Oscar Sanguinetti, Cristianità n. 271-272 (1997)
«Le insorgenze anti-giacobine, il problema dell’identità nazionale e la “morte della patria”. Spunti per una rinascita della “nazione spontanea”»
L’Insorgenza, momento rilevante della storia della nazione italiana
Al vivace dibattito in corso ormai da diversi anni intorno all’identità nazionale italiana sembra mancare un «tassello», assai importante ai fini esplicativi del processo di formazione della nazione italiana. Alludo al fenomeno dell’Insorgenza anti-giacobina e anti-napoleonica che si verificò pressoché ovunque in Italia, in concomitanza di tempo e di luogo con l’ invasione rivoluzionaria francese alla fine del secolo XVIII. Primo e rude momento di contatto della società italiana con la modernità politica di origine illuministica, l’Insorgenza costituisce una pagina di storia italiana ignota ai più, ma che, alla luce delle prime ricerche accurate, acquista una fisionomia e una portata sempre più rilevanti.
Il secondo convegno dell’ISIN, l’Istituto per la Storia delle Insorgenze
A questa «tessera» è stato dedicato il secondo convegno nazionale dell’ISIN, l’Istituto per la Storia delle Insorgenze, organizzato in collaborazione con Alleanza Cattolica e con Cristianità nonché con il patrocinio del Settore Trasparenza e Cultura della Regione Lombardia. Articolato in due sessioni, si è svolto domenica 26 ottobre 1997 a Milano, al Centro Convegni dell’Hotel Michelangelo, presenti circa duecento persone, fra le quali don Luigi Negri, ordinario di Teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, il magistrato Francesco Mario Agnoli, già membro del Consiglio Superiore della Magistratura e storico dell’Insorgenza, i consiglieri regionali dottoressa Agnese Pilat, Romano La Russa e Pietro Macconi, l’assessore al Turismo e alla Moda del Comune di Milano, dottoressa Serena Maestrelli Manzin, e il capogruppo di Alleanza Nazionale in consiglio comunale Roberto Predolin.
Messaggi sono giunti da S. E. mons. Alessandro Maggiolini, vescovo di Como, dall’on. Alfredo Mantovano, dall’assessore alla Formazione Giovani e Lavoro della Regione Lombardia, ingegner Virginio Guido Bombarda, dall’assessore all’Agricoltura della stessa Regione, Francesco Fiori, e dal professor Luigi Prosdocimi, emerito di Storia Medioevale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Il tema de Le insorgenze anti-giacobine, il problema dell’identità nazionale e la «morte della patria». Spunti per una rinascita della «nazione spontanea» — questo il titolo dell’incontro — è stato svolto attraverso cinque relazioni di studiosi provenienti da diverse aree del paese.
L’intervento dell’assessore alla Cultura della Regione Lombardia
Prima di dare inizio ai lavori — introdotti e coordinati dal dottor Gabriele Fontana, dell’ISIN —, il consigliere regionale Pietro Macconi ha dato lettura del testo dell’intervento di apertura che l’assessore alla Cultura della Regione Lombardia, avvocato Marzio Tremaglia, assente per concomitanti impegni pubblici, avrebbe dovuto tenere al convegno. In esso si dice, fra l’altro, che il convegno — «[…] che sento di poter chiamare anche “nostro” […]: la Regione Lombardia ha infatti sostenuto il ciclo di attività, studi e ricerche che in questi ultimi anni ha consentito di riaccendere le luci dell’attenzione e della conoscenza su un periodo della nostra storia rimosso ed ignorato» — «costituisce [non solo] una riflessione di eccezionale attualità sulla realtà e verità della nostra Storia [e] su quali fossero le radici del nostro popolo alla fine del XVIII secolo, ma [anche] su quali siano tuttora le fondamenta che dobbiamo conoscere, se vogliamo procedere oltre nella ricostruzione morale dell’Italia e degli italiani. […]
«Per far questo, non è possibile continuare ad accettare versioni della storia italiana ispirate a ideologie e modelli culturali sconfitti dalla verità e dagli uomini, ben prima che dai fatti. La iniziale ironia e scetticismo che lo studio delle Insorgenze antigiacobine aveva suscitato nasceva esattamente da un tale atteggiamento di presunzione e supponenza accademico e culturale, nasceva dalla stessa mentalità secondo la quale l’Unità d’Italia si sarebbe dovuta compiere programmaticamente contro la tradizione cattolica e le radici autentiche dei nostri paesi, delle famiglie e delle contrade. Per rammentare Don Bosco, in troppi ritennero che “fare l’Italia” equivaleva a protestantizzarla, trasformarla in ciò che non era mai stata né poteva essere. Confondere la modernizzazione con lo sradicamento, la costruzione di uno Stato unitario con la cancellazione degli antichi legami di identità e tradizione, la battaglia contro la Fede con la lotta all’oscurantismo: questi e molti altri voluti equivoci hanno condizionato anche quel grande e straordinario processo storico che portò all’Unificazione politica».
La comunicazione del professor Marco Tangheroni
In apertura dei lavori Marco Tangheroni, ordinario di Storia Medioevale nell’università di Pisa, chiamato a presiedere il convegno, ha svolto riflessioni di carattere storico-filosofico. Lo studioso pisano ha affermato che la storia, nella prospettiva classica e cristiana, non conosce, come in quella hegeliana o marxista, un ineluttabile «senso», che «[…] si macchia di sangue, inevitabilmente criminalizzando chi a questo preteso senso della storia si oppone». Le insorgenze sono, in questa prospettiva, «[…] uno spiacevole incidente […] e vanno sostanzialmente rimosse, col silenzio o con la distorsione, dalla memoria storica di una nazione». La storia invece conosce ineluttabilità e necessità solo negli atti — neppure Dio può fare sì che quanto è accaduto non sia accaduto —, ma mai nelle premesse agli atti: «[…] non si può trasferire al prima la necessità che è solo del dopo». La storia è luogo e momento di esercizio della virtù naturale della prudenza, che si attua nella scoperta e nel riconoscimento della realtà, quindi — rivolgendosi a fatti passati — alla ricostruzione di una corretta memoria storica, che non va disgiunta dal «pietoso» ricupero della memoria dei fatti e degli uomini che ne sono stati attori. La priorità dello studio e dell’interpretazione scientifici dell’Insorgenza, così come ha scelto di fare l’ISIN, costituisce l’unica arma per rompere finalmente il silenzio su di essa ed è infine da privilegiare rispetto al puro aspetto celebrativo, per altro lecito e doveroso.
La relazione di Marco Invernizzi, presidente dell’ISIN
Il dottor Marco Invernizzi, storico del movimento cattolico e presidente dell’ISIN, ha poi tracciato — nel suo intervento dal titolo A due anni dall’inizio del bicentenario dell’Insorgenza italiana — un bilancio dei primi due anni di attività dell’Istituto e del bicentenario dell’Insorgenza italiana, soffermandosi in particolare sull’impostazione del problema storico-politico che l’Insorgenza pone (1).
Sandro Petrucci: le insorgenze nell’Italia Centrale
Allo storico marchigiano dottor Sandro Petrucci, corrispondente dell’ISIN, è stato affidato il compito di ricostruire — in una relazione intitolata 1797-1798: le insorgenze dell’Italia Centrale nel Triennio Giacobino — i lineamenti del secondo e del terzo anno dell’Insorgenza, il 1797 e il 1798, quando l’avanzata degli eserciti rivoluzionari francesi investe i territori pontifici delle Marche, dell’Umbria e del Lazio, i cui abitanti insorgono spontaneamente dando vita a numerosi episodi di resistenza armata e di guerriglia, seguiti dalla sanguinosa repressione da parte dell’invasore. Gli accadimenti di maggior rilievo sono l’insorgenza e l’incendio del paese di Tavoleto, nell’Urbinate, nel marzo del 1797; l’insurrezione romana — il cosiddetto Vespro Romano —, esplosa a partire da Trastevere nel febbraio del 1798; la vasta insurrezione del Dipartimento del Circeo — che interessa Anagni, Frosinone e Ferentino — nel luglio e nell’agosto del 1798.
Dall’ampia narrazione — anche se resa necessariamente sommaria dalle ragioni del tempo — è emerso il quadro d’insieme di una vasta reazione popolare a sfondo religioso e patriottico — la difesa del convento saccheggiato o della «piccola patria» del borgo —, intensa e reiterata, talvolta durevole, quasi sempre efficace nel breve periodo, cui non è estraneo, come in altri episodi analoghi, l’elemento nobiliare, e che si rivela non priva, particolarmente nei suoi ultimi momenti, di coordinamento da parte dello Stato pontificio.
Francesco Pappalardo: la cultura politica pre-unitaria
Nella sessione pomeridiana, sempre presieduta dal professor Tangheroni, il dottor Francesco Pappalardo, storico napoletano e direttore dell’IDIS, l’Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, di Roma, ha operato il passaggio dal piano descrittivo a quello interpretativo. Nella sua relazione — dal titolo La cultura politica pre-unitaria e il concetto di «nazione spontanea» — egli ha ricordato come la nazione italiana costituisca una eccezione rispetto al modello di unificazione degli altri popoli europei in quanto essa si forma assai presto, alla fine del Medioevo, principalmente sulla spinta del cristianesimo e del retaggio romano, nonché per influsso dei «contenitori» sovra-nazionali costituiti dall’Impero cristiano e dalla Chiesa. Luogo d’incontro fra grecità, romanità e cristianesimo, l’Italia presenta una felice coniugazione di amore per il particolare e di anelito verso l’universale e matura una «vocazione» e una «missione», che ne fanno — come insegna Papa Giovanni Paolo II — un «laboratorio dello spirito europeo» e, secondo la felice espressione di Federico Chabod (1901-1960), un’autentica «istitutrice d’Europa».
Analizzando poi i lineamenti della cultura politica dell’Italia pre-unitaria, Pappalardo, utilizzando la metafora dello Stato come «vestito» della società, ha poi messo in evidenza come l’Italia pre-unitaria si possa paragonare a una sorta di «guardaroba politico», che offriva una grande varietà di «abiti» su misura — monarchie, repubbliche, principati e comuni — ai vari popoli della Penisola. Le era propria una cultura politica che lasciava ampia autonomia alla società civile, nelle sue articolazioni locali e di ceto, conosceva forme di potere diffuse e variegate, con una bassa incidenza sociale della funzione statuale. L’Insorgenza ha avuto la funzione di rivelare nitidamente, anche se in negativo, come una cartina al tornasole, la realtà e la profondità delle radici della nazione italiana. L’esperienza napoleonica soffocherà tale «nazionalità spontanea» dalle molte forme politiche, ma, dopo la Restaurazione, il motivo unitario non sarà una priorità, anzi, il movimento neoguelfo propugnerà la conservazione della pluriformità politica, e tale motivo verrà fatto proprio solo dalla minoranza mazziniana, mentre i moderati e lo stesso Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861) fino al 1858 penseranno solamente a forme di unificazione politica intermedie; soltanto il brusco mutamento d’indirizzo degli anni dal 1859 al 1861 condusse all’imposizione di un «abito» uguale per tutti gli italiani. Si può dire comunque che l’Unità è piuttosto frutto di circostanze — rilevanti, come la fine del potere regolatore del Sacro Romano Impero — che di una dinamica interna all’Italia.
Fëdor Michailovic Dostoevskij (1821-1881) — ha ricordato Pappalardo — scrisse nel 1877: «[…] per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, […] un’ idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. […] Che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? è sorto un piccolo regno unito di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, cedendola al più logoro principio borghese».
Pappalardo ha concluso rammentando l’acuta prognosi — ormai di oltre vent’anni or sono — del politologo Francesco Rossolillo, secondo cui nel contesto di una futura accresciuta globalizzazione dei processi economici e politici — oggi in atto —, lo Stato nazionale nato dal Risorgimento avrebbe iniziato a venir meno, mentre sarebbe sopravvissuta e riaffiorata la «nazione spontanea», cui sarebbe occorso — e occorre — trovare nuovi «abiti politici».
Giovanni Cantoni: oltre la «morte della patria»
All’itinerario da percorrere per uscire da una condizione dove il senso di appartenenza nazionale sembra essersi estinto, una condizione in cui l’Italia è caduta dopo il fallimento della classe politica autrice dell’Unità, che culmina, ormai per comune consenso, nel crollo dell’8 settembre 1943 — definito da Ernesto Galli della Loggia «morte della patria», mutuando l’espressione dal magistrato e scrittore nuorese Salvatore Satta (1902-1975) —, è stato dedicato l’intervento conclusivo di Giovanni Cantoni, reggente nazionale di Alleanza Cattolica.
Partendo dalla constatazione del profondo disorientamento e svuotamento di significato indotti dall’uso indiscriminato e fungibile, a opera dei media, di termini come «patria», «Stato», «nazione», «etnia», l’intervento ha voluto anzitutto svolgere «[…] una pedestre explicatio terminorum, intesa a dar conto, in qualche modo a coprire un’area di reale culturale, nella quale si manifesta e si esprime una parte non esigua dell’impegno umano e della sua volontà di costruire, secondo l’espressione memorabile e profetica di Papa Pio XII, un “mondo migliore”». A tal fine occorre partire dall’uomo concreto, caratterizzato da una natura e da una storia, individuarne l’habitat, considerando via via per cerchi concentrici — secondo l’immagine del sociologo tedesco Georg Simmel (1858-1918) — la famiglia in cui nasce, l’ambiente fisico in cui si sviluppa, l’ambiente culturale — caratterizzato dalla religione, dalla lingua, dalla presenza di un pensiero riflesso e da una tradizione, che è sempre «critica» del legato ricevuto, come ricordava Charles Maurras (1868- 1952) —, le istituzioni e i costumi, la memoria storica e l’ethos, in cui la cultura si fa norma di vita; quindi si rende necessario prendere in esame le proiezioni sociali della sua esistenza, che si possono classificare in organismi naturali «trovati» dall’uomo davanti a sé: la famiglia, il parentado, il luogo di residenza; in organismi naturali «cercati» dall’uomo per la sua istruzione e formazione e per l’esercizio della sua professione; infine in organismi «volontari», per esempio quelli relativi al tempo libero. Solo così si può risalire alla nozione corretta di «popolo» — l’ambiente umano definito dall’organizzazione politica della società, ossia dallo «stato» della società —, di «etnia» — soprattutto un ambiente umano definito dal senso della propria individualità culturale e linguistica, senza escludere quella razziale —, di «nazione» — un ambiente umano caratterizzato essenzialmente dal senso della propria individualità storica —, di «Stato» — organizzazione della società, cioè di un popolo, di una nazione, di un’etnia, su un determinato territorio — e, infine, di «patria»: il territorio su cui si svolge e si è svolta la vita di un popolo, di una nazione, di un’etnia.
Infine Cantoni si è domandato quale identità si possa auspicare per l’Italia dopo la sua crisi con la «morte della patria». Premesso che le nazioni hanno lunga vita, in un certo senso «non muoiono», ma cambiano solo i regimi, la risposta è che l’identità italiana può essere riconquistata solo attraverso una rinnovata consapevolezza della fisionomia della «nazionalità spontanea» che le è propria, cioè attraverso un inventario di quanto di essa sopravvive, e conseguentemente tale identità deve essere nel presente e per il futuro modellata attraverso un’azione culturale sociale — familiare, ecclesiale, e così via — piuttosto che statuale. La nazione italiana, nata con largo anticipo come nazione rispetto ad altre nazioni, senza alcuna promozione da parte dello Stato, con più etnie e con più popoli al suo interno, e caratterizzata dalla pluriformità delle strutture statuali, è stata soffocata dal processo volto a mutarne l’identità e il secolare ethos, il processo denominato Risorgimento, di cui la crisi attuale mostra il sostanziale deficit, almeno a livello ideale e culturale. Lo Stato nazionale nato da tale processo, tuttavia, va assunto come fatto temporaneamente compiuto e possiede oggi, di fatto, una funzione di «ammortizzatore politico», costituendo una sorta di corpo intermedio, a difesa del corpo sociale contro l’omologazione europeistica e mondialistica — nel senso degenerativo di obiettivi di pur relativo valore — alla quale la nazione italiana è esposta. Un elemento che potrebbe favorire la riconquista di un rinnovato senso nazionale è il federalismo — al contrario della secessione, destinata a ripetere a livello locale lo stesso attentato all’ethos nazionale perpetrato dal Risorgimento —, purché rettamente inteso come federalismo «sociale», largamente coincidente con l’applicazione del «vecchio» principio di sussidiarietà della dottrina sociale della Chiesa, e non come federalismo «politico», del quale sono vistosamente assenti i presupposti, ossia l’esistenza di Stati da federare.
Giovanni Cantoni ha concluso il suo intervento collegando l’itinerario descritto — dall’uomo concreto, alla famiglia, alla cultura, dalla società all’etnia, dalla nazione allo Stato — alla prospettiva dell’uomo «[…] da accompagnare e da favorire nel suo itinerario terreno verso la patria di tutti, quella celeste (cfr. Fil. 3, 20), la “patria che non muore”».
Il convegno è stato annunciato da inserti pubblicitari apparsi nelle due domeniche precedenti su Avvenire e su il Giornale, nonché da un ampio articolo di Marco Respinti dal titolo Memoria dell’Italia profonda, apparso su il Secolo d’Italia il 25 ottobre. Echi dell’incontro si sono avuti in Avvenire del 30 ottobre 1997 e sul Secolo d’Italia dello stesso giorno, con un’ampia sintesi, a firma di Michele De Dosso.
Oscar Sanguinetti
Note:
(1) Cfr. MARCO INVERNIZZI, A due anni dall’inizio del bicentenario dell’Insorgenza italiana (1796-1799), in questo stesso numero di Cristianità, pp. 12-16.