Giovanni Cantoni, Cristianità n. 230-231 (1994)
Milan S. D’urica, La Slovachia. Un breve profilo storico-culturale, Istituto per l’Enciclopedia del Friuli-Venezia Giulia, Udine 1994, pp. 120, L. 18.000
«Il crollo del muro di Berlino e dei regimi comunisti nel 1989 ha provocato un terremoto negli stati dell’Europa dell’Est e nella stessa ex Unione Sovietica: si sono sprigionate le forze centrifughe delle numerose e diverse nazionalità verso nuove formazioni statali, con un profondo mutamento del panorama geografico. Queste nuove realtà statali si sono costituite pressochè tutte sulla base delle nazionalità: l’URSS si è divisa più o meno pacificamente nella Russia, nell’Ucraina, nella Bielorussia, nell’Armenia, nel Khazakistan, ecc.; la Cecoslovacchia, in modo del tutto pacifico, nella Repubblica Ceca e nella Repubblica Slovaca; la Jugoslavia, a prezzo di una terribile guerra, nella Serbia, nella Croazia, nella Slovenia, nella Bosnia…. Altre nazionalità, in quest’area d’Europa, per oltre cinquant’anni definita il “blocco” sovietico, spingono verso ulteriori formazioni statali, da costruire su base etnica se non religiosa. Con la collana “Il Ponte”», l’Istituto per l’Enciclopedia del Friuli-Venezia Giulia, «che ha sede in una regione tradizionalmente aperta verso il mondo dell’Est europeo, intende appunto pubblicare una serie di agili profili storico-politici delle nuove realtà statuali producendo così efficaci strumenti di conoscenza che aiutino a comprendere queste spinte nazionalistiche, le cui ragioni affondano spesso in una storia millenaria».
Il panorama e il proposito riportati si leggono nella quarta pagina di copertina del volume La Slovachia. Un breve profilo storico-culturale, che inaugura appunto la collana, e di cui è autore don Milan S. D”urica S.D.B.
Milan S. D”urica nasce a Krivany, nella Slovachia Orientale, il 13 agosto 1925. Consegue la maturità a Trnava, sempre in Slovachia; dal 1947 in Italia, prosegue gli studi di Filosofia, Teologia e Scienze Politiche a Torino, Lovanio, Ginevra, Bruxelles, Monaco di Baviera, Padova e Vienna. Entrato fra i salesiani, è ordinato sacerdote nel 1956. Negli anni 1951 e 1952 è docente di filosofia a Grand Haileux, in Belgio; dal 1956 al 1966 professore di Teologia Morale nello Studio Teologico Salesiano di Abano Terme, in provincia di Padova; assistente alla cattedra di Storia dei Trattati Internazionali e Politica Internazionale all’Università di Padova, dal 1966, presso lo stesso ateneo, insegna per diciassette anni sia Lingua e Letteratura Ceca e Slovaca che Storia ed Istituzioni dell’Europa Orientale. Dal 1983 ha cattedra di Storia dell’Europa Centrale e Orientale presso la facoltà di Scienze Politiche dello stesso ateneo patavino.
Autore di numerosi articoli e volumi — per oltre duecento titoli —, ha pubblicato in sei lingue. Fra i suoi scritti in italiano ricordo La Slovachia e le sue relazioni con la Germania. 1938-145. Con 85 documenti diplomatici inediti (Marsilio, Padova 1964); L’autonomia della Regione Slovaca e le sue premesse storiche. 1848-1938 (CSEO-Liviana, Padova 1967); La morte di Milan Ra-sti-slav ƒtefa;nik alla luce dei documenti militari italiani inediti (CSEO-Liviana, Padova 1971); Il costituirsi del cristianesimo slovaco: tratti caratteristici dei secoli X-XVI, in Luciano Vaccaro (a cura di), Storia religiosa dei cechi e degli slovacchi («La Casa di Matriona» e Fondazione Paolo VI, Milano-Gazzada [Varese] 1987, pp. 247-275); e La lingua slovaca. Profilo storico-filologico con guida bibliografica (CSEO-Liviana, Padova 1983), in cui — fra l’altro — richiama alla corretta grafia con una c sola. Ricordo pure l’edizione italiana — riveduta e aggiornata — del fondamentale Francis Dvornik, Gli Slavi. Storia e civiltà dalle origini al secolo XIII (Liviana, Padova 1974). È direttore dell’Istituto Storico Slovaco dei Santi Cirillo e Metodio, di Roma.
In una breve Premessa (p. 7), lo studioso salesiano fonda la necessità dell’opera: «In Italia, praticamente, non esistono fonti d’informazione sulla Slovachia. Abbiamo trovato più di un manuale di Storia in uso nelle scuole medie superiori, che non conteneva neppure un cenno sugli Slovachi e sul loro Paese. Anche alcune opere enciclopediche si limitano a farne appena un cenno nell’ambito e nell’ottica dell’ormai inesistente Cecoslovacchia. Con questo lavoro intendiamo offrire, a chi avverte la curiosità o il bisogno di una prima informazione sulla Nazione Slovaca, uno strumento che consenta di avvicinare sia dal punto di vista storico-politico, sia culturale, una realtà che sinora è rimasta sconosciuta o quasi ai non specialisti di studi slavistici» (ibidem).
Il testo si suddivide in tre parti.
Nella prima (pp. 9-34), dopo una rapida descrizione geografica della Slovachia Stato indipendente dal 1° gennaio del 1993, don Milan S. D”urica S.D.B. percorre la storia della nazione slovaca dai secoli IV e V — periodo di stanziamento dei Protoslovachi in un’area dove la presenza dell’homo sapiens è documentata a partire dall’epoca del paleolitico inferiore — fino al secolo XIII. Sono così evocati il Regno di Samo, l’Impero di Moravia, la missione dei santi Cirillo e Metodio, quindi — nella conservazione dell’identità etnica e, per qualche tempo, del culto orientale — le vicende della nazione slovaca nel Regno di santo Stefano, fino a quando ne furono titolari gli Angiò. Di questo primo periodo vengono anche ricordate le sopravviventi suggestive testimonianze, soprattutto a Nitra, la più antica città della Slovachia e di tutta la Slavia occidentale, centro dell’evangelizzazione degli slavi, sede della prima chiesa cristiana, dell’828, diocesi dall’880, poi — dal 1025 — residenza degli eredi al trono d’Ungheria.
Nella seconda parte (pp. 35-73), lo studioso salesiano segue l’itinerario storico dalla rinascita culturale, letteraria e artistica, fra i secoli XIV e XV, favorita dalla fondazione dell’Università di Praga ad opera di Carlo IV e di quella di Bratislava ad opera di Mattia Corvino. Quindi tratta della Riforma luterana, della cultura fra Riforma e Controriforma, e della politica degli Asburgo, nel cui quadro inserisce la fondazione dell’associazione patriottica Slovenske; uce-ne; tovariŽstvo, «La Dotta Compagnia Slovaca», l’insurrezione del 1848 e il memorandum del 1861. Poi descrive gli anni seguenti l’Ausgleich, il «compromesso» austro-ungarico del 1867, caratterizzati da una politica di spietata magiarizzazione, fra le cui conseguenze va annoverato un consistente fenomeno migratorio, soprattutto verso gli Stati Uniti d’America. E proprio negli Stati Uniti d’America nasce un patto di collaborazione fra emigrati slovachi e fuorusciti cechi, il cosiddetto Patto di Pittsburg, del 30 maggio 1918, che prevedeva la liberazione di entrambi i popoli e la costituzione di una confederazione degli erigendi Stati ceco e slovaco. Ma il Patto di Pittsburg, sconosciuto in Slovachia fino al marzo del 1919, viene disatteso da parte ceca, e della sua vanificazione costituisce elemento decisivo la misteriosa morte, avvenuta il 4 maggio 1919 nel cielo di Bratislava, del generale Milan Rastislav ƒtefa;nik, uno scienziato slovaco naturalizzato francese, ministro della Guerra della nuova Ceco-Slovachia.
Nella terza parte (pp. 75-107), dopo un importante excursus su Letteratura e indipendenza (pp. 75-81), don Milan S. D”u-rica S.D.B. prende in esame il periodo che va dalla fine della prima guerra mondiale a oggi. Così, dopo la descrizione della sorte della nazione slovaca nella repubblica di Toma;Ž Garrigue Ma-sa-ryk e di Edvard BeneŽ, è descritto il passaggio dall’autonomia all’indipendenza, realizzata sotto la scomoda protezione del Reich nazionalsocialista e sotto la guida di monsignor Jozef Tiso, che il 21 luglio 1939 promulga la Costituzione. L’uomo politico cattolico slovaco — su cui segnalo il prezioso e illuminante studio di Lisa Guarda Nardini, Tiso: una terza proposta (CSEO-Liviana Editrice, Padova 1977) —, dopo l’Insurrezione del 1944 e l’arresto nel 1945, cade vittima di una brutale vendetta politica, sulla quale cala la Cortina di Ferro, e dietro alla quale nasce e si spegne l’illusione di Alexander Dubc’ek e si producono gli avvenimenti noti come «rivoluzione di velluto», conclusi dalla proclamazione dell’indipendenza del 1° gennaio 1993.
Il volume — che comprende un’opportuna cartina d’orientamento (p. 8) e trentacinque preziose illustrazioni nel testo — si chiude con un’Appendice (pp. 109-112), che fornisce i principali dati statistici e dà sommarie indicazioni sull’ordinamento dello Stato, sulla religione e sull’economia, nonché con Riferimenti bibliografici (pp. 113-114) a opere in italiano, reperibili con facilità e atte a permettere al lettore l’approfondimento di alcuni temi.
Pubblicazione in estratto di una bella voce di enciclopedia, lo studio di don Milan S. D”urica S.D.B. si può certamente considerare riuscito, quindi esemplare, anche dal punto di vista editoriale, dal momento che le pochissime imperfezioni non ostacolano assolutamente la comprensione del testo, che offre scorrevole e sostanziosa presentazione e ricostruzione unitaria di informazioni storico-culturali di tutt’altro che immediata e facile reperibilità.
Se, quanto ai fatti, mi pare vi sia ragione di ampia soddisfazione, quindi di elogio e di gratitudine — sarebbe stato comunque opportuno lo scioglimento di qualche passaggio storico, reso apparentemente contraddittorio dalla sua rapidità, come là dove si legge che «[…] la Riforma avanzava rapidamente, sorretta soprattutto dal proletariato urbano» (p. 46) e che «[…] la Riforma protestante in Slovachia prese il sopravvento sul cattolicesimo, con le potenti famiglie feudali che sostenevano i predicatori riformati» (ibidem) —, mi permetto di avanzare qualche riserva quanto ai giudizi, sia su quelli espliciti che su quelli impliciti, quali si possono ricavare almeno dalle omissioni. Credo che in una seconda edizione — così come, soprattutto, in un’assolutamente auspicabile pubblicazione dell’opera in slovaco — la funzione pedagogica del testo, cioè la sua funzione di strumento di educazione politica di base, sarebbe accresciuta in profondità da qualche accorgimento e da qualche precisazione.
In primo luogo mi sembrerebbe necessario introdurre una metodica messa in guardia, semplicemente attraverso un’adeguata e altrettanto metodica aggettivazione, nei confronti dei movimenti religiosi di certa qualificazione anticattolica quale — per esempio – quello degli hussiti, così come dei movimenti culturali di altrettanto certa qualificazione anticristiana, quale — di nuovo per esempio — l’illuminismo, in modo che appaia chiaro come i vantaggi eventualmente acquisiti dalla nazione slovaca in determinate congiunture e da parte di determinate forze sono da ritenere storicamente e dottrinalmente inquinati, quindi ultimamente almeno parziali.
In secondo luogo, sarebbe particolarmente utile la sottolineatura di quanto emerge con chiarezza dalla storia narrata e cioè che — oltre l’ambiguità semantica che indica con il termine «nazionalismo» ogni e qualsiasi impegno per l’identità nazionale, non obbligatoriamente esasperato da spirito imperialistico — la nazione slovaca non è una «nazione romantica» (cfr. Jean Plumyène, Le nazioni romantiche. Storia del nazionalismo nel XIX secolo, trad. it., Sansoni, Firenze 1982), o la è in una misura ridottissima, cioè solo nella misura in cui ha patito nella storia il contagio culturale romantico; infatti, l’autore indica giustamente «il fattore culturale-linguistico come uno dei più efficaci stimoli della etnogenesi» (p. 75), ma lo può documentatamente affiancare «al fattore della struttura politica e a quello dell’organizzazione ecclesiastica» (ibidem), sì che solo «in un certo senso, la nazione slovaca è nata dalla letteratura» (ibidem).
Finalmente, non guasterebbe assolutamente la segnalazione più vigorosa del fatto che, nel 1914, la classe politica slovaca «[…] si divide nettamente sul problema di come considerare il proprio avvenire: la grande maggioranza rimane intimamente fedele, leale alla monarchia danubiana […]; una esigua minoranza, invece, […] puntano [sic] decisamente sulla vittoria dell’Intesa e sulla dissoluzione dell’Impero asburgico» (Angelo Tamborra, Masaryk e Be-neŽ, in Ettore Rota [a cura di], Questioni di Storia Contemporanea, vol. terzo, Marzorati, Milano 1953, p. 805); e che, se «[…] è assodato che il fine primario dell’azione politica slovaca, durante la prima guerra mondiale, fu teso alla liberazione dall’oppressione magiara» (pp. 63-64), fra i fautori della dissoluzione dell’Impero asburgico si situano «padri della patria» del tempo, non escluso Milan Rastislav ƒtefa;nik, benché la sua morte «misteriosa» possa indurre a classificarlo piuttosto fra i «generosi illusi» che nel numero dei mestatori, non per questo però — considerata la sua qualità umana non volgare — meno colpevole; comunque, nel caso sia certificabile o si voglia accreditare l’ultima eventualità, mi parrebbe giusto «liberarlo» dalla sgradevole qualificazione, di sapore garibaldesco, di «eroe dei due mondi» (pp. 69-73), che suggerisce solamente imposizione artificiale e sovversiva alla nazione e non autentica rappresentatività della tradizione nazionale.
Secondo François Fejto= — felicemente sintetizzato da Sergio Romano — il crollo dell’Impero asburgico, «[…] il collasso della Duplice Monarchia non fu, come sostenne in quegli anni la pubblicistica democratica, l’esito inevitabile di una malattia mortale che aveva aggredito da tempo il suo corpo politico e sociale»: il docente universitario e giornalista, ungherese di origini ebraiche, «[…] per parte sua, preferisce mettere l’accento sul “complotto” ideologico che fu ordito di fatto tra alcuni uomini — Clemenceau, Wilson, Masaryk, Be-neŽ, Seton-Watson, Torre, Ferrero, Salvemini — che erano spesso democratici, repubblicani o animati comunque da forte ostilità nei confronti dell’impero austro-ungarico. Si era fortemente diffusa in una parte dell’intelligencija europea e americana la convinzione che la pace dipendesse dalla “rinascita” degli Stati nazionali e dalla “repubblicanizzazione” dell’Europa. Di quella crociata, in cui Fejto= vede la forte influenza della massoneria europea, la Duplice Monarchia divenne, tra il 1917 e il 1918, la vittima designata.
«[…] Le nazioni di cui i vincitori proclamano la “rinascita” si dimostrarono, per molti aspetti, creazioni “letterarie” più che politiche e soprattutto piccoli imperi multinazionali, assai meno liberali e tolleranti dell’impero “distrutto” di cui avevano fatto parte» (Sergio Romano, Introduzione a François Fejto=, Requiem per un impero defunto. La dissoluzione del mondo austro-ungarico, trad. it., Mondadori, Milano 1990, p. XV).
Perciò, ogni slovaco dovrebbe ricordare che non l’Impero asburgico — residuo del Santo Impero —, ma la sclerosi assolutistica di tale Impero ha reso la sua nazione vittima dello scatenamento del nazionalismo imperialistico magiaro, quindi dell’illiberalità e dell’intolleranza di un «piccolo impero multinazionale» e «letterario» denominato Cecoslovacchia; e, dal canto suo, nessun europeo dovrebbe dimenticare che gl’infausti sponsali del nazionalismo imperialistico germanico con il socialismo si sono potuti celebrare nel vuoto lasciato dalla scomparsa dello stesso Impero asburgico, e che — sempre in questo vuoto — ha poi infuriato la loro cumulata follia, di cui tutte le nazioni hanno direttamente o indirettamente patito le tragiche conseguenze. E fra queste nazioni — sia detto incidentalmente — va messa in prima posizione quella tedesca, secondo la logica convincente proposta da Aleksandr Isaevic’ Solz’e-ni-cyn a proposito della nazione russa, strumento e perciò prima vittima dell’imperialismo socialista sovietico. Dunque, ogni europeo dovrebbe giudicare di conseguenza i promotori diretti o indiretti della scomparsa dell’Impero asburgico; e la fedele narrazione delle vicende della nazione slovaca è occasione opportuna per rinnovarne la salutare memoria storica, premessa di corretti giudizi storici, quindi di fecondi propositi politici.
Giovanni Cantoni