Giovanni Cantoni, Cristianità n. 230-231 (1994)
In margine a una polemica illuminante
Sconcertanti affermazioni e interrogativi inquietanti sulla «religione di Bankitalia»
Indiscrezioni sui rapporti storici e di fatto fra i Poteri della Repubblica Italiana e considerazioni di principio suggerite da difensori non officiati e non ufficiali di un servizio che sarebbe prevaricatore.
Talora un episodio di cronaca permette — quasi si trattasse di una fessura — di vedere, o almeno di intravedere, quanto consuetamente sfugge allo sguardo, quindi all’attenzione, della comune degli uomini. E lo spettacolo intravisto può sconcertare, e perfino inquietare, soprattutto quando riguardi realtà di rilievo della vita politico-sociale. Mi pare si sia offerto uno di questi «colpi d’occhio» nel quadro dell’aggressione multimediale — per parlare di «dibattito» sarebbe necessaria la presenza di idee — di cui è oggetto il Governo guidato dall’on. Silvio Berlusconi.
1. Secondo un dispaccio diffuso in data 31 maggio 1994 dall’ANSA, l’Associazione Nazionale Stampa Associata, l’on. Maurizio Gasparri, sottosegretario al ministero degli Interni, ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma: «Siamo molto rispettosi dell’autonomia della Banca d’Italia e consapevoli della grande competenza e saggezza del Governatore, ma è evidente la necessità di una concertazione con il Governo per quanto attiene scelte di vertice molto delicate.
«Non vorremmo che alla Banca d’Italia qualcuno pensasse di attuare un blitz per nominare Padoa Schioppa alla Direzione Generale. Non vorremmo che Ciampi, indicato dal Fronte Progressista come possibile suo leader di Governo, interpretasse in maniera estensiva il suo ruolo di Governatore onorario. Qualcuno infatti pensa, ma noi siamo certi che così non è, che l’area politica sconfitta alle elezioni intende ostacolare in ogni modo la politica economica e monetaria del Governo. Ci auguriamo che ognuno stia al suo posto e che siano rispettati l’autonomia della Banca d’Italia, le competenze del Governo, gli orientamenti democratici espressi dal corpo elettorale. Niente blitz, ma una seria riflessione da parte degli organi competenti».
Alla dichiarazione del sottosegretario agli Interni ha immediatamente replicato — secondo un dispaccio dell’ASCA, l’Agenzia Stampa Nazionale Quotidiana, della stessa data — l’on. Giorgio La Malfa: «Non sappiamo — ha detto il segretario del Partito Repubblicano Italiano — se l’on. Gasparri abbia affermato quel che ha sostenuto essendo consapevole, oppure no, delle conseguenze delle parole pronunciate: al tempo stesso, infatti, egli pone un veto inaccettabile e parla di autonomia della Banca d’Italia. Quel che è certo è che sarebbe un colpo terribile alla credibilità del Paese, avere un Governo che mettesse in opera, o anche solo ne dimostrasse l’intenzione, un assoggettamento della Banca d’Italia. Salvo smentite da parte del Presidente del Consiglio, l’on. Gasparri parla come esponente del Governo e avanza un veto che è destinato a produrre gravi ripercussioni sui mercati internazionali».
2. Dunque, un’affermazione giuridicamente ben fondata, fatta da un componente del Consiglio dei Ministri e intesa a ribadire la necessità, da parte della Banca d’Italia, di «una concertazione con il Governo per quanto attiene a scelte di vertice molto delicate», qual è per certo la nomina del dottor Tommaso Padoa Schioppa a direttore generale, produce da parte di qualcuno una reazione violenta con tratti palesemente intimidatori. Ma i termini sono ancora, in qualche modo, «coperti». Su di essi getta però un fascio di luce Mario Pirani, che il 1° giugno firma su la Repubblica un articolo, il cui titolo già sconcerta: La religione di Bankitalia (1).
«Mai come in questo momento — scrive fra l’altro il noto giornalista — di profondo sconvolgimento del potere politico è apparso con tanta evidenza che la continuità storica dello Stato italiano resta affidata alla Banca d’Italia assai più che alle altre istituzioni, insidiate da traumatiche soluzioni di continuità, percorse da ricorrenti sospetti, degradate dall’uso improprio cui sono state sottoposte. La Banca d’Italia, no: la religione della moneta, o, meglio, della sua difesa è rimasta integra nella sua ortodossia, anche se le vulgate — a volte più espansive, altre più restrittive — hanno conosciuto accentuazioni alterne. Una religione al servizio di una divinità altamente simbolica — quel biglietto di banca firmato dal Governatore, che personifica il potere d’acquisto del cittadino — ma altresì una divinità che, se fedelmente servita, è dispensatrice di beni, mentre, quando viene tradita, si fa implacabilmente vendicativa. E più ne moltiplichi incautamente l’ambita immagine, più deprezza il suo valore.
«I governatori sono i sacerdoti addetti al suo culto. Se non fossero pienamente indipendenti e soggiacessero a poteri esterni la loro qualità liturgica verrebbe meno. Tutti i governi, in certi momenti, sono stati tentati dal desiderio di piegarli ai loro fini, ma non hanno mai perpetrato fino in fondo il sacrilegio, consci che gli si sarebbe ritorto contro. Da Bonaldo Stringher a Vincenzo Azzolini, da Einaudi a Menichella, da Carli a Baffi e a Ciampi l’indipendenza della Banca è stato un bene pubblico restato al di sopra e al di fuori delle parti. Persino un regime autoritario come quello fascista lo ha sostanzialmente rispettato.
«Val la pena in proposito di ricordare una lettera che il governatore Azzolini scriveva nel 1933 al ministro delle Finanze, Guido Jung, per ribadire come il governo di Mussolini avesse sempre “tenuto ad affermare che i compiti e le funzioni, così delicati e speciali, spettanti all’Istituto di emissione esigono che siano separate in modo netto e preciso le sue attribuzioni e responsabilità da quelle dell’autorità statale e politica. Il principio della indipendenza della Banca centrale è stato così riconosciuto come saggio e prudente”. Parole che andrebbero, come pensum espiatorio, lette ripetutamente e mandate a memoria dal giovane sottosegretario agli Interni di Alleanza nazionale, Maurizio Gasparri, che ieri si è impancato a dettar legge circa le nomine interne della Banca e a chiedere in proposito una concertazione del governo.
«Se ricordiamo, quindi, queste premesse non è per vezzo storico ma perché ci troviamo — con l’avvento di una classe di governo nuova, vogliosa di fare e forse strafare, ma non sperimentata — in uno di quegli snodi nel corso dei quali certe tentazioni potrebbero ripresentarsi (e che altro significa quella proposta, subito avanzata, di sottoporre la nomina del governatore, oggi a tempo indeterminato, ad un limite temporale, se non far incombere sul suo capo l’ombra della riconferma e, comunque, limitare la sua autorità ed arco d’azione?).
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«Ma vi è un’altra considerazione, in qualche modo collegata al discorso precedente. Essa riguarda il fatto che quel valore unico di continuità e d’indipendenza della Banca si è rivelato anche, in taluni momenti, un bene di estrema riserva per la Repubblica. Lo si è visto nel 1947, quando il governatore Einaudi venne chiamato da De Gasperi al Ministero per far uscire l’Italia dall’inflazione; lo si è rivisto con Ciampi, incaricato da Scalfaro di formare un governo che i partiti in disfacimento non erano più in grado di reggere. In questa stessa filosofia s’iscrive il positivo arrivo di Dini al Tesoro: l’ex direttore generale della Banca è, infatti, probabilmente oggi l’unico personaggio della compagine governativa fornito di una pluriennale credibilità sui mercati internazionali, capace di controbilanciare i dubbi — non solo di natura politica ma anche di sperimentata competenza — che altri suoi colleghi possono ingenerare».
3. Dunque, se le parole hanno un senso, contrariamente a quanto pensa chi è stato indottrinato sulla base della separazione dei poteri à la Montesquieu — ma vi è chi nega la piena responsabilità dello scrittore politico francese (2) —, accanto al Potere Legislativo, a quello Esecutivo e a quello Giudiziario, secondo la reazione dell’on. Giorgio La Malfa e la ricostruzione di Mario Pirani, vi è un misterioso Potere Finanziario, non subordinato, e neppure soltanto autonomo, rispetto all’Esecutivo, ma che, piuttosto, se ne vuole tutore, divenuto da servo padrone. Quindi, la Repubblica Italiana non è più riducibile solo ad «Azienda Italia», cui almeno collaborano «capitale e lavoro», ma è identificabile con la «Banca d’Italia».
Inoltre — sempre secondo i difensori non officiati, comunque non ufficiali, dell’Istituto di emissione — il Potere Finanziario ha legami e credibilità internazionali, e chiede per sé quanto correntemente viene negato agli altri Poteri, per esempio — en passant, un buon argomento a favore dell’istituto monarchico — il carattere a tempo indeterminato della sua magistratura maggiore. Se le cose stanno così, almeno consuetudinariamente, se non di diritto, mi chiedo perché — quando si ventilano riforme costituzionali — non si pensa di mutare la formulazione dell’articolo 1 dei Principi fondamentali della Costituzione, secondo cui «l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro», in «fondata sul capitale finanziario».
4. Il tema evocato — di fatto, il rapporto fra la politica e l’economia in genere, e fra la politica e la finanza in specie —, mi induce a trascrivere una presa di posizione di Papa Giovanni Paolo II, di indubbia utilità per orientare almeno i cattolici in argomento. «La dottrina sociale cattolica — afferma il Sommo Pontefice — non è […] un surrogato del capitalismo. In realtà, pur condannando decisamente il “socialismo”, la Chiesa, fin dalla Rerum Novarum di Leone XIII, ha sempre preso le distanze dall’ideologia capitalista, ritenendola responsabile di gravi ingiustizie sociali (cfr. Rerum Novarum, 2). Nella Quadragesimo Anno Pio XI, per parte sua usò parole chiare e forti per stigmatizzare l’imperialismo internazionale del denaro (Quadragesimo Anno, 109). Linea questa confermata anche nel magistero più recente, ed io stesso, dopo il fallimento storico del comunismo, non ho esitato a sollevare seri dubbi sulla validità del capitalismo, se con questa espressione si intende non la semplice “economia di mercato”, ma “un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale” (C. A., 42)» (3).
Dunque, non solo si può, ma si deve sostenere l’economia di mercato, però essa va distinta con precisione da un regime in cui il mercato costituisce lo «specchietto per le allodole», cioè la copertura della prevaricazione dell’economia in genere, e del mondo della finanza in specie, sulla vita politica. E questa disfunzione è rivelata appunto dal mancato inquadramento della vita economica in un solido contesto giuridico, mentre l’appello a tale inquadramento viene denunciato ingiustamente e con arroganza come tentativo di assoggettamento di quanto ha titolo all’autonomia, ma non all’indipendenza, e tanto meno — per certo — alla prevaricazione.
Giovanni Cantoni
Note:
(1) Cfr. Mario Pirani, La religione di Bankitalia, in la Repubblica, 1-6-1994.
(2) Cfr. Juan Bms. Vallet de Goytisolo, Montesquieu: Leyes, Gobiernos y Poderes, Civitas, Madrid 1986, pp. 357-414.
(3) Giovanni Paolo II, Discorso ai rappresentanti del mondo accademico e della cultura nell’Università di Riga, del 9-9-1993, n. 2, in L’Osservatore Romano, 11-9-1993; cfr. lo studio di Antoine de Salins e François Villeroy de Galhau, Il moderno sviluppo delle attività finanziarie alla luce delle esigenze etiche del cristianesimo, trad. it., Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994, pubblicato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace.