L’impero come dramma e come necessità
D. Perché nasce questa nuova traduzione italiana del libro di Bryce? Quali sono le caratteristiche dell’opera?
R. La sollecitazione iniziale mi è pervenuta da Giovanni Cantoni, interessato, anche mediante la riproposizione del volume di Bryce, a una riflessione generale sull’impero. The Holy Roman Empire ha avuto a suo tempo un notevole successo, in quanto l’autore è riuscito a coniugare una visione storica di quadro ampio con una non trascurabile erudizione e con un indubbio pregio letterario. La prima versione italiana, seppure dovuta a una figura eminente come il conte Ugo Balzani (1847-1916), storico di formazione giuridica, a parte la ovvia irreperibilità — l’ultima edizione è del 1907 — era inevitabilmente datata come stile linguistico e come modello di traduzione; mi è parso inoltre il caso di valorizzare l’apparato delle note, molto ricco nell’originale ma molto sintetico nell’individuazione delle fonti, nonché di verificare le fonti stesse. Lo scopo principale dell’autore, come lo stesso scrive nella prefazione, non è stato quello di narrare con maggiore o minore completezza i fatti e i personaggi, ma di descrivere lo sviluppo di un’idea: l’idea che una società che si concepiva culturalmente ed esistenzialmente unitaria meritasse un’istituzione che la rappresentasse unitariamente dal punto di vista politico. Una storia sintetica, non nel senso di succinta, ma nel senso che compie sintesi, individua le linee di forza che hanno interessato la storia della nostra civiltà. L’autore ha la capacità di descrivere in modo efficace la mentalità, le suggestioni, i sogni dei nostri antenati, che, anche se qualche volta con schematismi e rigidità, hanno visto lontano e hanno costruito l’edificio della nostra civiltà. È una storia che, pur non limitata al Medioevo, si colloca ampiamente nel Medioevo, ma il cui baricentro — mi si consenta l’espressione che non vuole essere affatto polemica nei confronti dei maestri francesi contemporanei della storiografia medioevale — non cade in Francia. Il lettore comprende che la storia della nostra civiltà è certamente «passata dappertutto» — ogni luogo d’Europa, anche quello apparentemente più remoto, è stato attraversato dalla storia — ma sicuramente è passata entro i confini dell’impero e, nell’impero, dall’Italia.
D. Quanto incide il retroterra culturale dell’autore sull’impostazione dell’opera?
R. La sua identità britannica, protestante non-conformista e liberale senza dubbio traspare, specie quando si occupa delle difficoltà di convivenza fra potere temporale e potere spirituale, del Papato medioevale, dell’ortodossia cattolica, della Riforma protestante, della fase asburgica dell’Impero. I suoi giudizi più discutibili non sono tuttavia mai banali, scuotono inveterate certezze e inducono semmai il lettore ad articolare in modo più approfondito le proprie ragioni contrarie. Quello che invece stupisce è che, pur non essendo spesso tenero con la Chiesa, la considera tuttavia come tale e non come la «meretrice Babilonia» di Martin Lutero (1483-1546), usurpatrice del messaggio di Cristo; colpisce soprattutto l’amore sconfinato per l’idea imperiale e una grande pietas nei confronti dell’uomo medioevale.
D. A quale periodizzazione dell’esperienza imperiale si attiene l’autore?
R. Se prescindiamo dall’impero romano convertito a partire da Flavio Valerio Costantino (280 ca.-337) — sia nella pars Occidentis, fino alla sua caduta, sia nella pars Orientis, dove prosegue per altri mille anni l’impero romano cosiddetto d’Oriente, impropriamente conosciuto come bizantino — e ci riferiamo all’esperienza occidentale dell’impero successiva alla caduta della pars Occidentis, esistono due periodizzazioni possibili. L’una, che si vorrebbe, e non senza ragioni, più rigorosa, fa iniziare il Sacro Romano Impero con Ottone I (912-973) nel 962. L’altra, forse meno rigorosa ma dotata di maggiore verità sostanziale, a cui Bryce si attiene, vede l’impero ottoniano in continuità con quello di Carlomagno (742-814), che diciamo nascere nel Natale dell’800 con l’incoronazione in San Pietro per opera di Papa Leone III (795-816). Documentatamente è con Carlomagno che si inizia a parlare di Renovatio Romani Imperii, e ben difficilmente la renovatio di Ottone I avrebbe potuto concepirsi senza la suggestione dell’esperienza carolingia. A ciò occorre aggiungere che l’intera cultura occidentale subisce, durante il cosiddetto «rinascimento carolingio», uno sviluppo tale da costituire un humus efficacissimo per il Sacro Romano Impero ottoniano. Il terminus ad quem, invece, è senza dubbio lo scioglimento dell’impero da parte di Francesco II d’Asburgo-Lorena (1768-1835) nel 1806, per timore di un impossessamento da parte di Napoleone Bonaparte (1769-1821): un richiamo ideale significativo permane nell’impero d’Austria, dallo stesso Francesco costituito nel 1804, non fosse altro che per la pressoché ininterrotta plurisecolare permanenza dello scettro del Sacro Romano Impero nelle mani della Casa d’Asburgo.
L’aggettivo «sacro» sembra comparire per la prima volta ufficialmente come epiteto dell’impero in una lettera inviata nel 1157 da Federico I «Barbarossa» (1125-1190) ai magnati tedeschi per sollecitarne l’aiuto contro le città lombarde, pur se lo ritroviamo abbastanza frequentemente anche in precedenza, e di sacralità si parla anche a proposito dell’impero romano pagano. Nel 1512, poi, in un atto ufficiale dell’imperatore Massimiliano I (1459-1519), si aggiunge «della nazione germanica», formula già in uso dagli inizi del secolo XV, in qualche modo forzando una situazione di fatto in cui, all’esordio del periodo dell’equilibrio europeo degli Stati, l’impero tende maggiormente a interpretarsi ed essere interpretato come potenza locale germanica. Il titolo ufficiale dell’imperatore rimarrà però Romanorum Imperator semper Augustus, senza formali riferimenti alla Germania.
D. In che misura la memoria, o il mito, dell’impero romano condiziona il Sacro Romano Impero?
R. La suggestione esercitata dall’impero romano è sempre stata fortissima, percepibile fin dalle prime irruzioni nei suoi confini di gruppi umani cosiddetti barbari e successivamente nelle sperimentazioni del potere attuate dai re barbari o semi-barbari che occupano lo spazio politico dopo la sua caduta: si pensi a Odoacre (430 ca.-493) e a Teodorico (454 ca.-526). Forte, a maggior ragione, permane nella popolazione romana, che, addebitando la caduta dell’impero prevalentemente all’aggressione esterna, pare non avere percepito il degrado e la crisi interna di tale istituzione, se non, per alcuni suoi esponenti intellettuali, sul fronte strettamente morale. È certo però che a più di tre secoli dalla caduta in Occidente quello che rimane è prevalentemente ciò che della romanità è stato tramandato nel mito o nella cultura del personale ecclesiastico, secolare e regolare. L’impero romano si è sempre interpretato nella prospettiva di una missione civilizzatrice nella quale l’opera di pacificazione e di estensione del diritto a tutti i popoli ricopre un ruolo fondamentale. Anche nei momenti più oscuri e brutali della sua storia non è mai venuta meno questa autointerpretazione, che francamente stupisce, perché non doveva essere spesa davanti a nessun «tribunale della storia»: l’impero potrebbe costituire la pura manifestazione di un potere illimitato, ma sente il bisogno di legittimarsi su un piano giuridico più elevato. Per i cristiani poi, l’ultimo impero dell’apocalittica scritturale, l’impero che si è abbeverato del sangue dei santi martiri, con la conversione si trasforma nella struttura provvidenziale che trattiene lo scatenamento del male dei tempi finali. Questo precedente immenso costituito dall’impero romano, l’unico a disposizione dei nostri antenati, è alla base di qualsiasi successiva renovatio romani imperii, da quella di Carlomagno a quella di Ottone I, come di qualsiasi idea di translatio imperii — dal popolo romano all’imperatore, da Costantino a Papa Silvestro I (314-336), da Papa Leone III a Carlomagno, dai «greci» di Costantinopoli ai franchi e ai tedeschi — successivamente addotta, a ragione o a torto, come motivo di legittimità. Quanto poi all’eredità giuridica di Roma — si pensi al Digesto di Giustiniano (482-565) — essa rimane pressoché sconosciuta in Occidente per circa cinque secoli, fatidici per la formazione dell’impero, ritornando alla luce solo ai tempi di Federico I: il suo ruolo sarà però ambiguo, servendo tanto all’impero che al Papato e alle nascenti monarchie nazionali contro di esso.
D. Esaminando la storia del Sacro Romano Impero, sembra di ravvisare in quest’ultimo una condizione di permanente debolezza o inefficacia, in altri termini di relativo insuccesso pratico. Quali ne sono le cause principali?
R. I motivi di debolezza mutano o variano d’importanza a seconda del momento storico a cui ci riferiamo. Anche in questo caso occorrono alcune considerazioni preliminari. L’impero cresce accanto e dà una forma politica a una parte significativa della civiltà cristiana d’Occidente, una realtà mutevole che, contrariamente a quanto pensa qualche ben intenzionato ma ingenuo apologeta del Medioevo, non è frutto di una ricetta sperimentata, di un progetto compiuto e onnicomprensivo. Il Medioevo è il periodo in cui nasce in Occidente una civiltà battezzata, che cioè riconosce pubblicamente la signoria di Cristo sul mondo e sulla storia, in tutti i suoi aspetti, anche sociali e istituzionali e non solo individuali e privati. Tale tentativo è stata una lenta costruzione, con i mattoni di una civiltà greco-romana pagana e di popoli non integralmente assunti in tale civiltà o a essa completamente estranei, portatori di valori diversi da quelli classici e cristiani ma a loro modo non radicalmente avversi, e quindi, seppure talvolta faticosamente, a essi riconducibili. Tutto ciò molto spesso in condizioni di crisi interna o di minaccia esterna. Una lentissima, complessa acquisizione, sempre provvisoria e periclitante, come si addice a un corpo comunque segnato dal peccato originale. In questa luce, probabilmente dovremmo avere una maggiore comprensione e un maggiore apprezzamento per quanto conseguito dalla società medioevale e, al suo culmine, dall’impero stesso, che «non fu un’autocrazia della spada ma della legge, essa stessa soggetta alla legge di natura che i pensatori medioevali riconoscevano come espressione della volontà di un Dio giusto; un’autocrazia che non raffreddava e non faceva appassire, ma che, almeno in Germania, guardava con favore alla libertà municipale e dovunque faceva del suo meglio per il sapere, per la religione, per l’intelligenza» (p. 464). Ciò premesso, esaminiamo i principali elementi di debolezza dell’esperienza imperiale. Innanzitutto, riguardo alla sua pretesa di universalità, una base territoriale tutto sommato limitata, dovuta sia alle modalità storiche della sua nascita ― la funesta divisione dell‘impero carolingio ― sia alle vicende politico-militari successive, sia, mi si conceda il bisticcio, al non intrinseco «imperialismo» dell’impero. Non pretende mai se non un primato d’omaggio da parte delle altre nazioni della Cristianità e, anche quando mostra un’oggettiva e pesante tendenza all’espansione, come avviene verso Oriente, non gli sono estranee le motivazioni sia strategiche — la difesa da plurisecolari minacce da quel settore geografico —, sia missionarie.
Altro elemento di debolezza è una catena del comando particolarmente fragile e complicata, caratteristica della sua natura sostanzialmente feudale, che permane per gran parte della sua storia e che lo renderà assai poco competitivo, riguardo alle risorse militari ed economiche, nei confronti dei nascenti Stati nazionali moderni, ben più efficaci da questo punto di vista. A ciò occorre aggiungere l’incertezza del sistema di designazione dell’imperatore, che la «Bolla d’Oro» (1356) dell’imperatore Carlo IV (1316-1378) sembra addirittura istituzionalizzare attraverso il rigido meccanismo dei sette elettori, proprio nel momento storico in cui i principi tentano di acquisire maggior potere rispetto all’imperatore.
Ancora, l’impero sta o cade assieme all’altro universale, la Chiesa, alla cui protezione è fin dall’inizio votato e che ne benedice la funzione. Ne scaturisce quindi un indebolimento ogniqualvolta sorgano problemi fra i due luminaria magna, ma soprattutto nel momento della rottura dell’unità religiosa del continente costituito dalla Riforma e, successivamente, con la progressiva secolarizzazione dell’Europa.
Solo finalmente occorre segnalare una progressiva identificazione dell’impero con le stirpi germaniche, da cui oggettivamente deriva il principale sostegno feudale. A onor del vero, questa identificazione non viene assolutamente percepita né dagli imperatori, nonostante che la rissosità e la frequente infedeltà dell’elemento italiano e particolarmente romano potesse provocarli in tal senso, né dai popoli dell’impero: «All’imperatore fu concesso il diritto all’obbedienza da parte della Cristianità non come capo ereditario di una tribù vittoriosa o come signore feudale di una porzione di superficie terrestre, ma in quanto solennemente investito di una funzione» (p. 197). Vedere, per esempio, nella Lega lombarda un’esperienza di proto-risorgimento italiano è ampiamente antistorico; mentre andrebbero approfondite in altra direzione, rispetto a un presunto «imperialismo» tedesco, le resistenze che l’impero trova nella sua espansione verso l’Europa Centro-Orientale e Orientale.
D. La storia del Sacro Romano Impero è spesso scandita da momenti in cui si scontrano i luminaria magna della Cristianità: la lotta per le investiture, l’ostilità fra guelfi e ghibellini, le scomuniche di imperatori e le deposizioni di Pontefici. Che peso rivestono nell’interpretazione globale dell’impero cristiano d’Occidente?
R. L’elaborazione politica medioevale, almeno in una sua prima fase, quando non ha sufficiente accesso al pensiero politico greco e al tardo diritto romano, attinge principalmente a due elementi. Il primo è scritturale, quel «date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» che i vangeli sinottici riportano (cfr. Mt. 22,15-22, Mc. 12,13-17, Lc. 20,20-26); il secondo è costituito dall’Incarnazione e dalla diffusione del cristianesimo nel contesto dell’impero romano e, successivamente, dalla proclamazione del cristianesimo religione ufficiale di un impero sicuramente in preda a una crisi profonda, ma che costituisce ancora, agli occhi dei contemporanei, una costruzione politica di proporzioni immense. A parte qualche tentazione iniziale di rifiutare la sfera del politico come dimensione sostanzialmente inutile, o peggio ancora dannosa, per i credenti nell’imminenza della seconda venuta di Cristo, tentazione peraltro presto eliminata dalla vita della Chiesa, non solo non si contesta il debitum nei confronti di Cesare, ma si ricava dalle Scritture stesse la migliore giustificazione dell’obbligazione politica (cfr. Rm. 13,1-7; Tt. 3,1; 1Pt. 2,13-17), individuando per il potere un ruolo non meramente punitivo e repressivo, ma di protezione del diritto e di positiva promozione del bene: in altre parole, se ne riconosce l’autorità e la provvidenzialità. Carlomagno, il cui libro preferito è il De civitate Dei di sant’Agostino (354-430), considera il proprio impero non come espressione di una civitas terrena contrapposta alla civitas Dei, ma come la parte terrena della Chiesa, il «regno della pace eterna in questo mondo», secondo l’espressione del beato Alcuino di York (735 ca.-804), il suo principale consigliere. Il Papa è a capo della Chiesa, l’imperatore è a capo del mondo. L’impero, poi, è la forma politica più consona a rappresentare una società che si concepisce una, come una è l’umanità redenta. Nel caso dell’impero, non vi è un rapporto casuale e sporadico fra autorità spirituale e autorità temporale, ma un rapporto costante e organico, una «coabitazione» di Dio e di Cesare, rappresentati dalle due massime istanze universali, Papato e impero, e ciò genera frizioni. In termini apparentemente banali ma sostanzialmente corretti, il Papa deve evitare di diventare un semplice cappellano dell’imperatore e l’imperatore un semplice armigero del Papa. Da una parte il Papa deve garantire la libertas Ecclesiae, che può essere minacciata su due fronti: quando l’autorità politica si ingerisce direttamente nelle questioni ecclesiastiche, e quando, in un certo momento storico, gli uomini di Chiesa contraggono obbligazioni politiche nei confronti delle gerarchie temporali, con il rischio di una fedeltà divisa e di una secolarizzazione. Ciò scatena la cosiddetta «lotta per le investiture». Dall’altra parte, l’imperatore deve guardarsi da uno spinto clericalismo — qualificato dagli studiosi come «sacerdotalismo» — che, dilatando l’indiscussa superiorità del Papa ratione peccati, cioè qualora sia violata la legge divina e sia in gioco la salvezza delle anime, tende però a vedere il peccato ovunque, anche dove si ritengano lesi interessi eminentemente temporali del Papato, che agisce allo stesso tempo come giocatore e come arbitro. Il rapporto di distinzione e di collaborazione fra potere spirituale e potere temporale, tradizionalmente fondato sulla celebre lettera di Papa Gelasio I (492-496) all’imperatore d’Oriente Anastasio I (431-518), è ben sintetizzato da Bryce: «Sebbene l’una carica sia sottoposta all’altra come la vita dell’uomo sulla terra è meno preziosa della sua vita futura, l’autorità imperiale non è dunque, sulla base della più antica e solida teoria, delegata da quella papale, giacché, come abbiamo detto, Dio è rappresentato dal Papa non in ogni competenza […]; come sovrano della terra, Egli conferisce il suo mandato direttamente all’imperatore» (p. 186). Tale rapporto tende tuttavia a evolvere progressivamente nel senso di un tentativo di controllo del potere temporale da parte di quello spirituale non esclusivamente sul piano morale, fino a giungere all’affermazione che anche il potere temporale apparterrebbe al Pontefice (plenitudo potestatis) e sarebbe solo delegato all’imperatore: posizione normalmente attribuita a Papa Bonifacio VIII (1294-1303) e particolarmente osteggiata da Dante Alighieri (1265-1321). «Dichiarando il Papa il solo rappresentante in terra della Divinità, [tale teoria] concludeva che da lui, e non direttamente da Dio, l’impero deve essere detenuto — detenuto feudalmente, molti dissero» (p. 187). Quanto alla lotta fra i Comuni appoggiati dal Papa e l’imperatore, e, successivamente, fra guelfi e ghibellini, occorre espungere il molto che non appartenne alla sfera delle idee ma semplicemente a quella delle fedeltà umane o degli interessi politici ed economici delle parti in lotta. Certamente un contributo alla soluzione del problema sarebbe potuto venire da san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274) con il precisare il rapporto fra natura e grazia e il riaffermare la naturalità delle istituzioni politiche, ma, come ha efficacemente sintetizzato il costituzionalista e storico delle dottrine politiche francese Marcel Prélot (1898-1972), «il tomismo arriva troppo tardi per salvare il Sacro Impero col dare del sacerdotalismo un’espressione misurata ed accettabile da entrambe le parti. […] Il tomismo arriva troppo presto per combattere la violenta reazione temporalistica del secolo seguente ed impedire che le tendenze laiche rivestano lo spietato rigore d’un antisacerdotalismo radicale che stabilisca, in forme diverse, i primi lineamenti dell’assolutismo principesco» (Marcel Prélot, Storia del pensiero politico, trad. it., Mondadori, Milano 1979, p. 159).
D. Che ruolo giocarono il Rinascimento e la Riforma nella crisi del’impero?
R. Per quanto riguarda il Rinascimento, Bryce, piuttosto che esaminare l’atteggiamento nei confronti dell’impero dei suoi esponenti più emblematici, mette in rilievo la trasformazione generale della mentalità del tempo, dalla perdita della percezione di universalità dell’impero dovuta alla scoperta dei nuovi mondi, allo spostamento del focus di interesse sia degli intellettuali — «troppo impegnati con statue, monete e manoscritti per curarsi di ciò che accadeva a Papi o imperatori» (p. 409) —, sia delle nuove classi sociali emergenti, gli uni e le altre permeate da uno spirito secolare agli antipodi di quel misticismo medioevale che aveva reso i loro antenati asceti e crociati. L’impero, la cui forza risiede in un sistema di credenze e non in una struttura politico-militare, è svuotato di significato. La Riforma poi, gli assesta un colpo gravissimo, sia per ciò che riguarda la divisione della Cristianità occidentale, sia per la contestazione globale della Chiesa e del Papato, e per l’ulteriore incentivo alla rivolta dei principi tedeschi nei confronti dell’imperatore.
D. Che dire del crepuscolo dell’impero secondo l’opinione di Bryce?
R. Il declino e la scomparsa dell’impero coincidono con la sua fase asburgica, durata pressoché ininterrottamente oltre tre secoli. Pur non negando la qualità della Casa regnante, che anzi dichiara superiore — o comunque non inferiore — alle altre dinastie europee, Bryce non è tenero nei confronti degli Asburgo, reiterando nell’opera, a prescindere dal giudizio sui singoli sovrani, principalmente due giudizi: il primo riguarda l’eccessivo ossequio degli Asburgo nei confronti del Papato, il secondo riguarda il fatto di aver progressivamente trasformato l’impero in una monarchia territoriale dinastica e di aver subordinato la politica imperiale agli interessi della Casa d’Austria. Dobbiamo però aggiungere che Bryce non nasconde, anzi esamina con molta attenzione, ciò che nello stesso lasso di tempo si produce in Europa, che per dimensioni e per conseguenze travalica ampiamente le problematiche affrontate dall’impero nel periodo medioevale. La fase asburgica coincide cronologicamente con l’irruzione della modernità nella vita politica europea. L’affermazione di potenti monarchie nazionali che, sul lato teorico e pratico, contestano la supremazia imperiale, nonché di potentati locali, particolarmente italiani, animati da una morale politica secolarizzata che non riconosce più gli universali dell’impero e del Papato come propri referenti; le conseguenze morali e politiche della Riforma protestante e delle guerre di religione — soprattutto la Guerra dei Trent’anni (1618-1648) — e della Pace di Westfalia (1648), che cristallizza una situazione di estrema frammentazione del quadro europeo; le pesanti perdite territoriali — si pensi alla Svizzera, ai Paesi Bassi e all’Italia — e la situazione di continua tensione, specialmente con Francia e Svezia: tutto ciò porta a un’inarrestabile declino dell’impero, trasformato in un insieme magmatico e instabile di Stati sovrani che agiscono indipendentemente e imprevedibilmente sulla scena europea. In tale situazione, avranno facile gioco la Francia rivoluzionaria e Napoleone Bonaparte.
D. Parrebbe dunque che l’idea imperiale abbia avuto più successo nelle menti e nei cuori dei nostri predecessori di quanto ne abbia avuto l’impero nell’incarnarla.
R. Come dice Bryce, vi dev’essere stato qualcosa a condurre dei re germanici così lontani dalla patria per una corona che spesso non aggiungeva nulla alla loro potenza, nonché a indurre popoli diversi, anche molto civilizzati come quelli italici, a seguire re stranieri e barbari: la percezione che l’impero fosse «un’istituzione divina e necessaria, che aveva i suoi fondamenti nella stessa natura e nell’ordine delle cose» (p. 171), necessaria a guidare l’ecumene cristiana nella pace e nell’ordine e a difenderla contro i nemici esterni, necessaria perché, nell’ambito delle compagini politiche, piccole realtà locali potessero sopravvivere e prosperare accanto a grandi Stati nazionali. Così l’impero è stato pensato dalle migliori menti del tempo, così è stato concepito da Dante, per il quale, se regnum e civitas sono le realtà attraverso cui si realizza la naturale socialità dell’uomo, la promozione della humana civilitas, il fine terreno di tutte le comunità umane, richiede l’impero, la cui anima ed essenza Bryce enuncia nell’Epilogo dell’opera: «l’amore della pace, il senso della fratellanza dell’umanità, il riconoscimento della sacralità e della supremazia della vita spirituale» (p. 532).