Giovanni Cantoni, Cristianità n. 287-288 (1999)
Articolo ampiamente anticipato, senza note e con il titolo redazionale Un’appendice «calda» della guerra fredda, in Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, anno XLVIII, n. 73, 1-4-1999, p. 5.
Kosovo, ex Jugoslavia, marzo 1999: un’appendice «calda» della «guerra fredda»
1. Prendo atto dell’avversione percentuale dell’opinione pubblica italiana per l’intervento delle forze della NATO, la North Atlantic Treaty Organisation, nella ex Jugoslavia (1); prendo atto dell’avversione per essa anche di ambienti seriamente conservatori, come quelli statunitensi evocati da Marco Respinti (2); prendo atto della storia etnica della Penisola Balcanica (3).
Ma niente mi convince dell’inopportunità di tale intervento, non solo nella fase attuale, ma anche in quelle ulteriormente previste. A questo m’inducono quelli che ritengo i termini del problema, perché — lo scrivevo già due anni fa, precisamente nel marzo del 1997 a proposito dell’esodo degli albanesi verso l’Italia — ancora una volta l’albero nasconde la foresta (4). Dieci anni fa, nel 1989 — un decennio pieno di fatti ma non di altrettanta riflessione e di conseguente comprensione di essi — implodeva il sistema imperiale socialcomunista, almeno nella parte raccolta attorno al suo fuoco fondativo, cioè all’URSS. Tale implosione, frutto di una decisione politica e di un progetto di lungo respiro, nati dalla consapevolezza della corsa perduta con l’Occidente da parte di Yuri Vladimirović Andropov (1914-1984) — trascuro ipotesi più articolate e più complesse —, ha comportato l’avvio e la realizzazione di una transizione, contemporaneamente voluta perestrojka, «ristrutturazione» — «cambiare tutto perché non cambi nulla» quanto all’allocazione del potere, non certo quanto al regime e ai suoi paradigmi —, e subìta glasnost, «trasparenza» (5). «Facendo riferimento esclusivamente alla periferia di tale sistema imperiale — cito dal mio articolo del 1997 —, in Albania il tutto si è svolto senza la precisione teutonica con cui la successione si è realizzata nella Repubblica Popolare Tedesca e nella germanizzata Cecoslovacchia, però anche senza le “difficoltà” incontrate da tale processo per breve tempo in Romania e in via di cronicizzazione nella ex Jugoslavia» (6).
2. Ebbene, quella che in molti luoghi è stata una facile transizione, nel corso della quale una nomenklatura di seconda fila — o la seconda fila della nomenklatura — ha sostituito la precedente, in altri luoghi tale transizione ha incontrato resistenze, con un diverso grado di consapevolezza, che vanno dalla semplice vischiosità storica alla resistenza vera e propria. E la resistenza è stata eccitata non solo dall’ipotesi della sostituzione, ma anche — se non soprattutto — da quella di un ridimensionamento del potere, non tanto quanto alle sue dimensioni determinate dal regime, quanto a quelle fisiche, geografiche. Questo è accaduto nella Penisola Balcanica, nella quale diverse etnie, diverse culture e diverse storie — quindi diverse nazioni — si sono staccate dal più recente surrogato «nazionale» degl’imperi austro-ungarico e ottomano, la cosiddetta Repubblica Socialista Federativa di Jugoslava — preceduta nel 1918 dal Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, dal 1929 Regno di Jugoslavia —, ridotta dal 1992 a Repubblica Federale di Jugoslavia. Tale distacco ha esaltato l’avversione per la transizione da parte della nomenklatura socialcomunista serba. E l’avversione per la transizione da parte della nomenklatura serba — militare per il carattere terzomondiale del mondo balcanico — s’è espressa e si esprime attraverso l’irrigidimento nei confronti del popolo kosovaro, l’ultimo brandello non serbo a disposizione del potere della nomenklatura socialcomunista militare serba. Alla ricerca del consenso popolare, del sostegno popolare — sempre necessario, ma soprattutto in guerra — questa nomenklatura non rilancia temi ideologici, che non avrebbero eco di sorta: quanto mobiliterebbe il richiamo all’«internazionalismo proletario»? Quale lettura marxista o marxiana, per quanto «deviazionista» — siamo o no in Jugoslavia? — darebbe conto della repressione esercitata dal Proletariat sul Lumpenproletariat, dal «proletariato» sul «sottoproletariato»? Perciò non resta che evocare temi religiosi, etnici e nazionali, mirati a seconda del grado di secolarizzazione dei destinatari, cui rispondono temi analoghi, allo stato particolarmente flebili, dalla parte dei kosovari. Ma tali temi, che alimentano la propaganda e l’interpretazione massmediatica dei fatti, non sono all’origine dello scontro, come si afferma quando si dice trattarsi di una guerra di religione o scatenata da contrapposti nazionalismi. Lo slancio religioso e patriottico ha — o dovrebbe avere — un noto precedente negli appelli alla Santa Russia lanciati da Iosif Visarionović Djûgaŝvili, detto Stalin (1879-1953), in occasione del dilagare nell’URSS delle forze armate del Terzo Reich nel corso della seconda guerra mondiale, a promozione della Grande Guerra Patriottica. Quindi quella all’opera nella Repubblica Federale di Jugoslavia è molto chiaramente una vecchia classe dirigente — non obbligatoriamente una classe dirigente di vecchi, una gerontocrazia —, che non solo non se ne vuole andare, ma lamenta la dolorosa mutilazione, la decurtazione di una presunta «eredità legittima» e s’attacca disperatamente a quanto di tale eredità non ha ancora preso il volo, con regolare riconoscimento notarile — cioè diplomatico — da parte della comunità internazionale.
3. Quindi quanto in corso è un’appendice «calda» della terza guerra mondiale, la cosiddetta «guerra fredda» (1946-1989), che pure ha avuto espressioni «calde» per un totale — a tutto il 1985 — di circa venti milioni di morti (7). Perciò viene correttamente combattuta dalla NATO; è condotta, benché in modo sofferente, dalle sinistre, nomenklature socialcomuniste occidentali di seconda fila o generazione; perciò è avversata dalle superstiti «quinte colonne» culturali vietcong o «cubane». E però, felicemente, fornisce segnali della reale fine del sistema imperiale socialcomunista, perché neppure il successore di Andropov e di Mikhail Sergeevič Gorbaciov, Evgheni Maksimovič Primakov, può imporsi: la sua «autorevolezza» è autorità ormai disgiunta dal potere.
4. Qualcuno mi potrebbe chiedere come faccio ad apprezzare William Jefferson «Bill» Clinton e Anthony Charles Lynton «Tony» Blair. Rispondo come rispondevo nel 1997: «[…] in un mondo che offre soltanto l’alternativa fra “carristi” e craxiani, con chi schierarsi, sia all’interno che all’estero?» (8). Potendo — volendo —, dovevamo intervenire oppure no nel 1956 in Ungheria? Nel 1968 in Cecoslovacchia? E oggi, come in altre stagioni storiche da non dimenticare, i lupi si vestono ancora da agnelli. Inoltre sono convinto che la libertà, per quanto limitata e inquinata, sia per i più — per la povera gente come i kosovari, come i serbi e come me — un’occasione di gran lunga più felice rispetto al Terrore. Finalmente — ma è l’ultimo argomento — una guerra non voluta e con una reale, nobile motivazione qual è la pace nei Balcani, combattuta insieme unisce: e Dio solo sa quanto l’Occidente in genere e l’Europa in specie abbiano bisogno di ritrovare elementi di unità, di politica che si distingua da un servizio all’economia.
Giovanni Cantoni
Note:
(1) Cfr. Italiani spaccati a metà sulla guerra, in Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, 31-3-1999.
(2) Cfr. MARCO RESPINTI, Dopo le bombe, un’ Europa più piccola…, ibidem.
(3) Cfr. ANTONIO MASSIMO CALDERAZZI, Quelle tante etnie contrapposte…, ibid., con un efficace grafico.
(4) Cfr. il mio Marzo 1997, guardando oltre il Canale di Otranto: qualche considerazione sul passato e sul presente della crisi albanese, in Cristianità, anno XXV, n. 264, aprile 1997, anticipato senza note in Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, 19-3-1997.
(5) Cfr., per esempio, GUIDO GIANNETTINI, URSS. Il crollo. La storia segreta della perestrojka da Andropov alla dissoluzione dell’impero sovietico, Settimo Sigillo, Roma 1992.
(6) G. CANTONI, art. cit.
(7) Cfr. LAWRENCE FREEDMAN, Atlas of global strategy, Facts on File, New York 1985, p. 51.
(8) G. CANTONI, art. cit.