimenti – e che ci lascia altri felici tratti della persona del nuovo pontefice – è il conte Clemente Solaro della Margarita, da undici anni inascoltato ministro di re Carlo Alberto. «Il centro di tutte le mene e congiure essendo allora in Roma, in Roma che esercitava tanta influenza in tutta la penisola», Solaro della Margarita decide di recarvisi personalmente «per iscandagliar io stesso il precipizio, e quanto rischio fosse di cadervi» (6).
Arrivato nella città santa il 29 agosto, il ministro piemontese incontra il cardinale Gizzi, nuovo segretario di Stato, e poi lo stesso pontefice. «Fui altamente commosso dalla bontà con cui mi accolse e compreso d’ammirazione pel suo alto sentire, in quanto riguardava il compimento delle eccelse funzioni cui Dio l’aveva destinato; vidi essere suo intimo desiderio portare all’amministrazione dello Stato tutti quei rimedii che i tempi esigevano, ma essere risoluto a non lasciarsi strascinare più oltre. Pio IX mi parlò colla serena tranquillità di una retta coscienza della gravità delle circostanze in cui trovavasi l’Italia, e non nascondendo a sé stesso gli eventi cui s’andava incontro, si abbandonava in Dio, perché l’assistesse nel tempo della tempesta» (7).
«Mi fermai in Roma fino al 12 di settembre, onde essere presente alla pacifica dimostrazione del giorno 7, festa della natività di M.V., in cui il Santo Padre andò a tener cappella nella Chiesa di S. Maria del Popolo. Vi andò in gran pompa, fra migliaia di bandiere bianche e gialle, fra una moltitudine di popolo che echeggiar faceva l’aria di evviva; balconi e finestre erano pomposamente addobbate, le fregiavano iscrizioni allusive all’epoca che si inaugurava. Non mi piacque l’insieme, e vidi che i tempi si facevano grossi» (8).
La Rivoluzione, rinnovando la tentazione del demonio a Gesù nel deserto, giungerà a chiedere al vicario di Cristo l’apostasia, offrendo il compenso della popolarità e del successo mondano. Pio IX rifiuterà ogni lusinga, scegliendo la via della croce. La croce fu l’insegna del suo pontificato, il più lungo che la storia, ricordi, dopo quella di s. Pietro.
II
I DISEGNI TATTICI DELLA RIVOLUZIONE E LA TORBIDA BONACCIA SETTARIA
«Ci serviremo delle lagrime reali della famiglia e dei presunti dolori dell’esilio – aveva scritto Nubius, il capo dell’Alta Vendita – per formarci dell’amnistia un’arma popolare. Noi la chiederemo sempre, felici di ottenerla il più tardi che sia possibile, ma la chiederemo ad alte grida» (9).
Il 17 luglio, trigesimo della elevazione alla tiara, Pio IX concede l’amnistia a oltre 400 detenuti ed esuli politici, subordinando il perdono alla semplice firma di una dichiarazione di fedeltà. Il gesto di sovrana clemenza, forse troppo generoso, è del tutto privo, nelle intenzioni del pontefice, di significato politico (10). Segna tuttavia «l’inizio di un delirio collettivo dell’opinione pubblica» (11) che, dal luglio del 1846 all’aprile del 1848, creerà, attorno al nome di Pio IX, il mito del Papa «liberale» o «riformatore», frutto in realtà – come ha osservato uno storico di parte laica – di un «sistematico sfruttamento» (12) delle iniziative del pontefice.
IL COMPITO CHE SI PREFIGGONO I SETTARI: «EDUCARE» IL POPOLO A GRIDARE: «PIO IX AL PATIBOLO!»
Da Londra, Giuseppe Mazzini esorta a «non far altri gridi che quelli diViva l’Italia e Pio IX» (13). «L’entusiasmo, il delirio del popolo è cosa buona […]. Il popolo parigino gridava nel 1789: viva Luigi XVI rigeneratore della Francia!; due anni dopo, gridava: viva la Nazione! Luigi XVI al palco! Il popolo vuole il bene; non sa dove sia; spetta ai suoi educatori mostrarglielo» (14).
Gli «educatori» non perdono tempo. Nello spazio di poche settimane Roma sembra risucchiare la feccia rivoluzionaria di tutta Europa.
LA NUOVA VAMPATA RIVOLUZIONARIA DEL 1848
L’occhio attento di Solaro della Margarita non si era ingannato, prevedendo che «i tempi si facevano grossi».
Il congresso massonico internazionale di Strasburgo ha messo a punto tutti i dettagli di una nuova vampata rivoluzionaria in Europa. La scintilla parte da Parigi il 23 febbraio 1848 con la caduta della «monarchia di luglio» e la proclamazione di una «repubblica democratica»; di qui si propaga a Vienna, a Berlino, a Francoforte, a Milano, a Parma, a Venezia. Il 23 marzo 1848, dopo le «cinque giornate» di Milano, sostituita l’antica bandiera azzurra dei Savoia con il «tricolore», Carlo Alberto attacca l’Austria.
I settari premono per un intervento dei pontefice accanto al re sabaudo.
PIO IX RIFIUTA L’APOSTASIA E SCEGLIE L’EROICA FEDELTÀ ALLA CHIESA
Ma il 29 aprile 1848, nella sua celebre allocuzione, Pio IX rifiuta il suo appoggio all’intervento piemontese, rigettando «nel cospetto di tutte le genti […] gl’ingannevoli consigli manifestati per mezzo di giornali e di vari scritti da coloro i quali vorrebbero fare il romano Pontefice presidente di una certa nuova repubblica da costituirsi con tutti i popoli d’Italia» (15).
L’8 settembre 1847 Mazzini aveva scritto al Papa invitandolo apertamente all’apostasia: «Io non vi dirò le mie opinioni individuali sullo sviluppo religioso futuro; poco importano: Vi dirò che qualunque sia il destino delle attuali credenze, Voi potete porvene a capo. Se Dio vuole che rivivano Voi potete far che rivivano: se Dio vuole che si trasformino, che, muovendo dappié della Croce, dogma e culto si purifichino innalzandosi d’un passo verso Dio, padre ed Educatore del mondo, Voi potete mettervi fra le due epoche e guidare il mondo alla conquista e alla pratica della Verità religiosa, spegnendo l’esoso materialismo, e la sterile negazione […]. Vi chiamo, dopo tanti secoli di dubbio e di corruttela, ad essere apostolo dell’Eterno Vero […]. Siate credente. Aborrite dall’essere re, politico, uomo di Stato […]. Annunciate un’Era: dichiarate che l’Umanità è sacra e figlia di Dio; che quanti violano i suoi diritti al progresso, all’associazione sono sulla via dell’errore […]. Unificate l’Italia, la patria Vostra […]. Noi Vi faremo sorgere intorno una Nazione al cui sviluppo libero, popolare, Voi, vivendo, presiederete […]» (16).
L’allocuzione concistoriale del 29 aprile, con la quale Pio IX rifiuta solennemente di porsi alla testa della Rivoluzione in Italia, rappresenta la solenne ed esplicita risposta all’invito all’apostasia che si rinnova da parte delle sètte. Qualcuno ha voluto vedere in quest’allocuzione il «tradimento» della Rivoluzione: si tratta in realtà, secondo le parole di Crétineau-Joly, di una «pagina di storia scritta ai piedi del crocifisso» (17), che rappresenta la conferma esplicita e definitiva della scelta di fedeltà alla Chiesa da parte del Pontefice.
Il 15 novembre 1848 i settari assassinano sulle scale del palazzo della cancelleria Pellegrino Rossi, che Pio IX ha scelto come ministro nel tentativo di sedare la tempesta che monta. Mentre la piazza cade in mano ai facinorosi, il 24 novembre il Papa è costretto a lasciare Roma per riparare a Gaeta, dove è accolto da Ferdinando II re delle Due Sicilie. Porta con sé, come preziosa reliquia, la pisside che in anni altrettanto tempestosi aveva accompagnato la prigionia e l’esilio di Pio VI, suo predecessore anche nella sede episcopale di Imola.
IL VERO VOLTO DELLA RIVOLUZIONE: L’ABIEZIONE DELLA «REPUBBLICA ROMANA» DEL 1849
La Rivoluzione finalmente rivela il suo volto. L’articolo 1 del decreto della nuova assemblea costituente votato nella notte tra l’8 e il 9 febbraio 1849, dichiara che il Papato «era decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato romano» e, nell’articolo 3, che «la forma del governo dello Stato romano sarà la democrazia pura e prenderà il glorioso nome di Repubblica Romana» (18). «Chi non sa – afferma accoratamente il Papa, levando la voce da Gaeta – che la città di Roma, sede principale della Chiesa cattolica, è ora divenuta ahi! una selva di bestie frementi, riboccando di uomini d’ogni nazione, i quali o apostati, o eretici, o maestri del comunismo, o del socialismo, ed animati dal più terribile odio contro la verità cattolica, sia con la voce, sta con gli scritti, sia in altro qualsivoglia modo si studiano a tutt’uomo d’insegnare e disseminare pestiferi errori di ogni genere, di corrompere il cuore e l’animo di tutti, affinché in Roma stessa, se fia possibile, si guasti la santità della religione cattolica, e la irreformabile regola della fede?» (19).
III
IL RISORGIMENTO O INCARNAZIONE ITALIANA DELLA RIVOLUZIONE, HA COME FINE LA DISTRUZIONE DI ROMA CATTOLICA E DELLA CHIESA
Tra la Repubblica Romana del 1849 e la breccia di Porta Pia del 1870 corre il filo rosso del Risorgimento, cadenza storica italiana di un processo rivoluzionario che ha avuto i suoi passaggi decisivi nel Rinascimento, nella Pseudo-Riforma protestante, nella Rivoluzione francese: una rivoluzione che si propone come fine la distruzione, fin nelle sue radici, della civiltà cristiana e l’edificazione, in suo luogo, di una Repubblica Universale, ugualitaria e gnostica.
Tutto l’ampio ventaglio di forze rivoluzionarie che confluisce nel «fascio» risorgimentale, dal neoguelfismo al liberalismo «cattolico», fino alle punte più accese del radicalismo democratico, trova il suo momento catalizzatore e aggregante nel mito della Roma «rigenerata» e «riformata», perché svincolata dal principato civile del pontefice. «La capitale del mondo pagano e del mondo cattolico – scrive uno degli autori più rappresentativi dell’Italia risorgimentale – è ben degna di essere la capitale dello spirito moderno. Roma è dunque per noi non il passato, ma l’avvenire. Noi andremo là per distruggervi il potere temporale e per trasformare il papato» (20). La nuova «religione dell’umanità» che si maschera da «riforma» o «rigenerazione morale», ha il suo momento essenziale nella soppressione del principato civile del pontefice, mezzo necessario, non già alla realizzazione dell’unità nazionale, come narra pateticamente la favola risorgimentale, ma alla distruzione, se possibile, della Chiesa di Roma, reale antagonista della Rivoluzione. La «questione romana» è realmente la «questione» del Risorgimento, di cui costituisce non certo un’appendice politico-diplomatica, ma il filo conduttore e l’essenza religiosa. «La Rivoluzione attuale – scrive Giuseppe Montanelli – mosse da Roma, e prima o poi a Roma dovrà compirsi» (21). Il 1870, l’Ottantanove d’Italia (22), rappresenterà l’epilogo e il simbolico compimento del Risorgimento, o addirittura, per la setta, come affermerà il Gran Maestro della massoneria italiana Adriano Lemmi, «il più memorabile avvenimento della storia del mondo» (23).
PIO IX RIENTRA IN ROMA E SI PREPARA A FRONTEGGIARE LE ULTERIORI IMMINENTI BATTAGLIE RIVOLUZIONARIE
La parentesi della Repubblica Romana, che Pio IX ha vissuto nell’esilio di Gaeta, è breve, ma è stata sufficiente a confermare ancora una volta – anche se di tale conferma non vi era certamente bisogno – come il fossato, o meglio, l’abisso che separa la Chiesa dalla Rivoluzione sia in radice e assolutamente incolmabile.
Spinto dall’opinione pubblica cattolica francese e dal desiderio di precedere l’intervento austriaco, l’antico congiurato assurto alla presidenza della Repubblica francese, Luigi Napoleone Bonaparte, invia un contingente di truppe al comando del generale Oudinot, che il 30 giugno 1849 libera Roma. Il 12 aprile 1850, accolto dal tripudio popolare, il Papa fa il suo rientro nella città santa. Coadiuvato dal segretario di Stato Giacomo Antonelli, il pontefice intraprende nei suoi Stati una politica di risanamento economico e di importanti riforme amministrative. Il 6 aprile 1850, mentre Pio IX è ancora in viaggio verso Roma, è apparso a Napoli il primo numero della Civiltà Cattolica (24). La rivista, cui collaborano i migliori scrittori della Compagnia di Gesù, è sorta per desiderio del pontefice e costituirà il suo principale sostegno nella guerra alla cultura moderna, recando un contributo decisivo al Sillabo, al concilio Vaticano I e soprattutto all’opera di restaurazione della filosofia tomista che avrà il suo coronamento sotto il pontificato di Leone XIII (25).
LA RIVOLUZIONE COSTRETTA A RETROCEDERE, OCCULTA LE SUE TRAME, E IN PIEMONTE INIZIA LA PERSECUZIONE ANTICATTOLICA E LA PREPARAZIONE DI NUOVI ASSALTI
Spenta la vampata rivoluzionaria, si apre intanto un periodo di sorda lotta diplomatica. Fin dall’8 aprile di quello stesso 1850, il nunzio Antonucci lascia Torino, per protestare contro quelle leggi Siccardi che segnano l’inizio della violenta politica di persecuzione anticattolica da parte del governa piemontese (26). Il 4 novembre 1852 il conte Camillo Benso di Cavour è chiamato ad assumere la presidenza del consiglio dei ministri, che terrà ininterrottamente, salvo un breve intervallo, fino alla morte. Il conte di Cavour intreccia un cinico gioco di alleanze con il primo ministro inglese lord Palmerston e con Luigi Napoleone, che il 2 dicembre 1852 assume il titolo di «Imperatore dei francesi» con il nome di Napoleone III. Nel gennaio 1855, alla vigilia dell’intervento piemontese in Crimea, Cavour sottoscrive un trattato con la Francia e l’Inghilterra, che unisce i tre governi non solo contro la Russia, ma contro Roma e contro i governi legittimi della penisola. Nel 1856 il primo ministro piemontese crea la Società nazionale, emanazione del governo, per coordinare l’azione settaria in vista dei prossimi rivolgimenti. Nello stesso anno perfeziona con Napoleone III e lord Palmerston, nel congresso di Parigi, il futuro assetto rivoluzionario della penisola. Cavour, in una nota sugli Stati pontifici presentata il 27 marzo ai rappresentanti di Francia e di Inghilterra Walewski e Clarendon, denuncia la «condizione deplorevole delle province sottoposte alla Santa Sede», che formano «un pericolo continuo di disordine e di anarchia nel centro d’Italia» (27). Un nuovo patto di ferro è stretto con gli accordi segreti di Plombières del 20-21 luglio 1858 tra Napoleone III e Cavour, accordi che preparano la guerra franco-piemontese all’impero austro-ungarico. Nel trattato di pace, firmato a Zurigo il 10 novembre 1859, dopo l’armistizio di Villafranca, si stabilisce che un congresso europeo avrebbe provveduto alla risoluzione dei problemi italiani. L’apparizione dell’opuscolo Le Pape et le congrès, ispirato dallo stesso Napoleone III, che ripropone la mutilazione dello Stato della Chiesa, determina tuttavia la definitiva rottura delle trattative e il fallimento del progetto di congresso.
LA NUOVA AVANZATA RIVOLUZIONARIA E L’OPERA DEL VERO «GIACOBINO»: CAVOUR
La Rivoluzione, dopo la preparazione diplomatica, giudica maturo il momento per un nuovo ricorso alla violenza. Nella primavera del 1859, mentre in Lombardia si combatte tra le truppe austro-ungariche e quelle franco-piemontesi, esplodono moti rivoluzionari nel granducato di Toscana, nel ducato di Parma, nel ducato di Modena e nelle legazioni pontificie di Bologna e Ferrara, provocando la costituzione di governi rivoluzionari provvisori. Cavour baratta con Napoleone III la cessione alla Francia di Nizza e della Savoia in cambio dell’annessione dell’Italia centrale al regno di Sardegna. L’annessione viene sancita da artificiosi «plebisciti» l’11 e il 12 marzo 1860 per l’Emilia e la Romagna. Il 26 marzo 1860 Pio IX lancia la scomunica maggiore contro tutti coloro che, in qualunque modo, avessero cooperato all’usurpazione, ribadendo, con l’enciclica Cum catholica ecclesia, la necessità del principato civile del pontefice. La gioventù legittimista di tutta Europa accorre a Roma, nelle fila degli zuavi pontifici, rispondendo all’appello del pro-ministro delle Armi del Papa, monsignor Saverio Francesco De Merode, a difesa dello Stato della Chiesa aggredito (28). Il 18 settembre 1860, a Castelfidardo, il piccolo esercito pontificio è però sopraffatto dalla preponderanza militare piemontese. Il 13 febbraio 1861, la caduta della fortezza di Gaeta segna, a sua volta, l’epilogo della invasione del regno delle Due Sicilie, iniziata nel maggio dell’anno precedente. Il 17 marzo 1861, con la proclamazione del «regno d’Italia», la trama tessuta dal conte di Cavour può dirsi compiuta.
Assumendo, in quello stesso mese, la responsabilità del primo ministero dell’Istruzione dell’Italia unita, Francesco De Sanctis traccia, il 13 aprile alla camera, il programma di cui, come è stato avvertito, la storia culturale italiana postunitaria sembra rappresentare, fino ai nostri giorni, il puntuale svolgimento (29). Da Francesco De Sanctis a Giovanni Gentile, fino ad Antonio Gramsci, si dipana, a «coprire» momenti politici diversi, una identica linea culturale, contenuta, in nuce, in tutte le sue potenzialità, nella Rivoluzione risorgimentale.
Machiavelli, per questo filone di pensiero rivoluzionario, è il «Lutero italiano» (30), e di Machiavelli il conte di Cavour è il legittimo erede nel XIX secolo. Cavour, più ancora di Mazzini, è il vero «giacobino» d’Italia; se infatti si approfondisce la questione, osserva Gramsci, «appare che per molti riguardi la differenza fra molti uomini del Partito d’Azione e i moderati era più di “temperamento” che di carattere organicamente politico» (31). Il «realismo» cavouriano sta alla «astrattezza» mazziniana come la «guerra di posizione» di Lenin sta alla «guerra manovrata» di Trotzki (32): «Insistere nello svolgimento del concetto che, mentre Cavour era consapevole del suo compito, in quanto era consapevole criticamente del compito di Mazzini, Mazzini, per la scarsa o nulla consapevolezza del compito di Cavour, era in realtà anche poco consapevole del suo proprio compito» (33).
Se, dunque, il piano rivoluzionario ha la sua prefigurazione nella Repubblica Romana e il suo esordio «profetico» nel sinistro messianismo di Giuseppe Mazzini e di Vincenzo Gioberti, dovrà tuttavia la sua realizzazione all’ordito del conte di Cavour e si espliciterà, a pochi giorni di distanza dalla promulgazione del regno d’Italia e prima di avere il suo simbolico coronamento nella breccia di Porta Pia, nella enunciazione da parte di Cavour della formula «libera Chiesa in libero Stato» e nel suo solenne impegno pubblico a fare di Roma la capitale del nuovo Stato unitario (34).
Con le allocuzioni concistoriali Novos et ante del 28 settembre 1860, Jamdudum cernimus del 18 marzo 1861, Maxima quidem del 9 giugno 1862, Pio IX rinnova la sua condanna delle pretese rivoluzionarie, con l’adesione unanime dell’episcopato cattolico, espressa soprattutto nell’indirizzo presentato al pontefice nel concistoro del 9 giugno 1862 da più di trecento arcivescovi o vescovi. Ancora, nel Syllabus dell’8 dicembre 1864, sono esplicitamente condannate due proposizioni che si riferiscono al principato civile del pontefice romano. Sono la 75: «Sulla compatibilità del regno temporale con lo spirituale disputano fra di loro i figli della cristiana e cattolica Chiesa» e la 76: «L’abolizione del civile imperio che possiede la Sede Apostolica gioverebbe moltissimo alla libertà e felicità della Chiesa» (35).
LA CADUTA DI ROMA NEL 1870 E L’EROISMO DEGLI ZUAVI
In realtà, Castelfidardo ha segnato la fine della speranza di potere in quegli anni abbattere con le armi la Rivoluzione, e lo Stato del Papa, ridotto solo a Roma e al circostante patrimonio di San Pietro, è ormai lasciato in balia della non disinteressata tutela francese. La convenzione segreta italo-francese del 15 settembre 1864, in cui si stipula il ritiro graduale delle forze francesi, l’invasione di Garibaldi e la sua sconfitta a Mentana il 3-4 novembre 1867, sono gli ultimi atti di uno scenario accuratamente programmato. Gli ultimi veli cadono quando, il 20 luglio 1870, dopo i primi rovesci delle armi imperiali nella guerra franco-prussiana, Napoleone III fa sapere al Papa che la custodia dello Stata ecclesiastico è ormai affidata all’esercito italiano. Il 10 settembre, Vittorio Emanuele II invia presso Pio IX il conte Ponza di San Martino per offrire la «protezione» delle truppe italiane. Il giorno seguente lo Stato pontificio è invaso. Pio IX ordina agli zuavi, che chiedono di combattere a oltranza, di limitare la resistenza a quel tanto che è necessario per dimostrare al mondo che il Papa non rinuncia ai suoi diritti ma cede alla violenza.
Alle 5,15 del venti settembre 1870, l’osservatorio di Santa Maria Maggiore avverte il ministero della Guerra che le batterie nemiche hanno aperto il fuoco contro la Città Santa. Porta Pia è conquistata dopo sei ore di resistenza (36). «In questo momento che scrivo – annota Francesco De Sanctis, interrompendo la sua Storia della letteratura italiana – le campane suonano a distesa e annunziano l’entrata degli italiani a Roma. Il potere temporale crolla. E si grida il viva all’unità d’Italia. Sia gloria a Machiavelli» (37).
Il 21 settembre 1870, le milizie pontificie lasciano Roma. Gli zuavi sono gli ultimi a sfilare. Il colonnello Avet, fatto formare il quadrato, fa presentare per l’ultima volta le armi al grido di Viva Pio IX, Papa-Re!(38).
Inizia il volontario esilio di Pio IX.
LA BASSEZZA E L’INFAMIA DEI «VINCITORI»
Il 1º novembre, Pio IX pubblica l’enciclica Respicientes (39). Dopo aver considerato gli atti che il governo subalpino, «seguendo i consigli di perdizione delle sètte, avea compiuti contro ogni diritto, colla forza e colle armi», tocca il cuore della «questione romana». Ricorda come già altre volte avesse esposto, in varie allocuzioni, «la storia della guerra nefanda», fatta dal governo piemontese alla Sede apostolica, le antiche ingiurie fino dal 1850, le offese continuate, «sia coll’infrangere la fede da solenni convenzioni obbligata alla Sede apostolica, sia col negare impudentissimamente l’inviolabile diritto di quelle nel tempo medesimo che dicevasi voler trattare nuovi patti» e fare nuove convenzioni. «Da quei documenti i posteri verranno a conoscere con quali arti e con quanto scaltre e indegne macchinazioni quel governo sia arrivato ad opprimere la giustizia e la santità della Sede apostolica, e quali fossero da parte del Papa le cure nel reprimere l’audacia ogni giorno crescente e nel rivendicare la causa della Chiesa».
Il Papa ripercorre quindi le fasi delle «annessioni» dei suoi Stati, dal 1859 in poi; la ribellione provocata nelle Romagne, l’esercito pontificio distrutto a Castelfidardo, l’occupazione delle Marche e dell’Umbria, dove si disse «voler restituire i principi di ordine morale, mentre di fatto si promosse dovunque la diffusione ed il culto d’ogni falsa dottrina, dovunque si sciolsero le redini alle passioni ed all’empietà […]». Accenna quindi alle proposte di inique conciliazioni con gli usurpatori, «per le quali tentavasi di indurlo a turpemente tradire il suo dovere»; ricorda gli assalti del 1867, quando «orde di uomini perdutissimi sostenuti da aiuti del medesimo governo irruppero nei confini pontifici e contro Roma»; dice dei pericoli, dei timori, della prodigiosa salvezza, della fedeltà e devozione sempre dai fedeli «mostrata con insigni significazioni e con opere di cristiana carità»: finalmente dell’occasione presa dal governo di Firenze d’invadere lo Stato della Chiesa e dei fatti seguiti. Narra come non credesse dovere «tradire ad altri la sacra eredità» del regno della Santa Sede, «o tacitamente acconsentire che alcuno s’impadronisse della città regina dell’orbe cattolico, dove perturbata e distrutta la santissima forma del regime che fu da Gesù Cristo lasciato alla Santa sua Chiesa, ed ordinata dai sacri canoni formati collo spirito di Dio, si ponesse in suo luogo un codice non solo ai sacri canoni, ma persino al Vangelo contrario e ripugnante, e s’introducesse, secondo il solito, un nuovo ordine di tali cose che tende manifestissimamente a pareggiare e a confondere tutte le sètte e superstizioni colla Chiesa cattolica».
LA GRANDEZZA IMMORTALE DEL «VINTO» PIO IX
Dopo avere ricordato quanto accadde il 20 settembre e nei giorni che seguirono, Pio IX, confermando tutte le encicliche, allocuzioni, brevi e proteste solenni del suo pontificato, dichiara «essere sua mente, proposito e volontà di ritenere e trasmettere ai suoi successori tutti i dominii e diritti della Santa Sede interi, intatti e inviolati; e qualunque usurpazione, tanto fatta allora quanto per lo addietro, essere ingiusta, violenta, nulla ed irrita; e tutti gli atti dei ribelli e degli invasori sia quelli fatti fino allora, sia quelli che si faranno in seguito per assodare in qualsiasi modo la predetta usurpazione, essere da lui rescissi, cassati, abrogati; dichiarando inoltre dinanzi a Dio ed a tutto il mondo cattolico versare egli in tale cattività, che non poteva esercitare speditamente e liberamente e con sicurezza la sua pastorale autorità». Aggiunge che, «memore dell’ufficio suo e del solenne giuramento dal quale era obbligato, non assentirebbe mai, né mai presterebbe assenso a qualunque conciliazione, la quale in qualsivoglia maniera distrugga o diminuisca i suoi diritti, che sono diritti di Dio e della santa Sede: e professava essere veramente pronto coll’aiuto della grazia divina e nella sua grave età a bere fino all’ultima goccia per la Chiesa di Cristo quel calice che Cristo stesso per primo erasi degnato bere per la Chiesa; né commetterebbe giammai la debolezza di aderire alle inique domande che gli si porgevano, o di secondarle». Ammonisce infine che, «siccome ammonimenti, domande e proteste erano state vane, così per l’autorità dall’onnipotente Iddio, de’ santi apostoli Pietro e Paolo, e sua, dichiarava ai vescovi e per mezzo loro a tutta la Chiesa, che tutti, anche posti in qualunque dignità, fosse pur degna di specialissima menzione, coloro che aveano commesso la invasione di qualunque provincia dello Stato della Chiesa e di Roma; e la occupazione, usurpazione, od altri atti di simil genere, e i loro mandanti, fautori, aiutanti, consiglieri aderenti, od altri qualunque procuranti o per se medesimi operanti le predette cose, sotto qualsiasi pretesto e in qualunque modo, erano incorsi nella scomunica maggiore, e nelle altre censure e pene inflitte dai sacri canoni, dalle apostoliche costituzioni, dai decreti dei concili generali e specialmente di quello di Trento (sess. 22 c, 11 de Reform.) giusta la forma e tenore espresso nella lettera del 26 marzo 1860».
Da allora fino alla morte Pio IX rinnoverà continuamente le sue proteste (40), ribadendo che il principato temporale del pontefice costituisce la condizione necessaria per il libero esercizio della sua autorità spirituale e la «questione romana» non è una questione politica, legata al problema della indipendenza e della unità italiana, ma una questione eminentemente religiosa, perché riguarda la libertà del capo della Chiesa universale, nell’esercizio del suo sacro ministero (41).
Scopo della «sacrilega invasione», ripete ancora Pio IX nell’allocuzione concistoriale del 12 marzo 1877, non è infatti «tanto la conquista del nostro Stato, quanto il pravo disegno di distruggere più facilmente, mediante la soppressione del nostro temporale dominio, le istituzioni tutte della Chiesa, annientare l’autorità della Santa Sede, abbattere il supremo potere del vicario di Gesù Cristo, a noi, benché immeritevoli, confidato» (42).
Quando Pio IX muore, a ottantacinque anni di età, il 7 febbraio del 1878, il fine delle sètte, cioè fare cadere la corona temporale dal capo del pontefice per spezzare più facilmente le chiavi nelle sue mani, sembra ormai vicino. Il pontefice, di fronte alla storia, appare uno sconfitto. Ma il metro della Provvidenza, per misurare le sconfitte e le vittorie nella storia, è diverso dal metro umano. Pio IX ha vinto la sua battaglia: sul piano spirituale, con l’esercizio eroico delle virtù (43), quando agli osanna che avrebbero accolto la sua apostasia, ha preferito il crucifigeche ha accompagnato la sua fedeltà alla Chiesa; sul piano storico, con la integrità e la continuità del suo magistero dottrinale (44), che costituisce un legato prezioso per il nostro secolo. Così, i trentadue lunghi anni del suo pontificato sono segnati dall’odio feroce delle sètte, ma illuminati anche da tre grandi atti che costituiscono i presupposti della loro futura, definitiva sconfitta (45). Sono il Sillabo, ossia la condanna dei principali errori che corrompono la cultura e la società moderna; il Concilio Vaticano I, con la definizione dogmatica della infallibilità del Papa, quando insegna ex cathedra le verità di fede e di morale; la definizione del dogma della Immacolata Concezione, che preannunzia la vittoria di Maria sul serpente infernale e il trionfo della Chiesa sulla Rivoluzione. Questo trionfo è riservato al nostro secolo, ma ha le sue immediate ed entusiasmanti premesse in quello che un giorno sarà detto il secolo di Pio IX.
ROBERTO DE MATTEI
NOTE
(1) Cfr. ULYSSES MAYNARD, Jacques Crétineau-Joly, sa vie politique, religieuse et littéraire d’apres ses mémoires, sa correspondance et autres documents inédits …, Firmin-Didot, Plon, Bray et Retaux, Parigi 1875, pp. 340 e ss. Jacques Crétineau-Joly (1803-1875) non pubblicò mai la storia delle società segrete, ma utilizzò il materiale ricevuto dal Papa per l’Église Romaine en face de la Révolution, Henri Plon, Parigi 1859, 2 voll., opera in cui è magistralmente delineato il quadro della lotta tra la Chiesa cattolica e la Rivoluzione nel periodo che va dal pontificato di Pio VI agli inizi di quello di Pio IX. Il volume, è stato ristampato dal Cercle de la Renaissance Française, Parigi 1976. I documenti dell’Alta Vendita sono stati successivamente riprodotti da mons. Henri Delassus, nel suo Le problème de l’heure présente: antagonisme de deux civilisations, Parigi-Lille 1904, 2 voll., tr. it. Il problema dell’ora presente. Antagonismo fra due civiltà, Desclée e C., Roma 1907, 2 voll. Quest’opera, che come la precedente costituisce un «classico» della letteratura contro-rivoluzionaria, è stata a sua volta ristampata, in versione italiana, come reprint, da Cristianità, Piacenza 1977, 2 voll.
(2) J. CRÉTINEAU-JOLY, op. cit., vol. II, p. 129. Cfr. anche H. DELASSUS, op. cit., vol. I, p. 595.
(3) J. CRÉTINEAU-JOLY, op. cit., vol. II, pp. 82-83. Cfr. anche H. DELASSUS, op. cit., vol. I, pp. 585-586. «Dio – commenta mons. Delassus – dà l’infallibilità dottrinale al Papa, ma non lo rende impeccabile. E ciò che Mons. Régnier ebbe cura di far osservare nella Istruzione pastorale che scrisse sul Concilio Ecumenico Vaticano. Come ogni altro uomo, il Papa deve vegliare sulla propria salute con timore e tremore. “Egli prima di salire l’altare continua a confessarsi battendosi il petto, ch’egli ha molto peccato con pensieri, parole ed opere”. Egli domanda umilmente ai suoi fratelli che lo circondano, di “pregare per lui il Signore Dio nostro” e quelli gli rispondono: “Che il Signore onnipotente abbia pietà di voi, e che, avendovi perdonati i vostri peccati, vi conduca alla vita eterna’’».
(4) Giovanni Maria Mastai Ferretti era nato a Senigallia il 13 maggio 1792 dal conte Girolamo e da Caterina Solazzi. Dopo aver studiato presso gli scolopi di Volterra, era stato ordinato sacerdote il 19 aprile 1819. Aveva accompagnato come uditore mons. Muzi, delegato apostolico presso le repubbliche del Cile e del Perù in un lungo e disagiato itinerario apostolico (3 luglio 1823 – 6 luglio 1825). Era stato consacrato, quindi, il 3 giugno 1827, vescovo di Spoleto e aveva governato la città durante i moti insurrezionali del ‘31. Gregorio XVI lo aveva poi trasferito, il 17 dicembre 1832, alla diocesi di Imola, creandolo nello stesso tempo cardinale del titolo dei SS. Pietro e Marcellino. In questa qualità la sera del 14 giugno 1846 era entrato nel conclave da cui sarebbe uscito Papa.
(5) PIETRO BALAN, Continuazione alla storia universale della Chiesa cattolica dell’abate Rohrbacher dall’elezione al pontificato di Pio IX nel 1846 ai giorni nostri, Giacinto Marietti, Torino 1884, vol. I, p. 28. L’opera di Balan (1840-1893), comparsa in tre volumi tra il 1879 e il 1886, costituisce quanto di meglio, per ampiezza di quadro e forza di penetrazione storica, sia stato scritto sul pontificato di Pio IX. Scarsi e di poco valore i contributi successivamente emersi in campo storiografico. Grondante inutile erudizione e radicalmente infetto di modernismo GIACOMO MARTINA, Pio IX (1846-1850), Università Gregoriana Editrice, Roma 1974. Dal 1972, a cura della postulazione della causa di Pio IX, appare la rivista trimestrale Pio IX. Studi e ricerche sulla vita della Chiesa dal Settecento ad oggi, con contributi assolutamente eterogenei per qualità e orientamento.
(6) CLEMENTE SOLARO DELLA MARGARITA, Memorandum storico-politico, Fratelli Bocca, Torino 1930, p. 302.
(7) Ibid., pp. 306-307.
(8) Ibid., p. 308.
(9) J. CRETINEAU-JOLY, op. cit., vol. II, p. 139. Cfr. anche H. DELASSUS, op. cit., vol. I , p. 606.
(10) Sul significato dell’amnistia, è opportuno notare come lo stesso Metternich, che il 1° luglio aveva inviato istruzioni al suo rappresentante a Roma, insistendo perché si sottolineasse nella legge il carattere di «perdono» che cancella le conseguenze, ma non annulla la colpa -, si dichiarasse soddisfatto.
(11) Così MARTINA, op. cit., p. 101, che, pur sottolineando la sproporzione tra la modesta portata del provvedimento e l’ampiezza delle reazioni suscitate, non si cura di ricercare le reali cause del fenomeno.
(12) LUIGI SALVATORELLI, Pio IX e il Risorgimento, in Spiriti e figure del Risorgimento, Le Monnier, Firenze, 1961, pp. 253-257. «L’opera positiva, cosciente [di Pio IX] – scrive Salvatorelli – non fu la sua, ma dell’agitazione popolare e di chi la dirigeva, prendendo occasione dalle concessioni di Pio IX, ingrandendole, cambiandone il significato, facendo pressioni per ottenerne sempre di nuove. […] Il Risorgimento si è fatto contro il papato e non poteva farsi diversamente: e in questo senso hanno concorso anche quegli elementi credenti cattolici che vi hanno partecipato effettivamente. La contraddizione non era di un uomo, né poteva cancellarsi per opera di un uomo: era nell’istituto, nell’idea» (ibidem).
(13) GIUSEPPE MAZZINI, lettera del 14 settembre 1907 a Giuseppe Lamberti, in Opere, a cura di Luigi Salvatorelli, Rizzoli, Milano 1967, vol. I, p. 383.
(14) IDEM, lettera del 23 novembre 1847 a Federico Campanella, in Opere, cit., vol. I, p. 384.
(15) Cfr. in P. Balan, op. cit., vol. I, p. 351.
(16) G. MAZZINI, lettera A Pio IX Pontefice massimo, in Opere, cit., vol. II, pp. 361-368. Una settimana dopo Mazzini scriveva a Lamberti: «Mando la lettera al Papa, ch’è nulla; l’ho scritta come se ne scrivessi a te; pur sarebbe abbastanza per turbargli la testa, se testa avesse». Cfr. lettera del 14 sett., cit., p. 384.
(17) J. CRÉTINEAU-JOLY, op. cit., vol. II, p. 438.
(18) P. BALAN, op. cit., vol. I. p. 553.
(19) Ibid., p. 583.
(20) FRANCESCO DE SANCTIS, Il Mezzogiorno e lo Stato unitario, cit. in ALBERTO AQUARONE, Le forze politiche italiane e il problema di Roma, in Alla ricerca dell’Italia liberale, Guida, Napoli 1972, p. 155.
(21) Cit. in GIOVANNI SPADOLINI, Un dissidente del Risorgimento (Giuseppe Montanelli) con documenti inediti. Aggiunta la ristampa del saggio montanelliano L’Impero, il Papato e la Democrazia (1859), Le Monnier, Firenze 1962, p. 166.
(22) Cfr. GIOVANNI CANTONI, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, saggio introduttivo a PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, Cristianità, Piacenza 1977, 3ª ed. it. accresciuta, p. 15.
(23) Cit. in ROSARIO F. ESPOSITO, La Massoneria e l’Italia dal 1800 ai nostri giorni, Edizioni Paoline, Roma 1969, p. 108. «[…] Forse – scrive un altro esponente massonico, G. Francocci – il più piccolo fatto d’armi del Risorgimento; certamente il più grande avvenimento della civiltà umana. Risorgimento: opera della Massoneria! XX settembre: gloria della Massoneria!» (cit. in R. F. ESPOSITO, op. cit., p. 93).
(24) Per una esatta interpretazione delle disavventure della Civiltà Cattolica nel regno di Napoli, «accusata di indifferentismo politico dalla censura borbonica», sarà utile attingere, più che alla storiografia contemporanea (GABRIELE DE ROSA, Introduzione a Civiltà Cattolica 1850-1945, Luciano Landi editore, Firenze 1973, vol. I, pp. 33 e ss.), alla più autorevole storiografia contro-rivoluzionaria. Dell’episodio si interessa infatti, abbondantemente, lo storico borbonico GIACINTO DE’ SIVO, nella sua Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Arturo Berisio, Napoli 1964, 2 voll. (Ristampa della edizione di Trieste (Napoli) del 1868). «Sendo scritta per tutta Italia, dov’erano sette stati di varii pensieri e forme, s’era nel programma accortamente dichiarato non parteggerebbe per forma speciale di governo, ne riverirebbe tutti i legittimi, solo prenderebbe a rialzare il principio d’autorità col pensiero cattolico, già molto scaduto dalle menti per idee sovversive e antisociali. Questa generalità di concetto non andò a sangue a chi avria voluto del giornale servirsi a strumento di governo […]. Era prescritto i libri s’approvassero dalla pubblica istruzione, i giornali della Polizia; la Civiltà era insieme, giornale e libro, perché anche numerato sino a pagina 720. I padri chiesero sottostare alla pubblica istruzione, siccome a censori più istrutti; e il presidente di quella monsignor D’Apuzzo così avvisava; ma la Polizia tenne duro, e volle censurar essa. Immagina un Pecchenedda vecchio massone, ex-leguleio, ex-chierico, ex-Murattino, censurare in nome del re Borbone gli scritti de’ Gesuiti! […] Tal fatto mostra come s’iniziasse da Massoni camuffati da Borboniani lo scalzamento della monarchia in nome del re, ch’avria dovuto tenere a utilità la libera parola nel reame di quelli ingegni sostenitori di morale e di diritto» (G. De’ Sivo, op. cit., vol. I, p. 372).
(25) Sul ventennio 1850-1870 in Europa, soprattutto per quanto riguarda la ricostruzione dell’azione settaria, oltre all’opera citata di Balan, si consulterà con profitto NICHOLAS DESCHAMPS, Les Sociètés Secrètes et la Socièté, ou philosophie contemporaine, 2ª edition entièrement refondue et continuée jusqu’aux événements actuels, avec une introduction sur l’action des Sociétés secrètes au XIX siècle, par Claude Jannet, Oudin, Parigi 1880, 3 voll. Per il ruolo specifico svolto dalla massoneria, indicazioni in R. F. ESPOSITO, op. cit. e ALDO ALESSANDRO MOLA, Storia della Massoneria italiana dall’Unità alla Repubblica, Bompiani, Milano 1976, significative espressioni dei due filoni della neoapologetica «cattolica» e della neoapologetica massonica. Oltre la figura di Cavour, «Gran Maestro in pectore del Grande Oriente Italiano» (MOLA, op. cit., p. 14). emergono in una luce sinistra quelle dei suoi collaboratori più stretti, quali Giuseppe La Farina e Costantino Nigra.
(26) Il 28 novembre 1854, il ministro guardasigilli Urbano Rattazzi presentò alla camera dei Deputati un disegno di legge che prevedeva la soppressione delle corporazioni religiose. Don Bosco, in seguito a un sogno, scrisse al re, ammonendolo che gravi lutti avrebbero funestato la corte, se la legge fosse stata approvata. In effetti, il 12 gennaio 1855, a 54 anni di età, moriva la madre del re, Maria Teresa; il 20 gennaio, a 33 anni, dopo aver dato alla luce una bambina, era la volta della moglie del sovrano, Maria Adelaide. La notte tra il 10 e l’11 febbraio moriva il fratello del re, Ferdinando di Savoia, duca di Genova. Il 17 maggio, infine, la corte, il parlamento e il popolo salivano nuovamente sul colle di Superga, per accompagnare la salma del figlio stesso del re, Vittorio Emanuele Leopoldo Maria Eugenio. Don Bosco aveva fatto inoltre pubblicare le maledizioni, scritte dagli antichi conti di Savoia, nelle carte di fondazione dell’abbazia di Altacomba, contro quei discendenti che avessero osato distruggerne o usurparne i beni, scrivendo a Vittorio Emanuele II: Dicit Dominus: erunt mala super mala in domo tua. Pur scosso da questi avvertimenti, il 29 maggio 1855, col consiglio di quattro consiglieri ecclesiastici, Vittorio Emanuele II promulgò la legge. Così furono colpiti 35 ordini religiosi e su 604 case con 8563 membri, ne vennero soppresse 334, con 5456 membri. Cfr. mons. CARLO SALOTTI, Don Bosco e Casa Savoia, in Il Beato Giovanni Bosco, Società Editrice Internazionale, Torino 1929, pp. 314-332.
(28) La letteratura sugli zuavi pontifici, soprattutto memorialistica, è abbondante. Tra le opere recenti segnaliamo G. CERBELAUD SALAGNAC, Les Zouaves pontificaux, France-Empire, Parigi 1963, con buona bibliografia. «I pontifici – ricorda uno storico di parte avversa – opposero una resistenza che non si credeva […] parecchi di quei crociati, di nobili famiglie legittimiste, seppero combattere e morire con coraggio», (RAFFAELE DE CESARE, Roma e lo Stato del Papa, dal ritorno di Pio IX al XX settembre, Forzani e C. Tipografi-Editori, Roma 1907, vol. II, pp. 74, 85). Prendendo le armi e combattendo eroicamente per il Papa-Re, i de Maistre, gli Charrette, i Cathélineau, suggellarono con i loro nomi una nuova pagina luminosa nella storia della Contro-Rivoluzione.
(29) Importanti spunti negli scritti di AUGUSTO DEL NOCE, in particolare Il ripensamento della storia italiana in Giacomo Noventa, saggio introduttivo a GIACOMO NOVENTA, Tre parole sulla Resistenza, Vallecchi, Firenze 1973.
(30) FRANCESCO DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, a cura di Niccolò Gallo, con introduzione di Natalino Sapegno, Utet, Tonno 1962, vol. I, p. 486.
(31) ANTONIO GRAMSCI, Il Risorgimento, Editori Riuniti, Roma 1975, p. 100.
(32) IDEM, Note sul Machiavelli, Editori Riuniti, Roma 1975, p. 95.
(33) Ibid., p. 99.
(34) Cfr. le dichiarazioni di Cavour alla Camera, del 25-27 marzo 1861, in Chiesa e Stato nella storia d’Italia. Storia documentaria dall’unità alla Repubblica, Laterza, Bari 1967, pp. 5-14.
(35) Cfr. Sillabo, ovvero sommario dei principali errori dell’età nostra che sono notati nelle allocuzioni concistoriali, encicliche ed altre lettere apostoliche del SS. Signor Nostro Pio Papa IX, nuova edizione italiana con testo a fronte, introduzione e appendice documentaria a cura di Gianni Vannoni, Cantagalli, Siena 1977, p. 105.
(36) «Quasi a voler imprimere un definitivo suggello al modo in cui si era costituito attraverso decenni di lotta, di speranze, di contrasti e di delusioni, lo Stato unitario italiano, l’operazione politico-diplomatica culminata, con scarso fasto militare, a Porta Pia, fu in un certo senso la ricapitolazione delle linee di sviluppo dell’intero Risorgimento […] Può essere anche considerato significativo che malgrado le speranze di moderati e democratici, di uomini di governo e di oppositori, l’ultimo capitolo del Risorgimento si chiuse al di fuori di qualsiasi movimento popolare, senza la partecipazione attiva dei più direttamente interessati: le tanto attese e sperate dimostrazioni delle popolazioni del territorio romano contro il dominio papale non si concretarono» (A. AQUARONE, op. cit., pp. 151-152).
(37) F. DE SANCTIS, op. cit., vol. II, p. 407.
(38) Cfr., tra l’altro, ANTONIO MONTI, Pio IX nel Risorgimento italiano, Laterza, Bari 1928, p. 197.
(39) Parafrasiamo il testo della enciclica da P. BALAN, op. cit., vol. II, pp. 1032-1035.
(40) Cfr. i Discorsi del Sommo Pontefice Pio IX pronunziati in Vaticano ai fedeli di Roma e dell’orbe dal principio della sua prigionia fino al presente, per la prima volta raccolti e pubblicati dal P. Don Pasquale De Franciscis, Tipografia di G. Aurelj, Roma 1872-1878, 4 voll.
(41) Il discorso sul Papa-Re non deve dare adito a pericolose confusioni. Premessa la necessaria distinzione tra il potere temporale del Papa e il suo potere in materia temporale (cfr. C. GLEZ, in Dictionnaire de Théologie catholique, Letouzey et Ané, Parigi 1909-1950, vol. XII, coll. 2670-2772), va osservato che le radici del principato civile non possono e non devono essere ricercate in un ipotetico diritto divino che fondi la «regalità sacra» del pontefice allo stesso modo di quella dei sovrani temporali. Il potere temporale non può essere per il vicario di Cristo un fine, in sé, come per i principi civili, ma solo un mezzo per assicurare la suprema giurisdizione spirituale. Così gli autori contro-rivoluzionari (cfr., tra gli altri, JUAN DONOSO CORTÉS in Obras completas, Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 1970, II vol., pp. II, 321 e II, 348; più esaurientemente D. P. BENOIT, La Cité antichrétienne au XIX siècle, Société générale de librairie catholique, Parigi 1885, I vol., pp. 274-283; II vol., pp. 536-563), e gli stessi pontefici, anche successivi a Pio IX. Né si comprende il significato di un ipotetico processo di «spiritualizzazione» della «Monarchia romana» dopo Pio IX, dal momento che i successori ne continuarono il magistero sul «potere temporale». Ciascuno di essi, al momento della propria intronizzazione, rinnovò solennemente la protesta, dichiarando insufficienti, illusorie e precarie le garanzie offerte dalla cosiddetta «legge delle Guarentigie» del 13 maggio 1871. Questo avvenne in modo particolare per Leone XIII, che dal 1878 al 1889 protestò ufficialmente fino a sessantadue volte contro la privazione del suo «principato civile». Basti qui ricordare la famosa lettera del 15 giugno 1887 al cardinale Rampolla, in cui il pontefice rinnovò con ampiezza dottrinale la rivendicazione di una «sovranità effettiva». Alla vigilia della morte il Papa rimise infine a monsignor Angeli un plico contenente un documento da leggere in conclave in cui si denunciavano tutti i tentativi fatti per spingerlo ad accettare un accomodamento (cfr. C. GLEZ, voce cit., coll. 2693-94).
(42) P. BALAN, op. cit., vol. III, p. 868.
(43) Fin dal 1897, Leone XIII autorizzò l’apertura della causa di beatificazione del servo di Dio Pio IX.
(44) Il magistero dottrinale di Pio IX ha la sua prima magnifica espressione nella enciclica Qui pluribus del 9 novembre 1846, in cui è tra l’altro condannata per la prima volta «quella dottrina funesta e più che mai contraria ai diritto naturale che chiamiamo comunismo, una volta ammessa la quale si abbatterebbero completamente i diritti, i patrimoni, le proprietà e persino la società umana». Cfr. la versione italiana, in appendice al Sillabo, cit., p. 145.
(45) Anche il cardinale Pietro Palazzini ha recentemente osservato che il pontificato di Pio IX, «nella sua visione essenzialmente religiosa prende significato, direzione e valore da tre grandi gesti papali: Definizione dell’Immacolata, Concilio Vaticano I, e Syllabo, argomento ancor oggi di molteplici discussioni. Di fronte allo spirito del secolo i tre atti, che si richiamano l’un l’altro, attestano la coerente presenza, la continuità non smentita dell’atteggiamento di Pio IX in tutto l’arco del suo arduo pontificato» (L’Osservatore romano, 8-11-1978, p. 6).