Peter J. Stanlis, Cristianità n. 270 (1997)
Ultimo di tre saggi redatti per Cristianità a partire da un’articolata intervista più volte integrata e aggiornata in collaborazione con Marco Respinti, nel secondo centenario della scomparsa del pensatore angloirlandese Edmund Burke (1729-1797).
Conservatori e neoconservatori negli Stati Uniti d’America: da Edmund Burke a John Locke
Il vero conservatorismo, ispirato a Edmund Burke, si oppone al progressismo liberale e al neoconservatorismo, che ha la propria matrice nel pensiero di John Locke. Base dell’autentico conservatorismo è il credere in Dio e nella legge morale naturale, alla quale tutti sono vincolati. Molti neoconservatori mantengono invece un silenzio impenetrabile relativamente alla religione, perché sostanzialmente razionalisti.
I «poeti burkeani» e il caso di Robert Lee Frost (1874-1963)
Nella letteratura nordamericana contemporanea non esiste una vera e propria tradizione conservatrice, ma alcuni singoli scrittori si pongono certamente all’interno di questo filone culturale. Esiste, per esempio, l’«umanesimo» di Irving Babbitt (1865-1933) e di Paul Elmer More (1864-1937). Babbitt fu uno dei più severi critici statunitensi dell’ideologo svizzero Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) e ammirò il pensatore e statista angloirlandese Edmund Burke (1729- 1797) tanto da scriverne positivamente, pur non essendone uno studioso sistematico e rigoroso.
Docente di letteratura francese alla Harvard University, a Cambridge nel Massachusetts, nei primi decenni del secolo XX, Babbitt fu fra l’altro uno degli insegnanti di Thomas Stearns Eliot (1888- 1965). In seguito, i due finirono però per dissentire: Eliot criticò il maestro perché riteneva il suo umanesimo insufficiente a risolvere le profonde problematiche poste dalla società moderna e soprattutto perché non poneva la religione a fondamento della propria filosofia. Diversamente da Eliot, Babbitt fu buddista e riteneva questa visione del mondo migliore di quella cristiana. Quando, nel 1934, pubblicò After Strange Gods: A Primer of Modern Heresy (1), Eliot aveva sicuramente in mente persone come Babbitt che rifiutavano il cristianesimo, la religione dominante nella civiltà occidentale, per vagare in cerca di dèi in strani luoghi dell’Oriente: in realtà — a giudizio di Eliot — costoro mostrano di non aver affatto compreso la religione cristiana e inoltre non rendono minimamente giustizia alla cultura da essa prodotta. Nonostante tutto, comunque, Eliot ammirava molti elementi dell’umanesimo babbittiano perché lo considerava certamente assai migliore del naturalismo così diffuso nella società contemporanea secolarizzata ed epicurea.
Fra i poeti nordamericani, oltre a Eliot e a Robinson Jeffers (1887- 1962), un altro esempio rilevante di conservatorismo politico e sociale è quello costituito da Robert Lee Frost (1874-1963). A quest’autore ho dedicato uno studio basato sul materiale raccolto in tre delle otto estati trascorse a conversare con lui: da quegli scambi di vedute emergeva chiaramente come il poeta fosse un uomo certamente orientato in senso tradizionale (2). Fra l’altro, Frost ammirava Burke e ne condivideva ampiamente il pensiero relativamente alla Rivoluzione francese; quando lo incontrai per la prima volta, infatti, mi espresse significativamente approvazione e consenso per le tematiche contenute nel mio Edmund Burke and the Natural Law (3), a quell’epoca pubblicato da poco. Concordando con il pensatore angloirlandese, il poeta statunitense riteneva impossibile risolvere i complessi problemi della società contemporanea mediante le sole formule astratte degli «scienziati sociali» e di questo argomento tratta in diverse sue poesie.
Molto spesso, però, i critici letterari non individuano in Frost precise caratteristiche culturali conservatrici. Del resto, egli stesso evitava di legare il proprio nome al termine «conservatore»: non amante, in generale, delle etichette e delle categorie astratte, temeva che il suo pensiero potesse venir confuso con il concetto spurio di conservatorismo che taluni, profondamente diversi da lui, incarnavano. Il poeta statunitense ebbe rapporti di amicizia personale con alcuni ben noti progressisti, esponenti del Partito Democratico, quali il vice presidente Henry A. Wallace (1888-1965) — primo collaboratore di Franklin Delano Roosevelt (1882-1945) durante il terzo mandato presidenziale di questi (1940- 1944) — e il presidente John Fitzgerald Kennedy (1917-1963). Ma non è altrettanto noto che Frost ruppe i rapporti con entrambi.
Robert Lee Frost non professò comunque alcuna filosofia sistematica: sospettoso delle astrazioni — come ho già ricordato —, considerava la religione, la filosofia, la scienza, l’arte, l’ educazione, il pensiero politico e la storia dell’umanità, che si rivela nello svolgersi della società organizzata, quali forme diverse di «manifestazione», ovvero come metafore che rivelano alla mente umana gli elementi fondamentali della realtà materiale e di quella spirituale. Benché si definisse un «cristiano da Vecchio Testamento» nella tradizione di sant’Agostino d’Ippona (354-430), il poeta non si riconosceva come appartenente ad alcuna denominazione religiosa, anche se non fu per nulla l’agnostico indeciso descritto da alcuni critici letterari. Per quanto riguarda il pensiero sociale, considerava i conflitti fra giustizia e carità come il maggior problema della società moderna e, senza escludere aprioristicamente la seconda, propendeva fortemente per la prima. Fu dunque assai critico del socialismo, del progressismo liberale e di quanti definiva «stolti da Nuovo Testamento», ossia di quei cristiani che, romanticizzando il Discorso della Montagna di Cristo, predicano l’autonomia della carità rispetto alla giustizia non solo in ambito religioso, ma anche per tutti gli altri aspetti dell’esistenza. Secondo Frost, i cristiani di questo tipo sono, in realtà, roussoiani sentimentali quanto al pensiero e all’agire socio-politico, nonché laicisti quanto ai princìpi. Come Burke, il poeta statunitense era consapevole dell’importante ruolo svolto dalla civiltà classica greco-romana e dalla tradizione religiosa giudeo-cristiana nella formazione della società e della cultura occidentali, quelle nordamericane comprese. Egli faceva risalire le radici della democrazia statunitense all’antica Atene, desumendo alcune delle proprie idee conservatrici da Aristotele (384-322 a. C.), da Burke e dai primi Padri degli Stati Uniti d’America, e difendendo strenuamente l’«intento originario» dei fondatori della repubblica nordamericana; ma il suo conservatorismo fu più individualistico e meno «europeo» di quello di Eliot, proprio perché molto più direttamente legato all’ ideale costituzionale statunitense e meno alla religione formale.
Sebbene democratico quanto alla scelta partitica, Frost fu fiero avversario dell’ideologia del New Deal, «la nuova politica» rooseveltiana perseguita dal presidente statunitense dal 1933 al 1945, giacché non riteneva possibile che le azioni politiche di un governo potessero risolvere in maniera definitiva e assoluta i problemi della povertà, del crimine, della guerra, dell’ignoranza, della malattia e della miseria umana. A suo avviso, l’iniziativa dei singoli poteva essere valorizzata adeguatamente solo nell’ambito di una società libera, strettamente vincolata al diritto costituzionale (4).
John Locke (1632-1704) ed Edmund Burke (1729-1797)
L’excursus nel mondo letterario nordamericano offre un elemento ulteriore per valutare correttamente l’importanza della figura di Burke, la cui eredità culturale costituisce la pietra angolare del pensiero conservatore nordamericano a partire dagli anni 1950. Infatti, il movimento conservatore iniziò seriamente quando, nel 1953 (5 ), Russell Kirk (1918-1994) pose il pensatore angloirlandese all’origine di tale tradizione filosofica nel primo capitolo di The Conservative Mind: From Burke to Santayana (6). Nel 1955, poi, William F. Buckley Jr. iniziò la pubblicazione del periodico National Review con l’ intento di divulgare il conservatorismo attraverso il giornalismo: il fondatore del quindicinale, poi settimanale, che non era un accademico, per un certo periodo di tempo riconobbe anch’egli l’importanza basilare del pensiero burkeano.
Senza la riscoperta di Burke la riflessione politica nordamericana contemporanea sarebbe stata alquanto diversa, certamente più arida e più superficiale nonché meno fondata su princìpi. Infatti il pensiero politico necessita di fondamenti forti, capaci di raccoglierne i diversi interessi in un’unità significativa e, a mio avviso, il pensiero burkeano fornisce proprio questo elemento unificatore, facendo del conservatorismo una prospettiva filosofica completa, anche se non sistematica, invece di una semplice ideologia partitica. Tale tradizione politico-culturale, le cui origini storiche sono molto antiche, permette dunque uno sguardo globale sulla società umana, che ha i propri cardini nella religione e nel concetto d’immortalità. La visione della storia propria di Burke fu empirica, in quanto processo descrittivo degli eventi e delle condizioni umane, e provvidenziale, in quanto costellata di traguardi intesi come modelli normativi, capaci di orientare l’esperienza dell’uomo. Il presidente statunitense Abraham Lincoln (1809-1865) sembra aver coltivato una visione delle cose per certi versi analoga. Nei discorsi rivolti al Congresso al tempo della Guerra Civile nordamericana (1861-1865), espresse una concezione provvidenziale del cammino storico della repubblica degli Stati Uniti d’ America: insomma, non solo Dio esiste, ma non è indifferente alle vicende umane. Se si è atei o persone religiose che, nelle questioni concrete, attribuiscono di fatto poca importanza a Dio, l’idea di una visione provvidenziale della storia suona certamente come una colossale sciocchezza. A complicare i problemi subentrano i cristiani fondamentalisti dalla mentalità letteralistica che, inconsciamente, fanno la parodia della religione forgiando le armi con cui i nemici del cristianesimo attaccano la religione stessa, giudicata semplice superstizione o emozione irrazionale. Ma il pensiero di uomini dell’importanza di Burke e di Lincoln non può essere liquidato sbrigativamente sulla scorta dei rilievi di alcuni commentatori atei e agnostici.
In alcuni miei scritti — e nelle polemiche con i cosiddetti «neo- conservatori» nordamericani di cui dirò — ho definito il filosofo inglese John Locke (1632-1704) un rivoluzionario ideologico, valutando il suo pensiero in modo assai diverso da quanto fanno molti miei compatrioti. Sebbene Locke non possa esser definito conservatore neppure con la più fervida delle immaginazioni, è possibile leggerne anche molto attentamente le opere senza cogliere il radicalismo, o addirittura l’essenza rivoluzionaria, del suo pensiero politico e religioso. Il filosofo inglese cercò di dissimulare la propria ideologia per precise motivazioni storico-politiche che risalgono sia alla rivoluzione puritana e repubblicana, guidata dal Lord Protettore Oliver Cromwell (1559-1658) negli anni 1640 e 1650, sia alla cosiddetta Rivoluzione Gloriosa del 1688. La valutazione positiva del pensiero lockeano deve molto alle considerazioni espresse dal filosofo inglese a favore del tipo di democrazia che si è soliti identificare con la tradizione della cosiddetta rivoluzione nordamericana. Ma una disamina accurata della sua filosofia, che sappia spingersi oltre la descrizione delle semplici forme di governo e oltre le sole obbedienze di partito, mostra come i princìpi basilari del pensiero lockeano in merito alla natura e alla società umane non si pongano affatto — nonostante quanto affermato da diversi studiosi autorevoli — nel solco della tradizione conservatrice burkeana.
Certo, anche se il pensatore angloirlandese passò Locke sotto silenzio e nei numerosi volumi della sua corrispondenza vi fece solo scarsi riferimenti, alcuni commentatori — benché in modo fuorviante — ritengono che i due uomini appartenessero alla medesima tradizione culturale sulla base dell’adesione di entrambi alla Chiesa d’Inghilterra e al raggruppamento politico whig, «il partito del parlamento», nonché del giudizio favorevole da essi espresso sulla Rivoluzione Gloriosa del 1688. Ma, oltre certe somiglianze superficiali, il pensiero di Burke e quello di Locke presentano profonde differenze in merito a ognuno dei temi evocati — adesione alla Chiesa anglicana, appartenenza ai whig e giudizio positivo sulla Rivoluzione Gloriosa —, ai quali si aggiungono le concezioni irriducibilmente diverse sulla natura umana, sulla storia e sulla tolleranza religiosa, nonché l’inconciliabilità dello spirito e del temperamento. Non avendo adeguatamente esplorato queste differenze, molti noti studiosi sovrappongono semplicisticamente pensiero burkeano e pensiero lockeano. Per esempio, in Edmund Burke and the Revolt against the Eighteenth Century (7), del 1929, Alfred Cobban, lo storico inglese dell’Illuminismo, ha enunciato solo tre importanti differenze fra i due pensatori, mentre ne esistono almeno un’altra decina in grado di tratteggiare un quadro più completo, che elimina definitivamente l’ipotesi di una somiglianza filosofico-culturale fra i due pensatori anglofoni. Per indicarne solo una, Locke intendeva per religione quanto molti dei suoi contemporanei anglicani, e più tardi Burke, indicavano come deismo e come irreligione. Contrariamente al pensatore e statista angloirlandese, il filosofo inglese, benché nominalmente anglicano, elaborò una filosofia completamente secolarizzata e addirittura materialistica, dal momento che la sua concezione della natura umana non distingue spirito e materia a vantaggio della seconda. Trattando sia di Thomas Hobbes (1588-1679) che di Locke, John Y. Wolton ha fornito le prove di quest’affermazione in Thinking Matter: Materialism in Eighteenth-Century Britain (8).
Quando studiavo per il dottorato di ricerca all’università del Michigan, ad Ann Arbor, nella seconda metà degli anni 1940, presentai a docenti e a colleghi studenti una memoria in cui sostenevo che, sebbene Hobbes differisse fortemente da Locke quanto a scelte di schieramento politico — infatti il primo era membro del raggruppamento tory, «il partito del re», mentre il secondo era membro dei whig —, i fondamenti filosofici dei due pensatori erano sostanzialmente identici. L’«eroico» Locke non poteva però esser impunemente paragonato al disprezzato Hobbes e la mia relazione suscitò reazioni assai indignate, placate solo dall’autorevole intervento del professor Louis I. Bredvold — il direttore del dipartimento d’Inglese con cui studiavo — che mi dava ragione. Alcuni illustri studiosi del pensiero lockeano, come il professor Peter Laslett, hanno poi confermato quell’intuizione (9), già del resto presente in diversi saggi del critico letterario inglese William Hazlitt (1778-1830). Per esempio, in Mr. Locke a Great Plagiarist — contenuto nel ventesimo volume di The Complete Works of William Hazlitt, pubblicato a Londra negli anni 1930 — compare la trascrizione in parallelo di lunghi passaggi di Hobbes e di Locke da cui si evince come il secondo avesse semplicemente edulcorato il linguaggio del primo, così da risultare accettabile ai propri lettori whig.
Attualmente il dibattito su Locke e Burke assume importanza soprattutto in relazione alla questione del «neoconservatorismo», una corrente della destra nordamericana rilevante dagli anni 1970, generalmente nota — soprattutto all’estero — a partire dagli anni 1980, della quale spesso si ritiene dubbia la filiazione dal conservatorismo classico. Infatti, i neoconservatori esaltano Locke e ignorano Burke, se non quando — a motivo del profondo rispetto che i conservatori autentici nutrono nei suoi confronti — gli rendono un occasionale tributo verbale. Dato che Locke attrae sempre l’attenzione dei progressisti liberali e degli ideologi dottrinari, che ripongono una fiducia illimitata nella ragione individuale, i neoconservatori rivelano di essere solo dei neoliberali incapaci di accettare la visione del mondo del progressismo contemporaneo nella sua completezza, ma altrettanto mal disposti ad abbracciare la filosofia autenticamente conservatrice di Burke. Per inciso, è opportuno tener presente che, come i progressisti liberali, anche i neoconservatori aderiscono alla filosofia politica lockeana in quanto amica del governo popolare, mentre prendono le distanze dal monarchico Hobbes solo per motivi di partigianeria.
Veicolo di divulgazione di questo progressismo liberale dissimulato da conservatorismo è stato, negli ultimi quindici anni, il periodico National Review di Buckley, spostatosi «più a sinistra» sotto l’influsso neoconservatore. Alcuni neoconservatori furono, in origine, marxisti — generalmente trotzkisti antisovietici — o aderenti al Partito Democratico, entusiasti del progressismo del New Deal, che hanno man mano infiltrato il movimento conservatore, snaturandolo in molti suoi aspetti. Nel 1980, e poi ancora nel 1984, il movimento conservatore statunitense è riuscito a far eleggere Ronald Wilson Reagan alla presidenza, ma dall’inizio degli anni 1980 la coalizione politica che ottenne quell’importante vittoria elettorale è andata via via sfasciandosi e, anche dal punto di vista culturale, si sono registrati numerosi gravi cedimenti. Nel 1990, per esempio, la National Review pubblicò, con grande rilievo, un saggio dello studioso e uomo politico socialista irlandese Conor Cruise O’Brien, il cui obiettivo era quello di rivendicare il pensiero burkeano come parte del patrimonio progressista radicale (10): Burke venne dunque descritto come un outsider irlandese che, con ipocrisia, sosteneva pubblicamente l’aristocrazia whig inglese, accarezzando però in segreto le idee rivoluzionarie care allo stesso O’Brien. Inoltre, la National Review rifiutò di pubblicare una mia replica a quell’articolo, comparsa comunque poi in Chronicles: A Magazine of American Culture, diretto da Thomas J. Fleming (11).
O’Brien ha anche redarguito Ross J. S. Hoffman, Russell Kirk e il sottoscritto per aver sostenuto la tesi di un Burke politicamente conservatore, nonché, ancora, Hoffman e Kirk per aver osato accomunare giacobinismo e comunismo: la critica parallela di questi due totalitarismi da parte conservatrice è vietata, mentre non la è quella da parte progressista liberale. Del resto, O’Brien si comporta come quei progressisti nordamericani che, accondiscendenti verso il comunismo fin dai tempi della «nuova politica» rooseveltiana degli anni 1930-1940, oggi sostengono di non aver in realtà mai ceduto alle malie del marxismo-leninismo e, allo scopo, operano una mistificazione linguistico-concettuale identificando i «conservatori» con i socialcomunisti «duri».
Peraltro, i «precedenti» dello studioso e uomo politico irlandese sono alquanto rivelatori. Nell’articolo The Perjured Saint, apparso in The New York Review of Books del novembre del 1964, O’Brien prese le difese di Alger Hiss (1904- 1996), l’agente sovietico che fu fra i più alti consiglieri di Roosevelt, attaccando violentemente l’integrità morale di Whittaker Chambers (1901-1961), l’accusatore della spia comunista. Chambers, egli stesso ex comunista, denunciò Hiss dando origine a un caso politico-giudiziario famosissimo e poi consegnò le proprie memorie alle pagine di Witness (12), nelle quali racconta di aver operato assieme al collega, collaboratore con il nemico, allo scopo di tradire gli interessi degli Stati Uniti d’America.
Ora, dopo aver abbandonato il comunismo, Chambers abbracciò il conservatorismo, divenendo amico personale di Buckley e regolare collaboratore della National Review: il fondatore e allora direttore del periodico sembra non essersi fatto alcuno scrupolo ad accogliere trionfalmente — anche dopo che perfino la sinistra ne aveva ammesso la veridicità delle colpe — chi aveva definito il suo amico Chambers un bugiardo patentato.
O’Brien ha sostenuto la tesi infondata del cripto-rivoluzionarismo di Burke solo perché disprezza completamente la legge morale naturale e tutti gli altri princìpi politici conservatori che sono presenti nelle opere del pensatore angloirlandese, costringendo la lettera e lo spirito burkeani a conformarsi alla propria ideologia. Il vero conservatorismo burkeano, opposto al progressismo liberale lockeano e, oggi, neoconservatore, crede in un ordine spirituale trascendente. Principio e fondamento dell’autentico conservatorismo sono il credere in Dio e nelle leggi normative della morale che derivano dalla fede religiosa, alle quali tutti — governanti e sudditi — sono vincolati. Molti neoconservatori mantengono spesso un silenzio impenetrabile relativamente alla religione perché professano credi razionalisti; i neoconservatori ebrei non sono praticanti, ma liberi pensatori; e spesso la religione non viene attaccata frontalmente, ma semplicemente ignorata. Burke, che difese esplicitamente il cristianesimo insistendo sulla validità universale della legge morale naturale, viene dunque ignorato secondo modalità analoghe a quelle messe in atto nei suoi confronti dalla strategia culturale marxista del silenzio.
Peter J. Stanlis
Note:
(1) Cfr. THOMAS STEARNS ELIOT, After Strange Gods: A Primer of Modern Heresy, Faber & Faber, Londra 1934.
(2) Cfr. il mio Robert Frost: The Individual and Society, Rockford College Press, Rockford (Illinois) 1973, reprint 1993.
(3) Cfr. il mio Edmund Burke and the Natural Law, con una premessa di Russell Kirk, University of Michigan Press, Ann Arbor 1958; 3a ed., Huntington House, Shreveport-Lafayette (Louisiana) 1986.
(4) Cfr. un’esposizione più ampia di quanto affermo, nel mio Robert Frost: Social and Political Conservative, in Chronicles: A Magazine of American Culture, vol. 16, n. 8, agosto 1992, pp. 19-23.
(5) Cfr. il mio Edmund Burke (1729-1797) e il giusnaturalismo classico, in Cristianità, anno XXV , n. 267-268, luglio-agosto 1997, pp. 5-10 (p. 6).
(6) Cfr. RUSSELL KIRK, The Conservative Mind: From Burke to Santayana, Regnery, Chicago 1953. Il testo è giunto alla settima edizione: cfr. The Conservative Mind: From Burke to Eliot, con il saggio The Making of «The Conservative Mind», di Henry Regnery, 7a ed. riveduta e accresciuta, Regnery Publishing, Washington 1993.
(7) Cfr. ALFRED COBBAN, Edmund Burke and the Revolt against the Eighteenth Century, Allen & Unwin, Londra 1960.
(8) Cfr. JOHN Y. WOLTON, Thinking Matter: Materialism in Eighteenth-Century Britain, University of Minnesota Press, Minneapolis 1983.
(9) Cfr., per esempio, JOHN LOCKE, Two Treatises on Government, a cura di Peter Laslett, Cambridge University Press, Cambridge 1964.
(10) Cfr. CONOR CRUISE O’BRIEN, A Vindication of Edmund Burke, in National Review,vol. XLII, n. 24, 17-12-1990, pp. 28-35.
(11) Cfr. il mio A True Vindication of Edmund Burke, in Chronicles: A Magazine of American Culture, vol. 15, n. 5, maggio 1991, pp. 51-54. O’Brien ha in seguito pubblicato The Great Melody: A Thematic Biography and Commented Anthology of Edmund Burke, The University of Chicago Press, Chicago 1992. Cfr. una mia critica dell’opera, in An Imaginary Edmund Burke, in Modern Age, vol. 36, n. 2, inverno 1994, pp. 114-127.
(12) Cfr. WHITTAKER CHAMBERS, Witness, Random House, New York 1952.