Mentre la legge liberalizzatrice dell’aborto è entrata nel suo decimo mese di esistenza e continua a dare la «morte di Stato» a decine di migliaia di innocenti, non tutti, fra coloro che in «questo Stato» rivestono una qualsivoglia carica pubblica, sembrano essersi rassegnati ad accettare vigliaccamente la ignobile introduzione nell’ordinamento giuridico italiano dell’omicidio-aborto legalizzato. Pubblichiamo volentieri, e con riconoscenza verso l’autore di queste nobili pagine contro la barbarie e la menzogna, una parte della questione di legittimità costituzionale della intera legge 22 maggio 1978, n. 194 contenuta nella Ordinanza emessa il 16 agosto 1978 dal tribunale di Trento e dallo stesso immediatamente trasmessa alla Corte costituzionale. Il testo che riproduciamo si trova nella Gazzetta ufficiale della repubblica italiana, N. 31, del 31-1-1979, alle pp. 1036-1041.
Una voce autorevole contro la setta abortista
L’aborto nella società contemporanea
L’emanazione della legge 22 maggio 1978, n. 194, che depenalizza e liberalizza l’aborto in Italia, è stata preparata dalla più massiccia campagna di menzogna e di mistificazione che la storia d’Italia ricordi: una campagna orchestrata coralmente dai mass-media e praticamente non contrastata dall’unica istanza – la Chiesa – dalla quale ci si poteva attendere una decisa resistenza al dilagare del male. La disinformazione, ed anzi la mistificazione dei fatti, è quindi quasi totale in questo campo. È indispensabile pertanto soffermarsi su alcuni dei temi fondamentali della campagna abortista.
La legge della cui legittimità costituzionale si tratta tenderebbe a combattere il fenomeno dell’aborto clandestino, e quindi a tutelare la salute della donna; sarebbe esclusa la possibilità di considerare l’aborto come un mezzo per il controllo delle nascite (art. 1 cpv. della legge). Sugli effetti che la pratica abortista ha sulla morale pubblica e privata si tace completamente. Questi quattro punti saranno analizzati nei paragrafi seguenti.
1. La clandestinità dell’aborto
Si è detto e ripetuto ossessivamente dai fautori della liberalizzazione che l’aborto clandestino sarebbe attualmente in Italia una grandissima piaga e che occorrerebbe perciò legalizzarlo. Ciò consentirebbe di porre il fenomeno sotto controllo e di tutelare la salute della donna, mercè appunto la eliminazione della clandestinità.
L’argomento è in linea di fatto sotto ogni aspetto mistificante. Già il punto di partenza è tale: invero l’aborto clandestino, proprio in quanto clandestino, non può essere valutato esattamente nelle sue dimensioni; ne consegue che proprio l’argomento-cardine, sulla base del quale si vara una legge di così grave momento, è estremamente vacillante e vago.
Inoltre dalla pratica dei paesi abortisti può già oggi tranquillamente trarsi la conclusione che l’aborto è comunque nocivo alla salute della donna, sia esso o non clandestino, e che in nessun modo le leggi liberalizzatrici sono state in grado di combattere la clandestinità.
Esistono in proposito convincenti documentazioni, anche se sottoposte alla più stretta censura dei mass-media e delle istanze ufficiali.
In Giappone si è passati – secondo le cifre ufficiali – da 246.000 aborti nel 1949 a 1.170.000 nel 1955, scendendo quindi a circa 750.000 all’anno negli anni 1967 e successivi (1). Va notato che la pratica costante e generalizzata dell’aborto provoca diffusa sterilità e va di pari passo con la diffusione della pratica della sterilizzazione.
Si ritiene in Giappone che la cifra effettiva degli aborti sia il doppio di quella ufficiale (2). Conclusioni analoghe, riguardo alla permanenza dell’aborto clandestino, valgono per l’Inghilterra, e in generale per tutti i paesi abortisti (3).
L’Unione Europea dei Medici ha condotto approfonditi studi sull’argomento. Nell’opuscolo Von A bis Z unwahr!, edito in Germania a cura dell’unione predetta, si formula la documentata previsione, confermata dalla esperienza dei paesi abortisti, della dimensione della spaventevole esplosione degli aborti dopo una legalizzazione: l’incremento degli aborti giunge in breve tempo a decuplicarne il numero! (4).
Ad una riflessione anche sommaria non può del resto sfuggire la fatalità di tali nefasti sviluppi. Ed infatti non ci si sottrae a un dilemma stringente: o si tratta di una totale liberalizzazione, ed allora, di fronte alle dimensioni della strage, il Governo stesso si trova nella tentazione di manipolare le statistiche ed è spinto (come è accaduto in molti Paesi dell’Est europeo) ad introdurre restrizioni; ovvero esistono rigorosi controlli e restrizioni, peraltro ardui da attuare e mantenere, ed allora la clandestinità che si intendeva combattere ed eliminare sopravvive.
Eppure perfino nell’antica Roma pagana l’aborto della donna maritata fu punito dal rescritto degli imperatori Severo ed Antonino!
Naturalmente questi argomenti e questi dati non trovano ingresso ne1 regno dei mass-media, dove domina incontrastata la mistificazione di una presunta necessità di combattere l’aborto clandestino, al punto da far dire al dott. Siegfried Ernst, della citata Unione Europea dei Medici:
«Debbo dichiarare per la vergogna della democrazia tedesca […] che dal tempo di Josef Goebbels, ministro della propaganda di Adolf Hitler, le istanze ufficiali non avevano mai più mentito tanto e così impudentemente» (5).
Senonché, passando da una confutazione di fatto ad una tematica filosofico-giuridica, le discussioni sopra accennate, relative alla clandestinità dell’aborto, non avrebbero dovuto neppur nascere, ove si fosse partiti da una retta nozione della natura della legge, ed in particolare della legge penale.
Qualunque sia la particolare concezione da cui si muove, occorre riconoscere che la legge penale si fonda sull’etica. La legge non si identifica con la realtà fenomenica. Al contrario, la legge esprime il dover essere della realtà, cioè i valori ai quali essa realtà deve adeguarsi. La legge pertanto non perde valore in conseguenza di una diffusa immoralità. Al contrario la sua necessità e il suo valore, in tal caso aumentano, mentre perderebbe ogni significato una legge penale per un popolo di Santi.
Gli imperatori Severo e Antonino, sopra ricordati, in un mondo pagano, punendo l’aborto, vietarono un fatto che, secondo l’opinione generalmente accolta, era antecedentemente penalmente lecito ed era diffusissimo, al punto che era impallidita fino a scomparire la riprovazione morale che originariamente pur circondava il fatto.
È quindi un non senso affermare che la legge penale deve adeguarsi … alla immoralità di un popolo. Un principio del genere dissolve rapidamente qualsiasi legge e provoca la caduta verticale di qualsiasi società nell’anarchia.
A riprova di ciò, si immagini di applicare l’aberrante principio della lotta alla clandestinità con coerenza e logica consequenzialità. E si proponga coerentemente la legalizzazione del furto – assai più diffuso dell’aborto – o del sequestro di persona – reato in rapida escalation – o della evasione fiscale.
Il New York Times qualificava «storica», il 23 gennaio 1973, la decisione liberalizzatrice dell’aborto adottata il giorno precedente dalla Suprema Forte degli Stati Uniti. Tale decisione appare effettivamente storica, nel senso che segna il tempo dell’eclissi di una civiltà giuridica secolare, eclissi alla quale i satelliti occidentali dell’America non sembra si sappiano sottrarre.
2. Tutela della salute della donna
Si è già veduto l’assunto dei fautori dell’aborto.
Riflettendo a mente serena, al di fuori dalla martellante propaganda abortista, un uomo ragionevole si rifiuterebbe di credere che l’aborto sia una pratica più salutare della gravidanza e del parto, perché ciò equivale ad ammettere che un fatto patologico e contro natura sia meno pericoloso per la salute di una naturale evoluzione delle condizioni fisiologiche. Il confronto va fatto tra aborto e gestazione, la quale ultima è un fatto fisiologico e non patologico, e non tra aborto clandestino e non clandestino, giacché l’aborto è comunque gravemente nocivo alla salute della donna.
Nondimeno il rapporto della commissione Lane, in Gran Bretagna, è arrivato alla affermazione dell’esistenza di statistiche ufficiali «che dimostrano come, in proporzione, la mortalità materna sia più alta in caso di gravidanza che in caso di aborto compiuto entro il primo trimestre» (6).
Senonché risulta dalle statistiche che la mortalità nel caso di gravidanza portata a termine è molto inferiore alla mortalità per aborto: al massimo la metà. Ma probabilmente la mortalità materna è molto più bassa in proporzione, sia perché molte statistiche abortiste ufficiali sono sospette, sia perché l’aborto produce gran copia di complicazioni, in maggior parte tardive, il che non avviene per la gravidanza, sia infine perché, nonostante la mistificazione delle indicazioni mediche, l’aborto è quasi sempre praticato a donne in buone condizioni di salute, laddove la mortalità materna riguarda prevalentemente donne in condizioni di salute patologiche (7). Del resto non è serio rapportare, come ha fatto la commissione Lane, un indice di mortalità materna complessiva con l’indice della mortalità per aborto limitata al primo trimestre (un indice la cui determinazione è oltretutto largamente arbitraria).
L’esperienza dei paesi abortisti dà la certezza che la pratica dell’aborto ha conseguenze rovinose per la salute della donna. Alcuni esempi di complicazioni fisiche cagionate dall’aborto sono i seguenti: forte incremento della possibilità di gravidanze ectopiche; infezioni dell’utero, delle ovaie, del peritoneo; trombosi ed embolia; metrorragie e disturbi del ciclo, etc.
In Bulgaria il 25/30% delle donne che si sono sottoposte ad aborto ha riportato danni alla salute. Nel 1967 il governo è intervenuto restrittivamente nella legislazione abortista (8). In Cecoslovacchia si indica la cifra del 5% per le complicazioni immediate, del 20/30% per quelle tardive (9).
Nella piccola Ungheria la liberalizzazione dell’aborto ha fatto in sedici anni (1957-1972) più vittime delle due guerre mondiali e delle repressioni naziste e comuniste messe insieme: più di tre milioni di aborti, con il crollo della natalità dal 19,6 per mille al 2,6 per mille. Non erano rare le donne che si erano sottoposte a venti aborti. Tra le complicazioni vengono segnalate in particolare: la sterilità, che colpisce il 10% dei casi; tendenza ad aborto spontaneo o a nascita prematura (30/40%); gravidanze extrauterine (decuplicate in dieci anni). La diffusa pratica dell’aborto ha consentito inoltre di riscontrare gravi conseguenze che si accumulano a carico dei bambini: aumento della mortalità neonatale, delle malformazioni fisiche e dei ritardi psichici. Il governo ungherese dovette intervenire nel 1973 in senso restrittivo (10).
Le complicazioni provocate dall’intervento ammontano anche secondo i medici giapponesi a più del 30% dei casi (11). Il rapporto Wynn, redatto in Gran Bretagna nel 1972, ricorda che nel 1960 in Giappone la mortalità per malformazioni congenite era del 30% più alta di quella del 1947, anno della liberalizzazione, e che per ogni bambino malformato che muore ce ne sono altri meno danneggiati che sopravvivono. Si legge nello stesso luogo che persino l’abortista governo svedese ammette un 4-5% di casi di sterilità in conseguenza di aborto (12).
E si potrebbe continuare a lungo, come pure si potrebbe estendere la trattazione alle conseguenze negative dell’aborto per la salute psichica della donna. In proposito basti un accenno: proprio nei due paesi in cui l’aborto è stato più praticato, Giappone e Ungheria, risulta più alta la percentuale dei suicidi nelle donne tra i venti e i ventiquattro anni: 34,1 per centomila in Giappone, 17,1 per centomila in Ungheria.
È curioso poi osservare, a proposito di tutela della salute della donna, che i due giornalisti inglesi Litchfield e Kentish, autori della già citata inchiesta, seguirono il sistema di presentarsi ogni volta ai medici come una coppia in cerca di aborto, sebbene la Kentish non fosse affatto incinta. La giornalista ebbe ogni volta il suo test di gravidanza e la sua visita specialistica, e fu regolarmente trovata incinta! Di più: i due giornalisti presentarono intenzionalmente il loro caso ad ogni medico come un aborto di puro capriccio, non consentito dalla legge, evitando accuratamente di allegare indicazioni mediche o anche soltanto indicazioni sociali soddisfacenti dal punto di vista legale: ebbene, non una sola volta l’aborto fu loro rifiutato!
La soverchia preoccupazione dei fautori dell’aborto per le conseguenze dell’intervento praticato clandestinamente dalla cosiddetta mammana (la quale poi, nella specie e bene spesso, è un medico) avrebbe in sè una apparenza di ragionevolezza soltanto nel caso che l’aborto praticato dal medico e in ambiente sanitario specializzato fosse innocuo per la salute della donna. Invece i fatti dimostrano che l’aborto è sempre e comunque pericoloso e nocivo per la salute della donna, sia essa considerata restrittivamente, o sia invece riguardata nel senso più lato, comprendente anche – come sarebbe giusto e logico – la preservazione di una intatta capacità di procreare e di dare alla luce, con gravidanza a termine, bambini sani e vitali.
3. Pratica abortista e prevenzione del concepimento
La propaganda abortista ha insistito molto sulla affermazione che l’aborto non deve servire allo scopo di limitare le nascite e questo proponimento si è tradotto nell’art. 1 cpv. della legge, che recita:
«L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite».
Questa singolare formulazione normativa assomiglia a quella di una immaginaria legge legalizzatrice del sequestro di persona a scopo di estorsione, che solennemente affermasse non essere il detto sequestro un mezzo per arricchirsi.
Che la pratica abortista funzioni o meno come mezzo per il controllo delle nascite dipende, come è ovvio, dai fatti e dalla dinamica che è intrinseca a tale pratica, mentre non dipende affatto da benintenzionate e più o meno solenni proclamazioni legislative.
Ora, poiché l’aborto serve essenzialmente ad impedire una nascita che si assume indesiderata, è intrinseca alla relativa pratica la dinamica propria del mezzo di controllo delle nascite. Tale dinamica è anzi particolarmente selvaggia, poiché, mentre nel caso di gravidanza a termine occorre almeno un anno per potersi avere un’altra gravidanza, nel caso di aborto può aversi più di un concepimento all’anno. Inoltre l’aborto, per l’apparente semplicità e facilità che offre (con la vigente legge è perfino gratuito), tende automaticamente a far diminuire la pratica dei mezzi anticoncezionali, tutti meno semplici e meno facili.
I fatti confermano puntualmente queste deduzioni, del resto elementari. In Giappone è stato pubblicato uno studio comparativo: gli studiosi hanno seguito un gruppo di donne che si erano sottoposte ad aborto e un altro gruppo che aveva avuto una normale gravidanza condotta a termine. I risultati sono stati estremamente eloquenti e possono essere così riepilogati:
L’evoluzione della situazione in Romania è stata particolarmente significativa riguardo ai tema in discorso, poiché un vero e proprio crollo delle nascite è stato imputabile esclusivamente all’aborto. Prima della legge liberalizzatrice del 1956 le nascite oscillavano annualmente tra le 400.000 e le 450.000. Nel 1966 le nascite erano precipitate a 273.000 all’anno, con 250.000 aborti ufficiali. Il governo romeno, spaventato, intervenne in senso fortemente restrittivo e subito nel 1967 le nascite risalirono a 528.000 (13).
Il cosiddetto problema della sovrappopolazione e la relativa pressione per il controllo delle nascite costituiscono un’altra colossale impostura del nostro tempo. Studiosi come il Colin Clark vanamente hanno cercato di dimostrare l’inconsistenza di queste teorie e, mentre vari paesi dell’occidente, spopolandosi, vanno paurosamente invecchiando e si dirigono allegramente verso l’abisso di insolubili problemi economici e sociali, i popoli del terzo mondo e del blocco orientale alla conferenza di Bucarest del 1974 hanno sdegnosamente rifiutato le suggestioni e le seduzioni dell’ipocrita propaganda americana.
Ma ammettendo per un momento che esista un problema del controllo delle nascite, come vorrebbe la presente dittatura delle idee, è assolutamente evidente che l’aborto è mezzo pertinente ed adeguato, anzi è il principale mezzo per pervenire al detto controllo in breve tempo e con poca spesa, sulla pelle delle donne.
Il contrario assunto dei fautori dell’aborto, paradossalmente tradottosi in dettato legislativo, va pertanto respinto sia come assurdo e ridicolo.
4. Effetti della pratica abortista sulla morale pubblica e privata
«Uccidi, purché sia tuo figlio», potrebbe essere la nuova formulazione del quinto comandamento, riveduto e corretto dai moderni Soloni. Il capovolgimento di un così importante e sacro precetto di vita richiama alla memoria le terribili parole dell’Apostolo, allorquando accenna all’«avversario, che si innalza sopra tutto quello che è chiamato Dio o che è oggetto di venerazione, al punto da sedersi egli nel tempio di Dio, proclamando se stesso come Dio» (14).
Neppure i pagani infatti hanno osato tanto, perché anche prima del rescritto imperiale di Severo e Antonino l’aborto era moralmente riprovato e, al tempo in cui il costume era più sano, era sottoposto al sindacato del censore. Oggi invece lo Stato offre l’aborto libero e gratuito.
Gli effetti della pratica abortista sulla morale pubblica e privata sono regolarmente trascurati dalla propaganda abortista, quasiché si trattasse di argomento secondario e bagatellare, mentre in una comunità bene ordinata questo tema è certamente più importante delle disquisizioni sulla salute o di quelle sulla contraccezione.
Naturalmente il decadimento e la dissoluzione della morale di un popolo non sono condensabili in una statistica. Un uomo ragionevole e sensibile constata tuttavia che oggigiorno le nazioni abortiste hanno la gioventù che si meritano, e cioè la peggiore di tutte.
Innumerevoli testimonianze potrebbero poi allegarsi ad illustrazione dello stato di ferocia e di barbarie in cui cade la nostra società.
Il Van Straelen, nella sua citata opera, narra della sua trentennale esperienza della tragica realtà giapponese. A pag. 71 egli prende posizione sulla cosiddetta emancipazione della donna, di cui l’aborto sarebbe manifestazione, affermando che codesta emancipazione assoggetta la donna alle sconfinate voglie altrui e precipita rapidamente una civiltà e una cultura nell’abisso.
Come non vedere che la donna è, dopo il bambino, la prima vittima di codesta presunta emancipazione, a tutto profitto dell’egoismo crudele del maschio debosciato?
Lo stesso autore, nella stessa opera, evoca raccapriccianti episodi di cronaca, che mostrano la crescente insensibilità delle donne, in regime abortista, nei confronti dei loro figlioli (15).
Nel Catholic Herald del 17 novembre 1972, tale Mrs. Jill Knight riferisce di un aborto di feto di sette mesi, praticato in un ospedale di Glasgow. Il feto fu avvolto in un involucro e gettato nella neve, vicino al forno crematorio. Dopo alcun tempo un dipendente dell’ospedale prese l’involucro per gettarlo nella stufa, ma avvertì in quest’attimo che il bambino piangeva. Lo portò allora all’interno dell’ospedale, dove il piccolo durò in vita ancora otto ore. Evidentemente a nessuno bastava l’animo di ucciderlo.
La già citata pubblicazione Von A bis Z unwahr! della Unione europea dei medici (16), fa riferimento alle seguenti conseguenze della pratica abortista che coinvolgono la morale:
distruzione dei fondamenti etici della medicina;
diminuzione delle possibilità di assistenza medica nei confronti di veri malati;
eliminazione della retta coscienza; eutanasia;
definitiva distruzione del senso di rispetto per la vita umana;
criminalizzazione della previdenza a causa del finanziamento degli aborti;
schiavizzazione delle donne; aborto coatto;
distruzione delle basi religiose della cultura occidentale.
Friedrich Graf Von Westphalen (17) testualmente così si esprime:
«Se cade il divieto di aborto, si rompe una delle dighe essenziali dell’ordine giuridico contro l’ingiustizia. Di qui all’eutanasia il passo è poi soltanto minimo. In entrambi i casi sarebbe concessa all’uomo la signoria sulla vita umana. Varrebbe il diritto del più ricco e del più forte. Alla fine si porrebbe poi con certezza l’impellente interrogativo: “Hitler era soltanto un precursore?”».
In verità non si comprende per qual mai ragione si continui a biasimare tanto Hitler e con lui il nazismo, quando invece il paragone tra l’oggi e il tempo del nazismo è a tutto vantaggio di quest’ultimo, poiché il tiranno procedette alla sua liquidazione di massa occultamente e non osò proclamarne apertamente l’esecuzione, nemmeno mediante l’allegazione di pretestuosi ed ipocriti alibi (18).
La pretta marca nazista della legge della cui legittimità costituzionale si discute è particolarmente evidente e scoperta nell’ipotesi di aborto in previsione di «anomalie e malformazioni del concepito» (articoli 4 e 6 lettera b).
Ma tutta la mentalità abortista, al di là di certi particolari che funzionano come spie, forse come lapsus freudiani, è di stretta marca nazista. Quindi non vi è motivo di sorprendersi nel leggere, in quell’inchiesta giornalistica inglese più volte citata, certe sbalorditive pagine, che però potevano risultare soltanto da un’indagine sincera, specchio di una realtà viva e concreta, non certo dai mass-media dominanti, che, avendo ancora il terrore di porgere il fianco all’accusa di nazismo, evitano accuratamente di mostrare la vera faccia dell’aborto che propagandano.
A pag. 63 di Bambini da bruciare si legge la seguente uscita del farmacista abortista: «Non sottovaluti il fascismo! Si ricordi che quello che faccio ha molti rapporti con la selezione razziale e con l’eutanasia. Era questo il grande sogno e l’immensa filosofia di Hitler. Nel campo dell’aborto, c’è un nucleo di duri, compresi i medici, che credono nelle idee di Hitler. L’aborto ha dato a poche persone un grande potere di vita e di morte. Noi auspichiamo l’epoca in cui la madre avrà il diritto di far uccidere il suo bambino anche poche ore dopo la nascita. Quando il bambino nasce, la madre dovrebbe avere la possibilità di guardarlo, assicurarsi che risponda alle sue attese e decidere se debba vivere o no. Questo, naturalmente, è un ideale, un sogno. Occorre ancora fare molta strada prima che la società nel suo insieme sia pronta ad accettarlo. Bisogna procedere a poco a poco. […] La maggiore parte dei medici con cui tratto sono militanti di questa causa. […]» (19).
A pag. 180 della stessa opera sopraggiunge il medico:
«Può darsi che Hitler sia stato il grande nemico di questo Paese, però non tutto quello che faceva era sbagliato. Alcune delle sue idee erano molto progressiste. La selettività della vita è sempre stata un tema che ha affascinato molto i medici. Io, per esempio, sono sempre stato attratto dalla possibilità di una riproduzione selettiva e di una eliminazione selettiva. […] Molti, molti ostetrici che fanno interruzioni di maternità a Londra e altrove la pensano come me» (20).
Queste sono le deliranti professioni di fede degli abortisti inglesi, nei momenti di sincerità. Una legge di morte è prodotta da una ideologia di morte.
Per concludere ascoltiamo il pensiero di un altro inglese Malcolm Muggeridge:
«Quando una civiltà è morente vi è un impulso in coloro che la costituiscono, in particolare nella élite intellettuale, a volere la loro propria morte. Poiché la civiltà alla quale appartengono è morente, essi vogliono la loro propria morte, ed in questo senso essi accentuano ed accelerano la morte della civiltà» (21).
Note:
(1) Cfr. VAN STRAELEN, Abtreibung: die grosse Entscheidung, Regensburg 1974, p. 28.
(2) Ibid., pp. 30, 50 e altrove.
(3) Ibid., p. 95.
(4) Ibid., p. 101.
(5) Ibid., p. 107.
(6) Cfr. MICHAEL LITCHFIELD – SUSAN KENTISH, Bambini da bruciare, trad. it., Edizioni Paoline, Catania 1976, p. 228.
(7) Cfr. VAN STRAELEN, op. cit., pp. 159-160.
(8) Ibid., p. 133.
(9) Ibidem.
(10) Dalla relazione del dott. VILMOS CSERNOHORSZKY al congresso di Strasburgo di Laissez le vivre, del 3 marzo 1974.
(11) Cfr. VAN STRAELEN, op. cit., p. 42.
(12) Cfr. M. LITCHFIELD- S. KENTISH, Bambini da bruciare, cit., pp. 231-232.
(13) Cfr. VAN STRAELEN, op. cit., p. 118, nota.
(14) 2 Tess. 2. 4.
(15) Cfr. VAN STRAELEN, op. cit., pp. 53-54.
(16) Ibid., pp. 101-102.
(17) Ibid., p. 213.
(18) Ibid., p. 105.
(19) M. LITCHFIELD – S. KENTISH, op. cit., p. 63.
(20) Ibid., p. 180.
(21) Humanity, Oxford, luglio 1974.