Giovanni Paolo II, Cristianità n. 287-288 (1999)
Discorso all’Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita a conclusione dei lavori sul tema La dignità del morente, del 27-2-1999, nn. 1-3, in L’Osservatore Romano, 28-2-1999. Titolo redazionale.
Radici e dimensioni dell’abbandono del morente
La vita dei morenti e dei malati gravi […] è oggi esposta ad un insieme di pericoli, che si manifestano a volte in forme di trattamento disumanizzanti, altre volte nella non considerazione ed anche nell’abbandono, che può giungere fino alla soluzione eutanasica.
Il fenomeno dell’abbandono del morente, che si sta estendendo nella società sviluppata, ha diverse radici e molteplici dimensioni […].
C’è una dimensione socio-culturale, che va sotto il nome di «occultamento della morte»: le società, organizzate sul criterio della ricerca del benessere materiale, sentono la morte come un non senso e, nell’intento di cancellarne l’interrogativo, ne propongono a volte l’anticipazione indolore. La cosiddetta «cultura del benessere» porta spesso con sé l’incapacità di cogliere il senso della vita nelle situazioni di sofferenza e di limitazione, che accompagnano l’avvicinamento dell’uomo alla morte. Una simile incapacità risulta acuita quando si manifesta all’interno di un umanesimo chiuso al trascendente, e si traduce non di rado in perdita della fiducia per il valore dell’uomo e della vita.
C’è poi una dimensione filosofica e ideologica, in base alla quale si fa appello all’autonomia assoluta dell’uomo, quasi che egli fosse l’autore della propria vita. In questa ottica si fa leva sul principio dell’autodeterminazione, e si giunge anche ad esaltare il suicidio e l’eutanasia come forme paradossali di affermazione ed insieme di distruzione del proprio io.
C’è inoltre una dimensione medica ed assistenziale, che si esprime in una tendenza a limitare la cura dei malati gravi, inviati in strutture sanitarie non sempre capaci di fornire un’assistenza personalizzata e umanizzata. La conseguenza è che la persona ospedalizzata si trova non di rado fuori del contatto con la famiglia ed esposta ad una sorta di invadenza tecnologica che ne umilia la dignità.
C’è infine la spinta occulta della cosiddetta «etica utilitaristica», che regola molte società avanzate sulla base dei criteri di produttività e di efficienza: in quest’ottica il malato grave e il morente bisognoso di cure prolungate e selezionate vengono sentiti, alla luce del rapporto costi-benefici, come un peso ed una passività. Questa mentalità spinge, quindi, ad un diminuito sostegno alla fase declinante della vita.
È questo il contesto ideologico al quale attingono le sempre più frequenti campagne d’opinione miranti alla instaurazione di leggi a favore dell’eutanasia e del suicidio assistito. I risultati già ottenuti in alcuni Paesi, ora con sentenze della Corte Suprema ora con voti del Parlamento, sono la conferma della diffusione di certi convincimenti.
Si tratta dell’avanzata di quella cultura della morte, che emerge pure in altri fenomeni riconducibili in un modo o nell’altro ad una scarsa valutazione della dignità dell’uomo: tali sono, ad esempio, le morti per fame, per violenza, per la guerra, per mancanza di controllo nel traffico, per scarsa attenzione alle norme di sicurezza sul lavoro.
Di fronte alle nuove manifestazioni della cultura della morte la Chiesa ha il dovere di mantenere fede al suo amore per l’uomo «che è la prima strada che essa deve percorrere» (Redemptor hominis, 14). Essa ha oggi il compito di illuminare il volto dell’uomo, in particolare il volto del morente con tutta la luce della sua dottrina, con la luce della ragione e della fede; essa ha il dovere di chiamare a raccolta, come ha già fatto in diverse occasioni cruciali, tutte le forze della comunità e delle persone di buona volontà, perché attorno al morente si stringa con rinnovato calore un vincolo di amore e di solidarietà.
Giovanni Paolo II