Baltasar Pérez Argos S.J., Cristianità n. 218-219 (1993)
In una cerimonia svoltasi in occasione delle celebrazioni per il V centenario della scoperta dell’America, a Santo Domingo, indicato dal Santo Padre come «modello di evangelizzatore» per la nuova evangelizzazione.
Fra’ Ezequiel Moreno santo e segno di fronte al liberalismo dominante
L’11 ottobre 1992, nell’isola di Santo Domingo, Papa Giovanni Paolo II, davanti a tutto l’episcopato latinoamericano e a numerosissimi fedeli, in occasione di una cerimonia di grandissima solennità e di profondissimo significato, la commemorazione del V Centenario della Scoperta dell’America, ha canonizzato fra’ Ezequiel Moreno. Proprio nell’isola La Española, dove pose piede per primo Cristoforo Colombo e piantò per la prima volta la Croce salvatrice di Cristo, e dove venne celebrato per la prima volta il santo Sacrificio della Messa sul continente americano. La canonizzazione di questo frate spagnolo, missionario nelle Filippine e in Colombia, appartenente a uno dei grandi ordini religiosi che portarono la luce del Vangelo dalla penisola iberica al Nuovo Mondo, insieme a francescani, a domenicani e a gesuiti, ha un significato assolutamente simbolico, un significato indubbiamente cercato e voluto dal Santo Padre, in un momento così cruciale come quello che sta vivendo la Chiesa ispanoamericana. Con questa cerimonia Papa Giovanni Paolo II ha aperto la IV Conferenza dell’episcopato ispanoamericano, riunito per studiare e per pianificare l’evangelizzazione del continente attualmente tanto sconvolto dal punto di vista sociale, politico e religioso. Assolutamente simbolica la canonizzazione di fra’ Ezequiel Moreno, un umile fraticello agostiniano recolletto, giunto per sua virtù e dedizione a essere vescovo di Pasto, in Colombia.
Com’è noto, la canonizzazione di un santo è atto del Magistero infallibile dei Papi, con il quale essi affermano solennemente, infallibilmente, che il santo, nel nostro caso fra’ Ezequiel Moreno, ha imitato eroicamente nostro Signore Gesù Cristo e quindi è degno di essere imitato da tutti i fedeli cattolici. Il suo spirito costituisce un esempio per tutti e porta indubbiamente tutti a Cristo. Questa è la differenza dalla semplice beatificazione. La canonizzazione è un atto infallibile e propone l’imitazione e il culto del santo a tutta la Chiesa; invece la beatificazione non è un atto infallibile, dà soltanto una certezza morale e non propone il beato all’imitazione e al culto di tutta la Chiesa. Per questo momento solenne e così rilevante per la storia della Chiesa ispanoamericana il Santo Padre avrebbe potuto scegliere un altro servo di Dio o beato, per proporre un modello da imitare per la nuova evangelizzazione. Ma la divina Provvidenza ha voluto e il Santo Padre è stato liberamente favorevole alla canonizzazione di questo umile frate, che potrà forse costituire un modello decisamente adeguato al momento, mentre impera il laicismo e le modalità secolarizzanti si fanno strada con sempre maggior forza nella pastorale dei nostri giorni. La canonizzazione dei santi comporta sempre un messaggio alla Chiesa, un messaggio indubbiamente voluto dalla divina Provvidenza e anche dal Santo Padre. Quale può essere, o è, questo messaggio particolare che ci porta, come segno dei tempi, sant’Ezequiel Moreno?
I. La vita
Fra’ Ezequiel Moreno nasce ad Alfaro, nella regione settentrionale spagnola di La Rioja, il 9 aprile 1848. Si tratta di un anno importante nella storia dell’Europa e della Chiesa. Ci ricorda il manifesto comunista di Karl Marx e il dispiegarsi, nel corso di tutto il secolo XIX, di tanta sovversione, di tanti sommovimenti sociali, politici e religiosi; sommovimenti che venivano producendo ovunque le idee e i princìpi della Rivoluzione francese, soprattutto in Spagna, che patisce l’invasione napoleonica e poi quattro guerre carliste; il tutto nato dalla radice velenosa di quanto fu noto e denominato dai Sommi Pontefici come liberalismo.
Ezequiel Moreno entra nell’Ordine degli Agostiniani Recolletti, nel convento di Monteagudo, in Navarra. Fa la professione religiosa il 22 settembre 1865. Aveva solo diciotto anni. Cinque anni dopo, il 10 febbraio 1870, è destinato alla missione dei padri agostiniani recolletti nelle Filippine, dove inizia un’intensa attività missionaria di oltre quindici anni. La sua giovinezza e, soprattutto, il suo fervore religioso lo spingono in luoghi molto diversi e a distanze enormi a seminare ovunque la parola di Dio, sostenendo i cattolici e convertendo gli infedeli. Il suo lavoro e la sua dedizione sono enormi. Basti questo dato: durante il colera del 1882, di 3.200 persone adulte morte nel corso dell’epidemia, soltanto tre morirono senza confessione. Si tratta di qualcosa che sembra miracoloso. Il suo ascendente di santo religioso è tale che, nel Capitolo Provinciale dell’Ordine, nel 1885, viene eletto Rettore del convento di Monteagudo, incarico di grande responsabilità, perché doveva curare la formazione dei religiosi. Di nuovo risplendono la sua santità, il suo zelo apostolico e la sua integrità di religioso eccellente nel governo, nella direzione delle anime e nell’edificazione dei suoi e dei terzi.
L’Ordine degli Agostiniani Recolletti, dai primi albori della scoperta, aveva sempre svolto un gran lavoro missionario in America. In quegli anni la Santa Sede aveva affidato a esso un vasto campo di missione in Colombia. In uno scritto privato fra’ Ezequiel dice: «Da tempo mi sembra che il Signore mi chiami a questa missione. Possono contare su di me». Infatti, arriva in Colombia il 2 gennaio 1889 alla testa di un gruppo di religiosi agostiniani recolletti. Inizia l’ultima e decisiva tappa della sua vita. Anzitutto gli viene affidato il governo del suo Ordine, allora bisognoso di un autentico rinnovamento spirituale e religioso. Nessuno migliore di lui. Solamente un superiore con la sua santità, il suo temperamento, la sua modestia e la sua mansuetudine poteva guidare a buon porto la nave della vita conventuale. E vi riuscì. Realizza il rinnovamento in mezzo a innumerevoli difficoltà, come si può immaginare: critiche, calunnie, malintesi. Ma supera tutto con l’umiltà, la mansuetudine e la chiaroveggenza spirituale. La sua santità e le sue doti di governo risplendono al punto che viene promosso all’episcopato. In primo luogo, per otto anni, regge il vicariato apostolico di Los Llanos de Casanare, poi è nominato vescovo di Pasto, in Colombia. Viene consacrato vescovo il 1° maggio 1894. «Come può arrivare a essere vescovo — si chiedeva — un povero frate come me…». La risposta se la dava da solo scrivendo, nella prima lettera pastorale, il giorno della consacrazione: «E questo come? Con quali mezzi? Chi mi aiuterà? Cuore divino del mio Gesù, in Te mi riparo! Tu sei tutta la mia speranza e Tu sarai il mio aiuto, il mio tesoro, la mia sapienza, la mia forza e il mio rifugio: Fortitudo mea et refugium meum es Tu. Ecco le parole che circonderanno l’immagine del Sacro Cuore di Gesù, che dichiariamo sarà sigillo del nostro ufficio. Esse ci ricorderanno continuamente che, diffidando di noi stessi, abbiamo affidato tutto al Cuore divino…».
Quando fece il suo ingresso nella capitale del vicariato, il suo primo atto pubblico fu la solenne consacrazione di Casanare al Cuore di Gesù. Lo stesso fece quando prese possesso della diocesi di Pasto. Consacrò la diocesi e rinnovò tutti gli anni la consacrazione al Cuore di Gesù. Indubbiamente fu il segreto della sua spiritualità, della sua forza d’animo, veramente eroica, nella lotta che dovette sostenere contro un liberalismo feroce che lo incalzava. Compose questa preghiera, che recitava continuamente e che trascriviamo per la sua profonda spiritualità: «Gesù mio, confidando nella vostra grazia vi chiedo umilmente di mandarmi dolori, malattie, povertà, disgrazie, amarezze, angustie, desolazioni, quanto vorrete. Voglio essere, Amor mio, la vostra vittima! Fate di me ciò che vorrete nel tempo e nell’eternità, in modo che si salvino anime, vi dia qualche gloria e procuri qualche consolazione al vostro amantissimo Cuore».
Fra’ Ezequiel prese con molta serietà la missione di pastore di anime, tanto seriamente che neppure quanti gli erano più vicini giunsero a capirlo. Accetta e vive con umiltà e con pazienza veramente eroiche questa incomprensione quasi fino alla fine dei suoi giorni. L’errore liberale produceva grandi danni fra i suoi fedeli. E lui, il vescovo di suo così dolce e così mansueto, si vede costretto, obbligato a lottare in difesa della verità. E questa intransigenza non veniva compresa: «Perché sono Vescovo? Se vedo che i lupi mi rapiscono le anime che Dio mi ha affidato, non devo gridare…? Non devo lottare…? Perché sono Pastore…? Mi ripugna combattere, mi ripugna combattere quando posso cedere senza mancare alla mia coscienza. Lotto solamente quando mi obbliga un dovere di giustizia e di carità».
Dopo nove anni alla guida della diocesi di Pasto, viene fatto ritornare in Spagna malato di cancro, per essere curato meglio. Egli opponeva resistenza. Il 19 agosto 1906, dopo aver sofferto intensi dolori nell’ultimo anno di vita, morì santamente a Monteagudo, dove aveva fatto il noviziato. Oggi la sua luce brilla su tutto il continente americano e su tutta la Chiesa, canonizzato come guida delle anime in questo momento cruciale in cui il Papa invita tutti, soprattutto gli ispanoamericani, a una nuova evangelizzazione.
II. La lotta contro il liberalismo
Se vi è qualcosa che brilla di una luce speciale nella vita e nell’insegnamento di questo nuovo santo vescovo, che «quasi» santamente lo ossessiona, è la sua opposizione, la proclamazione del messaggio evangelico, contro lo spirito, sempre più secolarizzante, che si veniva infiltrando nella vita cristiana, non soltanto individuale, ma soprattutto sociale e comunitaria. Dai tempi dell’illuminismo si tenta di dissolvere lo spirito cristiano, di smontarlo con false filosofie che escludono Dio dalla società: Dio disturba, bisogna metterlo da parte; «Dio è morto», come ha detto Friedrich Nietzsche, o bisogna darlo per morto. Questo spirito secolarizzante, che avanza, soprattutto dopo la Rivoluzione francese, e portato sulle sue ali penetra nel continente ispanoamericano a partire dalla sua indipendenza, si fa sempre più ateo e materialista con il marxismo, in incubazione a metà del secolo XIX. Di tutto questo il santo vescovo ha presentimento e capisce con grande chiaroveggenza che il canale di penetrazione di questo male, di questo spirito secolarizzante e ateo, è il liberalismo, che raggiunge il suo momento di splendore in questi anni, originando la grande enciclica Libertas, pubblicata da Leone XIII nel 1888. Infatti il liberalismo proclama la libertà, ma una libertà incontrollata, nell’insegnamento, nella stampa, nell’espressione, nella religione — libertà di espressione, libertà di stampa, libertà di insegnamento, libertà di religione, di coscienza, e così via —, opponendo libertà a legge e, soprattutto, a legge divina, perché se vi è libertà non vi può essere legge, non si può essere obbligati da nessuna legge eteronoma, sarebbe un controsenso; il non plus ultra è costituito dall’autonomia, tanto teorizzata dalla filosofia kantiana. Così, evidentemente, si apre la porta a ogni genere di opinioni. Quindi, non vi sono certezze, certezze oggettive; tutto è opinabile, la verità muta, è molteplice; ciascuno ha diritto ad avere la sua verità. Nessuno, neppure la Chiesa può avere l’esclusiva della verità. Relativismo della verità. Con il relativismo della verità, la verità della Chiesa cattolica crolla. Il tutto è conseguenza logica del rifiuto di Dio: o perché non c’è e, quindi, non va tenuto in considerazione; o perché, se c’è, non vi è ragione di tenerlo in considerazione. È il rifiuto di Dio dell’ateismo o del teismo. Senza Dio — come diceva Fëdor Michajlovic Dostoevskij — niente: né verità assoluta, né ordine immutabile delle cose, né legge naturale, né autentica autorità, ma pura libertà, pura anarchia. Il tutto costituisce effetto o conseguenza logica della negazione pratica di Dio, cioè del liberalismo. Il nostro santo vescovo aveva il presentimento di tutto questo. Da ciò la sua opposizione «quasi» ossessiva contro il liberalismo. E lo affronta con coraggio di martire, con serena integrità, con intrepidezza d’animo e con grande intelligenza. Perciò, nelle sue lettere pastorali, parla con logica semplice, chiara, evidente. In tutto è un Pastore che ha di mira unicamente il bene delle sue pecore, che è il bene di Cristo.
III. Le lettere pastorali
Nelle lettere pastorali si riflette e si esprime il suo spirito ed è necessario conoscerle. «Sono assolutamente certo — ci dice il suo biografo, padre Eugenio Ayape — che gli scritti pastorali di questo figlio di sant’Agostino, che amava tanto gli uomini e che tanto aborriva i vizi, quando saranno presentati in modo adeguato e ben conosciuti, conquisteranno una grande risonanza, un’attualità molto benefica. Infatti i tempi si ripetono. Infatti oggi mancano, come prima, come sempre, evangelizzatori, predicatori dell’autentico Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo» (Semblanza del Bto. Ezequiel Moreno, 1975, p. 83). Esiste una raccolta delle sue lettere pastorali e delle sue circolari, edite da padre Minguella nel 1908, reperibili con molto difficoltà. Perciò è in preparazione, per la pubblicazione imminente, un’edizione critica di tutte le sue opere, che auspichiamo esca quanto prima. Nel frattempo, e data la qualità di questi scritti, non ci tratteniamo dall’offrirne al lettore un’antologia, benché brevissima, che dobbiamo al noto scrittore Manuel de Santa Cruz, pubblicata in occasione della beatificazione su El Pensamiento Navarro. Il libro di padre Minguella consta di 560 pagine e si apre con la prima lettera pastorale, diretta ai fedeli del vicariato apostolico di Casanare e datata 1° maggio 1895, e si chiude con il prezioso testamento o ultime disposizioni, dettate il 6 ottobre 1905.
Nella lettera pastorale del 12 dicembre 1895 definisce perfettamente il liberalismo e mette in guardia i fedeli affinché prevengano tale pericolo e rimangano fermi nella fede: «Mai come nel nostro tempo si era vista una moltitudine di uomini animati da un odio sistematico contro di essa [la fede cattolica], che non possono nascondere; e intenzionati a prescindere dai suoi insegnamenti nel governo dei popoli, a reggere le società senza i suoi dogmi e precetti e a relegarla, potendo, in un oblio completo…
«Nel secolo scorso, ce ne hanno fornito una prova tanto evidente quanto terribile. Hanno chiamato dea la ragione; hanno eretto altari a essa; le hanno tributato un culto pubblico portandola in trionfo… In nome della Ragione o per la Ragione si è legiferato, si è operato e si è governato, prescindendo assolutamente da Dio e dalle dottrine che si è degnato rivelare agli uomini per condurli ai loro destini immortali. Se la ragione avesse potuto fare la felicità dei popoli, mai come allora avrebbe potuto farlo, dal momento che comandava senza nessuna pastoia, governava senza il sia pur minimo ostacolo, regnava con pienezza di poteri. Ciò nonostante, portò la felicità tanto strombazzata? … Ovunque nel governo dei popoli si è voluto relegare nel dimenticatoio la fede cattolica e prescindere dalle sue dottrine di salvezza, su scala maggiore o minore si sono venute producendo le stesse scene spaventose: non può essere diversamente».
Quale applicazione hanno queste parole oggi, quando tanto si parla, si scrive e si lamenta la crisi economica, sociale, familiare e politica che regna ovunque! Nella lettera pastorale del 10 agosto 1896 indica molto bene una delle principali cause di tanto disastro: «Le autorità secolari possono far molto proibendo l’introduzione e la circolazione di ogni stampato contrario alla Religione della Repubblica e alla fede dei nostri popoli, perché vi sono ragioni, e molto gravi, per farlo. Se sono stati proibiti determinati periodici, che venivano pubblicati nel paese, perché si ritennero pericolosi per la pace pubblica e il benessere dei popoli, vi è una ragione molto maggiore per proibire le pubblicazioni straniere che insegnano dottrine contrarie alla fede dei popoli e alla religione cattolica…».
«Il liberalismo lascia alla Stampa facoltà massima di dire e di pubblicare quanto a essa piaccia. Si tratta, figli miei, di una delle libertà proclamate dai settari, qualificate da Papa Gregorio XVI libertà di perdizione e come tali da lui condannate; si tratta di uno dei frutti funestissimi del liberalismo… che è la ribellione della libertà umana contro la volontà divina nell’ordine religioso, politico e sociale».
La definizione del liberalismo nelle ultime righe trascritte è perfetta. È così, e la dobbiamo conoscere con assoluta precisione per poter trarre le conseguenze pratiche da una realtà tanto dannosa. E, per un vescovo, la prima conseguenza pratica è dire chiaramente ai suoi fedeli che cos’è il liberalismo, perversione di ogni ordine, individuale, sociale e politico. È quanto indica nella lettera pastorale del 28 agosto 1896, pochi giorni dopo: «Se non potessimo dire che il liberalismo è male, per non dispiacere ai liberali, non potremmo neppure dire che il furto è male per non dispiacere ai ladri; né che l’assassinio è male, per non dispiacere agli assassini; né condannare, né alzare la voce contro altri vizi ed errori, per non dispiacere a quanti li hanno. Siamo obbligati ad alzare la voce contro qualsiasi altra dottrina, condannata dalla santa Chiesa. Se questo chiamano mettersi in politica, bisogna sapere che noi dobbiamo mettervisi per forza, perché siamo costretti a condannare quanto la Chiesa condanna sotto pena di mancare al nostro dovere e di non adempiere la missione che il cielo ci ha affidato…
«Poiché il liberalismo è una ribellione contro la volontà divina e una cosa cattiva, è chiaro che non si manca alla carità chiamando ribelli e cattivi i liberali, come non mancò alla carità il Battista chiamando i farisei razza di vipere, né mancò Gesù Cristo — terribile! — quando li chiamò figli del diavolo, né san Paolo, quando chiamò bestie malvage i dissidenti di Creta; né l’Apostolo della Carità quando disse che erano anticristi e consigliò i fedeli di non salutare quanti non pensavano con Gesù Cristo».
Con grande senso pastorale sa valutare il pericolo costituito per gli autentici cattolici dai cosiddetti «cattolici liberali», che intendono, come si dice, accendere una candela a Cristo e un’altra al diavolo. In una lettera pastorale del 1897 li qualifica in questi termini: «Bisogna evitare il rapporto non solo con i liberali che si dichiarano atei, materialisti, razionalisti, massoni, e così via, ma anche e molto di più con i “cattolici liberali”, che sono i più pericolosi e quelli che fanno più danno alla Chiesa e alle anime… quanti si sforzano di conciliare il cattolicesimo con il liberalismo, ossia i cattolici liberali; infatti, a costoro bisogna dire, con Pio IX, che non è possibile servire due padroni».
Contro l’indifferentismo dello Stato, contro quanto oggi alcuni intendono come libertà religiosa da parte dello Stato, in una lettera pastorale del 29 ottobre 1897, ha parole chiaroveggenti: «Fa la stessa cosa un governo che vede e osserva i danni prodotti alla Religione di Gesù Cristo e dice come quel figlio: “Quanto alla Religione, vada come può. Se si bestemmia Dio, si bestemmi; se si diffondono errori contrari alla sue dottrine, si propaghino; se la si cancella dai cuori con la seduzione, la si cancelli; se scompare totalmente dai popoli, scompaia; se Gesù Cristo è completamente dimenticato, è lo stesso; non ho niente a che vedere con questo. Devo restare neutrale”. Chi può dubitare — chiediamo nuovamente — che questo Governo è contro Gesù Cristo?».
In una lettera pastorale del 19 settembre 1900 vi è un paragrafo molto illuminante sull’importanza della politica, terreno su cui il liberalismo opera perché non vi si mettano i cattolici per restare padrone del campo. Fra le altre cose dice: «Insistete nell’insegnare loro a non essere cattolici a metà e che devono confessare la verità cattolica in tutta la sua integrità. Non è vietato e possiamo far guerra al male, anche se questo si presenta sul terreno politico e certa gente ci dice di non metterci in politica. Non diamo ascolto a quanti pretendono che si lasci loro via aperta e libera su questo terreno affinché trionfino con più facilità. Il maggiore di tutti i mali per noi sarebbe perdere la fede e questo male ce lo vogliono fare sul terreno politico. Il liberalismo è un sistema essenzialmente politico-religioso e, perciò, il Santo Padre Leone XIII ha detto nell’enciclica Libertas…».
Nella Quaresima del 1901 pubblica una pastorale in cui chiarisce la confusione che si verifica attualmente quando si parla di tolleranza, contrapponendola all’intolleranza e all’intransigenza della Chiesa. È importante: «Per molti cattolici ormai l’eresia non è più un delitto né l’errore contro la fede è un peccato. Proclamano la tolleranza universale e considerano come conquiste della civiltà moderna il fatto che non si sfugga l’eretico, come si faceva prima, il fatto che vadano a braccetto cattolici e dissidenti e il fatto che si venga a transazione con tutti e con tutto.
«Certi cattolici si esprimono in questi termini e guardano male e criticano quanti non pensano come loro. Apprezzano e lodano gli “spiriti moderati”; quanti mettono in primo piano la “tranquillità pubblica”, anche se i popoli vanno perdendo la fede; quanti si adeguano con piacere ai “fatti compiuti”, allo scopo di non sacrificare le comodità e i beni materiali, benché si perdano quelli spirituali. Questi sono gli “uomini prudenti”, che sanno valutare le circostanze; i “saggi” che capiscono l’epoca in cui vivono, gli “abili diplomatici” che in tutto trovano occasione di vantaggio per la Chiesa.
«Questi stessi cattolici hanno scrupolo che sembri chiedano ai governi di chiudere la bocca ai bestemmiatori e di far tacere i propagatori di eresie; ma, in cambio, vorrebbero che Roma imponesse il silenzio ai più decisi difensori della verità. Non hanno avuto paura di scoraggiare con inopportune lamentele quanti sostengono il peso della lotta per far regnare Gesù Cristo e hanno dato coraggio ed entusiasmo agli avversari con i loro scritti e la loro condotta».
Come Pastore saggio e prudente spiega ed esige che, per parlare del liberalismo e contro il liberalismo, sia anzitutto necessario studiarlo e prepararsi, e che questo venga fatto anche in materia politica e sociale: non adempiamo i nostri gravi obblighi in queste materie perché ignoriamo la loro importanza. Vediamo ciò che dice il santo in una istruzione pastorale al clero della diocesi, dell’8 dicembre 1902: «Abbiamo detto che è un dovere predicare contro il liberalismo, perché così ci ordina la santa Chiesa affinché i fedeli siano messi in guardia e non si lascino sedurre dai propagandisti dei suoi errori; ma questo dovere non può essere compiuto vantaggiosamente, se si predica senza preparazione. Come preparazione remota per predicare contro il liberalismo bisogna studiare con attenzione il Syllabus, le famose encicliche del Santo Padre Leone XIII e gli autori chiaramente cattolici che hanno spiegato questi documenti, per così conoscere il liberalismo nella sua essenza, nei suoi gradi, le libertà di perdizione con il grado di malizia racchiuso in ciascuna e la forma in cui sono state condannate dalla Chiesa.
«Nella materia che trattiamo, di solito si erra più perché si esige poco che perché si esige molto. Se si esigesse quanto la giustizia grida che si esiga, non esisterebbe questa orrenda e scandalosa miscela di cattolicesimo e di liberalismo, autentica calamità e causa principale della confusione spaventosa che tutti lamentiamo, pericolosissima per i buoni e collaboratrice efficace dei progetti e delle opere di Lucifero e dei suoi seguaci!».
Nella Quaresima del 1903 pubblica una lettera pastorale in cui spiega che cos’è la pace, la pace autentica, e come questa pace non la possano dare le libertà moderne. La citazione — benché lunga — è d’interesse: «La pace è la tranquillità dell’ordine: e l’ordine consiste nella sottomissione di tutto il nostro essere alla volontà divina, fonte e origine del potere. Ebbene, le libertà moderne non solo non si sottomettono alla volontà divina, origine dell’ordine, ma tendono a emanciparci da essa, e, quindi, a metterci nel disordine e a toglierci la pace. Forse alcuni dicono: come può essere derivata la pace da trattati conclusi fra cattolici e liberali? La domanda troverà risposta distinguendo con san Tommaso (II, II, q. 29, a. 1) fra pace e concordia, e dicendo che, anche se dove vi è pace vi è concordia, non sempre dove vi è concordia vi è pace. E possono concordare, e talora concordano anche gli stessi malvagi per realizzare i loro piani infernali, come si prova con la stessa sacra Scrittura, che dice: “I principi congiurarono contro il Signore e contro il suo Cristo» (Ps. II, 2). Forse si può dire che questi malvagi hanno la pace? No, perché dove vi è empietà non vi è ordine e dove non vi è ordine non vi è pace. “Non vi è pace per gli empi”, dice il Signore (Isaia, 58, 22).
«Le autorità devono far sì che regni la pace di Gesù Cristo con l’osservanza della Legge di Dio e operando perché le leggi, i decreti, gli ordini, i comandi e le disposizioni che danno si fondino sempre sulla legge divina, sul volere di Dio… Ma è necessario mantenere quest’ordine e per mantenerlo è pure necessario rimuovere o reprimere, se è necessario, gli agenti che lo possono turbare, come il cattivo insegnamento, la cattiva stampa, le cattive letture… perché tutto questo è disordine e negazione della pace».
In un paragrafo — trascritto di seguito — di una lettera pastorale del 30 aprile 1904 risponde con particolare puntualità a una domanda e a un’obiezione oggi presente nella mente di molti. Si esprime in questi termini: «Amore, carità! Molta carità per tutti! Ormai certi uomini non chiedono verità; invece di verità chiedono carità… È caritatevole il padre che castiga il proprio figlio quando agisce male, perché in futuro stia attento. È caritatevole chi colpisce e chi uccide in una guerra giusta. È caritatevole isolare i lebbrosi dai sani, per quanto duro sia l’isolamento dei primi.
«Un noto scrittore cattolico aveva già fatto enunciare ai nemici della religione questa domanda: “Meriteranno di essere tollerati i cattolici quando sono in minoranza, se non sono tolleranti quando sono in maggioranza?”. E risponde dicendo: “Questo è il linguaggio dei trattati, non quello dei princìpi. La verità non può trattare con l’eresia, come un sovrano con un altro sovrano, e solo la verità è sovrana e l’eresia è solamente una ribelle. La verità non può venire a patti con l’errore; la verità contraddice, combatte, esclude l’errore; e cesserebbe di credere in sé stessa, se riconoscesse all’errore il diritto di avere un posto accanto a essa».
Arrivando ormai alla fine della sua grande fatica di Pastore di anime, nella Quaresima del 1905 mette di nuovo in guardia i cattolici circa il pericolo del cattolicesimo liberale, dicendo che è impossibile essere, nello stesso tempo, veramente cattolico e autenticamente liberale nel senso del liberalismo. Si esprime in questi termini: «Gesù Cristo è venuto al mondo ed è venuto al mondo per unire gli uomini, ma non si nascondeva che molti non avrebbero voluto questa unione alle condizioni da Lui poste per la sua esistenza e perciò in tutto il suo Vangelo dà come un fatto certo che vi sarebbero stati due partiti. Infatti, parla dei figli della luce e dei figli delle tenebre; cita i discepoli fedeli che avrebbero conservato il suo santo nome e i nemici di questo nome benedetto, che avrebbero maledetto, calunniato e perseguitato quanti lo avessero confessato. Inoltre assicura che non vi è neppure terreno neutrale pronunciando queste parole forti, che sono come un fulmine per gli amici dei compromessi: “Chi non è con me è contro di me”.
«La dottrina è questa ed è inoltre certo, e nessuno lo potrà negare, che Gesù Cristo non trattava allo stesso modo i suoi amici, che avevano lasciato tutto per Lui e che lo seguivano e lo confessavano, e i farisei, suoi nemici, che chiamava ipocriti, sepolcri imbiancati, razza di vipere e figli del diavolo.
«Vi sono due partiti e vi saranno anche nell’eternità. Tutti nella stessa eternità. Tutti crediamo e confessiamo come dogma di fede che Gesù Cristo il giorno del giudizio non giudicherà tutti allo stesso modo ma a qualcuno: Venite… e agli altri: Allontanatevi da me… Nessuno può unire questi due partiti, perché non si può dare concordia fra Cristo e Belial, dice l’Apostolo».
Chiudiamo questo florilegio con le impressionanti parole del suo testamento, che sintetizzano tutto lo spirito del Pastore del gregge di Cristo. Trascriviamo alcuni passi. È stato firmato a Pasto il 6 ottobre 1905: «Confesso ancora una volta che il liberalismo è peccato, nemico fatale della Chiesa e del regno di Gesù Cristo e rovina dei popoli e delle nazioni; e volendo insegnare questo, anche dopo morto, desidero che nella sala in cui verrà esposto il mio cadavere, e anche nel tempio durante le esequie, si metta, in modo che tutti possano vederlo, un grande cartello con la scritta: Il liberalismo è peccato.
«Ho gridato contro questo male e ho anche sofferto per gridare. Non mi pento di aver gridato. Se in proposito ho qualcosa di cui pentirmi sarà di non aver gridato di più…
«Concludo dicendo che scendo nel sepolcro con il grande dolore di vedere che si tenta di decattolicizzare Pasto e che molti di coloro che si dicono cattolici hanno ormai molto di liberale, e questi sono coloro che contribuiscono maggiormente al progresso dell’errore… La concordia, come è stata intesa e praticata finora, è stata una calamità spaventosa per la fede di questi popoli… Non è possibile che lupi e agnelli camminino mescolati senza che gli agnelli ne ricevano qualche danno, senza un miracolo straordinario. E credo che uno dei veleni più attivi e più efficaci di cui si serve l’inferno sia la miscela della verità e dell’errore, del bene e del male…
«Non si dà questa concordia senza pregiudizio per il cattolicesimo. Giungerà presto il tempo in cui verrà meno questa alleanza apparente, e a vergogna e a castigo dei cattolici che si sono lasciati ingannare non saranno loro ad allontanare i liberali, ma i liberali ad allontanare loro».
Parole profetiche. È stato il suo testamento. Se guardiamo i segni dei tempi, e abbiamo il dovere di farlo, quale segno migliore, di maggior luminosa chiarezza e significato di quello piantato nel cielo della Chiesa da Papa Giovanni Paolo II, che lo ha canonizzato l’11 ottobre dell’anno del Signore 1992, in una delle più difficili e impegnative congiunture della storia e, in particolare, della storia dell’Ispanoamerica? Lo spirito e la fortezza di sant’Ezequiel Moreno, di La Rioja, missionario agostiniano, vescovo di Pasto in Colombia, ci guidi e ci protegga in questa difficile congiuntura.
Baltasar Pérez Argos S.J.