Mons. Antonio de Castro Mayer, Cristianità n. 38-39 (1978)
“Venga il tuo regno!”
LA REGALITÀ DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO
IV
LA VERA DOTTRINA DELLA CHIESA IN QUESTA MATERIA
In effetti, la Chiesa non ha mai accettato che lo Stato, per principio, debba essere laico, cioè neutrale in materia religiosa. Lo si può constatare facilmente, percorrendo la storia della Chiesa dalla fine del Medioevo.
Infatti, quanto affermiamo è contenuto nella definizione di Bonifacio VIII, Papa dal 1294 al 1303, secondo cui è necessario per la salvezza che ogni creatura si sottometta al Romano Pontefice (1). Lo si ritrova, ancora di più, nella ininterrotta condanna dell’indifferentismo religioso, indicato come la causa dell’apostasia delle nazioni. Difatti, l’indifferentismo religioso è unito da un vincolo necessario con la proposizione secondo cui lo Stato deve essere, per principio, laico. Ora, questa conseguenza logica dell’ateismo ufficiale consacrato nello Stato laico, costituita dall’indifferentismo religioso, i Sommi Pontefici la denunciano, specialmente a partire dalla Rivoluzione francese, come l’ostacolo maggiore alla piena realizzazione del regno di nostro Signore Gesù Cristo.
DA PIO VI A GREGORIO XVI
Pio VI, nella sua prima enciclica Inscrutabile divinae sapientiae consilium, del Natale 1775; Leone XII, nella enciclica Ubi primum, del 5 maggio 1824; Pio VIII, Papa dal 1829 al 1830, nella Traditi, unica sua enciclica, scritta all’inizio del suo pontificato di soli 20 mesi – tutti nella veste di vicario di Cristo sulla terra, mossi dallo zelo per la gloria di Dio e la salvezza delle anime, angustiati – additano all’unanimità nell’indifferentismo religioso la causa dei mali che affliggono la società e impediscono l’azione della Chiesa.
Pio VII, che governò la Chiesa nel periodo difficilissimo della egemonia napoleonica (1800-1823), non smise di condannare l’uguaglianza dei culti desiderata da Bonaparte: «Sotto l’uguale protezione di tutti i culti – avvertiva il Papa – si nasconde e si occulta la più pericolosa persecuzione, la più insidiosa che sia possibile immaginare contro la Chiesa di Gesù Cristo e, disgraziatamente, la meglio organizzata per disseminare in essa la confusione e addirittura per distruggerla, se fosse possibile che le forze e le astuzie dell’inferno prevalessero contro di essa». Con la restaurazione dei Borboni, Pio VII lamentò una posizione analoga presa dalla Costituzione di Luigi XVIII, essa pure favorevole alla libertà di tutti i culti.
Gregorio XVI aveva già dovuto condannare questo «delirio» – come chiama l’indifferentismo religioso e la libertà di tutti i culti all’interno della Chiesa -, poiché lo stesso era professato, come abbiamo visto, da ecclesiastici e da laici influenti, ed essi, con straordinaria cecità, non dubitavano di presentarlo come misura grandemente vantaggiosa per la causa della religione (2).
L’ENCICLICA «QUANTA CURA» E IL «SILLABO»
Nonostante tali autorevoli chiarimenti e condanne, amati figli, la valanga delle idee nuove si ingigantì, e crebbero le minacce contro «la causa della Chiesa cattolica, la salute delle anime […] e lo stesso bene della società civile». Per questo Pio IX riprende la tradizione magisteriale dei suoi predecessori, per condannare di nuovo e ripetutamente tali fuorviamenti della mente umana con «parecchie encicliche e allocuzioni pronunziate in Concistoro, e con altre lettere apostoliche». Nel frattempo, l’importanza della materia, per la missione della Chiesa, era tanto grande che il Papa ritenne doveroso, per il suo munus di vicario di Cristo, emettere un documento speciale e più solenne del Magistero pontificio, in cui risultasse lampante l’opposizione radicale tra le nuove concezioni naturalistiche dello Stato, della cultura e della civiltà, e la dottrina cattolica.
Pertanto ordinò che si componesse un elenco riassuntivo di tutti questi errori, in proposizioni che li esprimessero in modo inequivocabile e al tempo stesso mostrassero il nesso logico tra di essi esistente. È l’atto del Magistero papale conosciuto col nome di Sillabo, e che Pio IX indirizzò ai vescovi del mondo intero con l’enciclica Quanta cura, dell’8-12-1864.
In esso il Pontefice proscrive la tesi del laicismo di Stato, in quanto impedisce l’azione che, per divino mandato, la Chiesa ha il compito di realizzare. «Le quali false e perverse opinioni – scrive Pio IX –, sono tanto più detestabili, in quanto mirano specialmente a impedire e distruggere quella forza salutare che la Chiesa Cattolica, secondo l’istituzione e la missione del suo divino Autore, deve liberamente esercitare fino alla consumazione dei secoli, non meno verso gli uomini singoli, che verso le nazioni, i popoli, i loro sovrani, e a distruggere quella vicendevole società e concordia di intenti tra il sacerdozio e l’impero, che fu sempre tanto felice e vantaggiosa alla Chiesa e allo Stato» (3).
Di conseguenza Pio IX qualifica come empietà temeraria l’impegno di quanti, in accordo con l’empio e assurdo principio del naturalismo, insegnano che «“una migliore costituzione dello Stato ed il progresso civile esigono assolutamente che la società umana sia costituita e governata senza alcun riguardo alla religione, come se non esistesse, o almeno senza fare alcuna differenza fra la vera e le false religioni”. E – continua il Papa – “contro la dottrina delle Scritture, della Chiesa e dei Santi Padri non dubitano di asserire: “La migliore condizione della società è quella, in cui non si riconosce nello Stato il dovere di reprimere con pene stabilite i violatori della religione cattolica, se non in quanto ciò richiede la pubblica quiete”» (4).
LA TRADIZIONE IN LEONE XIII
Nonostante tutta la vigilanza di Pio IX, amati figli, le idee nuove continuarono a diffondersi e a mettere a repentaglio l’esistenza della Chiesa, in quanto società di diritto pubblico, che realizza sulla terra il regno di Dio, avendo di mira la salvezza eterna degli uomini. Fu perciò necessario al successore di Pio IX riaffermare l’insegnamento cattolico contro il naturalismo e il laicismo dello Stato, che scalzavano l’edificio del regno sociale di nostro Signore Gesù Cristo.
Leone XIII colpì il male alla radice, denunciando il principio fondamentale su cui si basa lo Stato laico, indifferente in materia spirituale, interamente autonomo di fronte a qualsiasi confessione religiosa, ossia il principio secondo cui il potere deriva dal popolo.
«Non v’è potestà se non da Dio», insegna lo Spirito Santo per bocca dell’Apostolo (5). «Ogni potere viene dal popolo», sentenzia la Rivoluzione, il diritto nuovo. Questo contrappone Dio e l’uomo come due persone totalmente estranee, l’una autonoma nei confronti dell’altra. Nell’uomo, nella volontà libera, sovrana, afferma il diritto nuovo, lo Stato affonda le sue radici, come nella sua fonte prima, cosicché la società politica non accetta superiore alcuno che non sia il popolo, la cui volontà si conosce attraverso il suffragio universale.
In ciò Leone XIII addita la causa della apostasia sociale. Infatti tale principio giustificherebbe uno Stato agnostico e addirittura ateo, molto accondiscendente, se sarà neutro in questioni religiose.
D’altra parte, in questo principio si consuma la ribellione della creatura, poiché è l’espressione sociale del grido satanico «non serviam», «non servirò»; come è, inoltre, l’espressione dell’empio ideale suggerito dall’angelo delle tenebre ai nostri progenitori: «sarete come dei, sapendo il bene ed il male» (6).
Ecco perché, allo scopo di tagliare il male alla radice, Leone XIII, nella enciclica Diuturnum illud, del 29 giugno 1881, tratta ampiamente dell’origine dell’autorità politica, per esporre con esattezza la dottrina della fede, corroborata dalla ragione e frontalmente contraria all’insegnamento del diritto nuovo, e la cui accettazione è indispensabile alla Chiesa per la pienezza della sua missione sulla terra. Ricorda così il Pontefice, basandosi su san Paolo (7) e su san Pietro (8), che ogni potere viene da Dio. Pertanto, chi resiste all’autorità, resiste a un ordine divino, il che potrebbe comportare la sua condanna; infatti, coloro che governano, lo fanno come ministri di Dio.
Questo principio primo del civile ordinamento della società comporta le due conseguenze indispensabili affinché nello Stato si costituisca pubblicamente il regno di Dio. Le autorità civili non possono fare nulla che vada contro la legge del Signore. Infatti, se governano come mandatari di Dio, il loro potere è delimitato dai decreti di Colui, per volontà del quale esercitano il potere. In secondo luogo, in virtù del medesimo principio fondamentale, fra gli obblighi più importanti della pubblica autorità, vi è quello di prestare un culto ufficiale a Dio, suo sovrano Signore. E non un culto qualsiasi, ma il culto desiderato da Dio, ossia il culto vero, quello che gli viene tributato dalla Chiesa cattolica. «A nessuno è lecito – nota il Papa – passarsi dei propri doveri verso Dio […]; così gli Stati non possono, senza empietà, condursi come se Dio non fosse, o passarsi della religione come di cosa estranea e di nessuna importanza, e adottarne indifferentemente una fra le molte: avendo invece l’obbligo di onorare Iddio in quella forma ed in quel modo che Egli stesso mostrò di volere» (9).
Quindi, la dottrina sull’origine divina del pubblico potere si svolge logicamente nelle due concernenti l’atteggiamento religioso dello Stato: quella dell’armonia tra la società religiosa e quella civile, tra la Chiesa e lo Stato, e quella della subordinazione di quest’ultimo a quella negli affari religiosi, spirituali. Come vedete, amati figli, siamo nel solco della medesima dottrina dei primi secoli della Chiesa, applicando il principio di san Vincenzo di Lerino, canonizzato dal Concilio Vaticano I: «Nella Chiesa cattolica si deve avere il massimo impegno nel professare ciò che in ogni luogo, sempre e da tutti è stato creduto» (10).
In un’epoca in cui si accentuava l’apostasia delle nazioni, un tema di così grande importanza, richiedeva una attenzione speciale da parte della Santa Sede. Leone XIII corrispose alla aspettativa dei fedeli attraverso varie encicliche, specialmente la Immortale Dei, del 1º novembre 1885, sulla costituzione cristiana degli Stati.
Ancora oggi, amati figli, la lettura di questi documenti del Magistero papale è di grande opportunità.
LA TOLLERANZA DEL MALE
Nell’insegnamento politico di Leone XIII, la dottrina tradizionale sui due poteri, quello spirituale e quello temporale, la Chiesa e lo Stato, è presentata sotto la forma di una esposizione sistematica e chiara, che dissipa qualsiasi dubbio in proposito. È naturale che a esso si richiamino i Papi posteriori. Così san Pio X, nella enciclica Vehementer, dell’11 febbraio 1906, sulla rottura delle relazioni diplomatiche con la Santa Sede da parte del governo francese, come pure nella lettera apostolica Notre charge apostolique, del 25 agosto 1910, sugli errori del già citato movimento Sillon; Benedetto XV, nella sua prima enciclica Ad beatissimi, del 1º novembre 1914; Pio XI, in diversi documenti, ma specialmente in quello che all’inizio abbiamo richiamato, sulla regalità di Gesù Cristo, in cui lancia un appello ai fedeli affinché si uniscano per debellare la «peste della età nostra […] il così detto “laicismo”»: Pio XII, nella sua prima enciclica Summi Pontificatus, del 20 ottobre 1939, riprende l’argomento dell’enciclica Quas primas di Pio XI, dell’11 dicembre 1925, allo scopo di inculcare di nuovo in modo insistente, la regalità sociale di nostro Signore Gesù Cristo.
D’altra parte Pio XII, durante il suo lungo pontificato, affrontò in varie occasioni questo argomento. Così, nel discorso ai partecipanti al V Convegno Nazionale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, del 6-12-1953, fissa lo stesso principio, già stabilito da Leone XIII: «Ciò che non risponde alla verità e alla norma morale non ha oggettivamente alcun diritto né all’esistenza, né alla propaganda, né all’azione» (11). L’uomo, infatti, è stato creato per la verità e per il bene. E nello sforzo per giungere alla conoscenza della verità e alla pratica del bene, gode, in virtù della sua natura sociale, del diritto di essere aiutato dall’ambiente creato nella società a opera dello Stato. Ora, uno Stato che, per principio, permettesse o favorisse la professione e la pratica pubblica di religioni false o di principi contrari alla norma della moralità, renderebbe di fatto più difficile di quanto non aiuterebbe, la pienezza della vita razionale dei suoi membri. D’altronde, questa è la ragione invocata da Pio XII per giustificare la sua intolleranza dottrinale: «È contro natura di obbligare lo spirito e la volontà dell’uomo all’errore ed al male o a considerare l’uno e l’altro come indifferenti. Neppure Dio potrebbe dare un tale positivo mandato o una tale positiva autorizzazione, perché in contraddizione con la Sua assoluta veridicità e santità» (12). Di per sé, pertanto, lo Stato ha l’obbligo grave di favorire la vera religione e di reprimere i culti falsi.
Tuttavia, l’applicazione di questo principio dev’essere sfumata. In altre parole, rientra nei disegni della Provvidenza che il potere pubblico ponderi bene la situazione di fatto del popolo, o della federazione di popoli, in materia religiosa; e che, come le circostanze lo richiedano, tolleri o meno, a fianco della vera religione, culti falsi o superstiziosi. Ma non potrà mai approvare, positivamente, l’esistenza e la propaganda di tali culti. Ciò nonostante, le condizioni reali in cui si trova la società possono essere tali che un atto legislativo, che permette l’esistenza e addirittura la propaganda di determinate credenze false, costituisca un’azione dal duplice effetto: quello cattivo, che è la pubblica permissione della superstizione; e quello buono, che è la pacificazione dei conflitti che renderebbero impossibile la vita in comune, o altri simili beni. Infatti, in queste circostanze concrete, lo Stato può tollerare l’esistenza e la pratica delle false religioni, purché lo esiga il bene comune, che è la norma regolatrice dei diritti e dei doveri dello Stato.
SITUAZIONE ANORMALE
Come Leone XIII, anche Pio XII lascia intendere molto chiaramente che tale situazione, per ciò che si riferisce alle relazioni tra lo Stato, la religione e il culto divino, non è quella ideale. Mai e in nessun modo accettano la tesi dello Stato laico, fondata sulla finalità propria della società civile, finalità che sarebbe unicamente temporale. Tuttavia sono portati a giustificare la tolleranza del male, che è la neutralità religiosa dello Stato, dal momento in cui e soltanto quando una imperativa esigenza sociale la renda imprescindibile. La tolleranza, nell’ordine pratico, trova la sua garanzia nel modo stesso di agire di Dio nostro Signore, il quale desidera che l’uomo giunga alla fede attraverso una libera determinazione della sua volontà. Questo modo di agire viene illustrato nella parabola evangelica della zizzania seminata dall’uomo nemico nel campo in cui il padre di famiglia ha piantato il grano. Nonostante la esistenza della zizzania sia un male, il Signore, tuttavia, permette che cresca in mezzo al grano, in quanto il bene costituito dal suo sradicamento potrebbe ridondare in un male maggiore, oppure impedire qualche bene eccellente. Nella parabola, è il pericolo di perdere anche il grano.
San Tommaso d’Aquino illustra come l’autorità civile possa tollerare alcuni mali nella società. «Il regime umano – insegna il Dottore Angelico – deriva dal governo divino e deve imitarlo. Accade che Dio, benché sia onnipotente e sommamente buono, permetta, ciò nonostante, che si verifichino certi mali nell’universo (che Egli potrebbe impedire), affinché non vadano perduti beni maggiori con l’assenza di quei mali, oppure non capitino mali ancora più grandi. Così, nel governo delle cose umane i governanti possono lecitamente tollerare qualche male, affinché non si impediscano certi beni, oppure anche perché non capitino cose peggiori» (13).
Tuttavia, è necessario non dimenticare che la tolleranza riguarda soltanto le cose cattive (14). Perciò non è mai un bene in sé e non può, di conseguenza, arrogarsi diritti.
LA FEDE DEVE ESSERE LIBERA
Infatti, chiunque, basandosi sulla libertà che deve caratterizzare l’atto di fede, deducesse il diritto dell’uomo alla libertà di professare pubblicamente la religione che meglio gli piaccia, o anche una religione falsa, perché è convinto trattarsi di quella vera, andrebbe contro tutta la dottrina tradizionale della Chiesa. Questo la Tradizione apostolica non lo ha mai insegnato. E non si può, amati figli, invocare la parabola della zizzania e del grano (15) a sostegno di qualche pseudo-diritto dell’uomo a professare religioni false, perché non esiste nell’insegnamento tradizionale una interpretazione di questa parabola in tale senso. Sant’Agostino, che per qualche tempo si mostrò favorevole a compromessi con gli eretici, non indugiò ad ammettere che è giusto siano repressi. San Giovanni Crisostomo giudica corretta ogni repressione dell’attività pubblica degli eretici, escludendo soltanto la pena capitale. Anche san Tommaso d’Aquino trova naturale impedire l’attività religiosa degli eretici.
Infatti, quando si dice che la fede dev’essere accettata con un libero atto della volontà, non s’intende assolutamente attribuire diritto di cittadinanza all’errore. Poiché nell’adesione all’errore o al male non vi è alcuna perfezione, sia dell’intelligenza che della volontà. Vi è una deficienza. Di conseguenza l’uomo, in quanto essere razionale, ha il diritto di aderire liberamente alla verità rivelata e di praticare liberamente la virtù. Non gli spetta il diritto di deformare la sua intelligenza con l’accettazione dell’errore, o la sua volontà con la pratica del vizio. Nostro Signore stesso afferma che colui che pecca non è libero, ma schiavo del peccato. San Tommaso d’Aquino spiega: «La condizione di schiavo si dà quando una persona agisce non secondo la sua natura, ma sotto la pressione di un altro. Ora, l’uomo è di sua natura razionale. Dunque, quando agisce secondo la ragione, si comporta secondo la sua natura, guidato da un impulso che gli è proprio: in questo consiste la libertà. Quando invece pecca, si comporta in modo contrario alla ragione ed è come se fosse mosso da un altro. Ecco perché chi pecca è schiavo del peccato» (16).
Se lo Stato non avesse l’obbligo di proteggere in modo esclusivo la vera religione, verrebbe sostanzialmente meno alla sua finalità. Come risulta evidente, essa consiste nel procurare ai cittadini i mezzi con i quali possano giungere a una conveniente perfezione della vita sulla terra, subordinata però al suo fine ultimo, che si raggiunge soltanto con la professione e la pratica della vera religione. Per questo, Pio XII insegna che nemmeno Dio può conferire allo Stato il diritto di essere, a suo arbitrio, indifferente in materia religiosa. In sintesi, la tolleranza è sempre un male, che può essere accettato in circostanze concrete, purché lo esiga il perseguimento di un bene necessario superiore. anche se sia soltanto l’allontanamento di una condizione, che renda impossibile o nociva la convivenza in società.
Con molto zelo, Gregorio XVI definisce «assurda ed erronea sentenza», meglio «delirio», la libertà di coscienza che permette a chiunque di praticare pubblicamente la sua religione (17).
Si chiede sant’Agostino: «Qual può darsi morte peggiore dell’anima che la libertà dell’errore?» (18).
L’orgoglio e la sensualità sono riusciti a impregnare la mentalità contemporanea di uno spirito di ribellione, che tenta di scuotere qualsiasi giogo imposto dalla fede e della morale; ma non per questo dobbiamo negare la verità insegnata dalla retta ragione e dal Magistero ecclesiastico in ininterrotta successione.
LIBERTÀ E RESPONSABILITÀ NELL’ATTO DI FEDE
Chiudiamo questo capitolo, amati figli, con un’ultima considerazione, che sottolinea la sapienza con cui agisce la misericordia di Dio e, conseguentemente, la sua Chiesa.
Dio nostro Signore vuole che l’atto di fede, con il quale l’uomo entra nel regno di Cristo, sia libero e meritorio. Perciò concede a tutti gli uomini la grazia necessaria, senza la quale sarebbe impossibile l’atto soprannaturale della fede, meritevole della vita eterna.
In vista della sua benevolenza, della sua grazia, che non nega a nessuno, nostro Signore rende obbligatorio per la salvezza l’atto di fede.
Tuttavia, nella sua infinita misericordia, sopporta su questa terra il peccatore, perché non muoia eternamente, ma si converta e viva (19).
Costituisce un corollario di queste verità della religione cattolica l’impossibilità di imporre all’uomo, nel foro interno della coscienza, l’atto di fede. L’infedeltà può essere peccato, e peccato grave. Tuttavia, non è lecito forzare la volontà dell’uomo a non commetterlo. All’individuo tocca, con l’aiuto della grazia, allontanare da sé, liberamente e con orrore, l’empietà gravissima di non prestare ascolto alla Rivelazione divina. Di conseguenza, nessun potere umano può forzare la persona ad aderire alla vera fede. L’uso della violenza per obbligare alla conversione è sempre stato condannato dalla Chiesa.
Quindi il Magistero prevede la possibilità che qualcuno si trovi temporaneamente o eccezionalmente nella ignoranza invincibile della vera religione. Tale individuo merita rispetto e comprensione, dal momento che la sua incredulità è soltanto materiale. Egli non ha deformato la sua volontà, vincolandola responsabilmente al male. Tale inganno, però, non gli dà diritto a professare il suo errore, dal momento che, oggettivamente, è nell’errore, e l’errore «non ha oggettivamente alcun diritto né all’esistenza, né alla propaganda, né all’azione» (20).
Ricordiamo con voi, amati figli, la dottrina cattolica sulla regalità di Gesù Cristo qui sulla terra, perché il laicismo dei tempi moderni la fa dimenticare nella mente dei fedeli, e senza una solida convinzione di quanto dobbiamo credere, il nostro apostolato perde l’ardore indispensabile perché sia efficace. La debolezza dell’amore alla verità da parte dei buoni è in gran parte responsabile del progresso della apostasia nella società odierna.
Il principio che abbiamo enunciato, amati figli, è valido anche se la nostra azione apostolica si restringe all’ambiente in cui viviamo e al campo che ci è concesso toccare: infatti, è sempre la stessa dottrina che rende fecondo tutto l’apostolato, dal piano più modesto a quello più ampio e più profondo.
NOTE
(1) Cfr. BONIFACIO VIII, Bolla Unam sanctam, del 18-11-1302.
(2) Cfr. GREGORIO XVI, Enciclica Mirari vos, del 15-8-1832.
(3) PIO IX, Enciclica Quanta cura, dell’8-12-1864.
(4) Ibidem.
(5) Rom. 13, 1.
(6) Gen. 3, 5.
(7) Rom. 13, 1.
(8) 1 Pt. 2, 13-15.
(9) LEONE XIII, Enciclica Immortale Dei, cit.
(10) SAN VINCENZO DI LERINO, Commonitorium, 2, 5, in KIRCH, Enchiridion fontium historiae ecclesiasticae antiquae, 742.
(11) PIO XII, Discorso ai partecipanti al V Convegno Nazionale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, del 6-12-1953.
(12) Ibidem.
(13) SAN TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, IIª IIæ, q. 10, a. 11.
(14) Cfr. SANT’AGOSTINO, En. In Psal. I, 20.
(15) Cfr. Mt. 13, 24-30.
(16) SAN TOMMASO D’AQUINO, Commento al Vangelo di san Giovanni, 1. IV, c. VIII; cfr. anche LEONE XIII, Enciclica Libertas praestantissimum, del 20-6-1888.
(17) GREGORIO XVI, Enciclica Mirari vos, cit.
(18) SANT’AGOSTINO, Epist. 166.
(19) Ez. 33, 11.
(20) PIO XII, Discorsi ai partecipanti al V Convegno Nazionale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, cit.