Giovanni Cantoni, Cristianità n. 48 (1979)
Preparato dal “suicidio” del governo Andreotti
Il «compromesso storico» anticipato
Il processo politico che doveva portare al compromesso storico, passando attraverso svariate sfumature, ha subìto una accelerazione, dovuta a misteriose ma reali pressioni di carattere internazionale. Perciò, perché la formalizzazione dell’ingresso comunista nel governo sia indolore, si premette, a tale ingresso, una tornata elettorale anticipata, promossa dall’irrigidimento comunista. Contro il compromesso storico, è indispensabile la costruzione di una alternativa totale.
1. Il cauto e graduale «passaggio dal “confronto” all’ “intesa”»
Ho recentemente commentato le dichiarazioni dell’on. Giovanni Galloni, capogruppo democristiano a Montecitorio ed ex vicesegretario del partito, a proposito della «politica del confronto» e della sua natura di versione democristiana del finale compromesso storico, con gli intermedi governi «di emergenza» e «di solidarietà nazionale» (1).
Alla chiara presa di posizione dell’esponente democristiano ha fatto tempestivamente eco – e in una sede di particolare rilievo – lo stesso segretario generale del Partito Comunista Italiano, on. Enrico Berlinguer, nel corso del rapporto tenuto a Roma, il 30 marzo scorso, al XV congresso del partito.
«[…] la verità – ha detto il massimo dirigente comunista – è che dopo il momento acuto di crisi degli anni 1974-’75 (la sconfitta nel referendum sul divorzio, lo scontro nel gruppo dirigente), la DC ha perseguito e realizzato una ripresa attraverso un indubbio cambiamento nella impostazione politica (la linea del “confronto”) e con uno sforzo rivolto a riaccreditare la sua immagine di forza popolare. La vicenda politica dal 20 giugno a oggi ha messo in luce gli elementi positivi di un orientamento che sembrava contemplare un passaggio dal “confronto” all’ “intesa”, a fondare la collaborazione tra le forze democratiche e in particolare il PCI sulla valutazione della profondità e gravità della crisi italiana e su una prospettiva che, pur in un gradualismo cauto, avrebbe dovuto impegnare in un processo di cambiamento della società. Noi crediamo che l’esperienza, pur così travagliata, delle intese e convergenze che si sono realizzate in questi ultimi anni, abbiano comunque lasciato dei segni positivi anche nella DC. […] Noi non abbiamo affatto sottovalutato l’importanza delle prese di posizione con cui i dirigenti della DC, nel corso della crisi di governo, hanno affermato che non esistono più pregiudiziali ideologiche […]. In ogni caso si è fatto ormai più chiaro per tutti che la dichiarata impossibilità di una collaborazione governativa tra la DC e il PCI non può essere più motivata con le preclusioni ideologiche» (2).
Come sempre, per chi vuole se non capire almeno leggere, i termini della questione sono chiarissimi.
Dunque, l’itinerario era quello di un «gradualismo cauto», di un «passaggio dal “confronto” all’ “intesa”», senza «più pregiudiziali ideologiche», senza più «preclusioni ideologiche».
Questo itinerario – percorso sulla base di «intese e convergenze», «pur così travagliato» dalle metodiche insoddisfazioni comuniste per le croniche inadempienze democristiane – pareva dovesse procedere fino al suo esito previsto – l’«intesa», cioè il compromesso storico -, passando attraverso fasi intermedie «bizantine», come, per esempio, un governo con tecnici graditi al Partito Comunista, oppure quello comprendente una rappresentanza di indipendenti di sinistra.
2. L’irrigidimento comunista e «l’acutizzarsi della situazione internazionale»
Improvvisamente, però, questo processo cauto e graduale ha subito una accelerazione, la insoddisfazione comunista si è fatta alternativa («o al governo o alla opposizione») e ne è nata la fine anticipata – «innaturale», secondo i ritmi costituzionali – della settima legislatura repubblicana, con lo scioglimento anticipato delle Camere consumato in data 2 aprile e che vedrà gli elettori alle urne nel prossimo mese di giugno.
Quali sono state – o possono essere state – le ragioni dell’improvviso irrigidimento comunista? Pur negandone il valore, ci aiuta a identificarle lo stesso on. Berlinguer (excusatio non petita, accusatio manifesta?), secondo cui «dietro non vi sono certo pressioni esterne, né l’acutizzarsi della situazione internazionale, e del resto sfugge ad ogni logica questo tipo di correlazioni. […] Si è detto anche che siamo stati sollecitati e costretti dal disagio, dal malessere della base». Il massimo esponente comunista italiano ammette la influenza del «malessere della base» nella determinazione dell’irrigidimento, con la conseguente crisi di governo, ma vuole ridicolizzare e negare assolutamente le ipotesi di «pressioni esterne» e di risultanza dell’«acutizzarsi della situazione internazionale», sostenendo che «sfugge ad ogni logica questo tipo di correlazioni».
Senza entrare nel campo dei perché, delle cause – che sfuggono certamente a un povero non addetto ai lavori – noto: 1. che nel sud-est asiatico è accaduto qualcosa di pubblico e di ben conosciuto, che ha fatto parlare di una possibile terza guerra mondiale e di cui si è dovuto ampiamente interessare lo stesso segretario generale comunista nel rapporto al XV congresso del suo partito; 2. che a questo qualcosa indocinese hanno fatto seguito -secondo «correlazioni» che possono sfuggire e secondo una logica sui generis, per altro rilevata dalla maggior parte degli osservatori politici – un discorso pacifista del maresciallo Breznev e manovre militari in Bulgaria, con allarme giustificato in tutta la penisola balcanica e, in particolare, in Jugoslavia.
A questo punto, delle due l’una: o l’on. Berlinguer ritiene indifferente per la vita politica italiana – e quindi anche per il Partito Comunista Italiano – la eventuale presenza dell’Armata Rossa di fronte a Trieste, oppure la trasformazione della prevista insoddisfazione in improvviso irrigidimento è frutto della «prova generale» di dopo-Tito che si è prodotta nei Balcani dopo (post hoc, ergo propter hoc?) i fatti indocinesi.
Appare, quindi, assolutamente logica la «correlazione» tra la decisione comunista di chiedere l’ingresso nel governo e «pressioni esterne», nonché l’«acutizzarsi della situazione internazionale»: è evidente, infatti, che il Partito Comunista Italiano gradisce essere «di governo» prima del dopo-Tito, e le buone ragioni non mancano!
3. Le elezioni premesse alla realizzazione del compromesso storico
Per ragioni esterne al suo procedere, dunque, il compromesso storico deve realizzarsi a breve scadenza. Poiché da parte democristiana non ostano «pregiudiziali ideologiche», «preclusioni ideologiche», l’unico ostacolo poteva essere costituito dal fatto elettorale, cioè dalla possibilità che, sempre a breve termine, la Democrazia Cristiana potesse essere giudicata e quindi penalizzata dal suo elettorato, nonché, di conseguenza, privata di quel consenso che la rende partner indispensabile di un governo comunista in, un paese cattolico, secondo la strategia del compromesso storico (3).
Da ciò la necessità di premettere le elezioni alla formalizzazione del compromesso storico stesso. E da tale necessità di elezioni anticipate è derivato l’irrigidimento comunista, che ha portato alla crisi di governo e allo scioglimento anticipato delle Camere. Questa situazione nuova – creata artificialmente – permette, infatti, alla Democrazia Cristiana una campagna elettorale «anticomunista», con la possibilità reale e non contrastata di raccogliere il maggiore numero di suffragi e, quindi, per l’ennesima volta – quella definitiva? – di spenderli sulla via del compromesso storico. Senza più il rischio, inoltre, di dovere rendere conto a qualcuno del proprio operato, almeno a breve scadenza! E che l’animus della dirigenza democristiana sia del tipo descritto, si evince con ogni evidenza da una semplicissima dichiarazione dell’on. Carlo Donat Cattin, che – stigmatizzando la esaltazione della politica di «solidarietà nazionale» con i comunisti, fatta dall’on. Andreotti nella presentazione del suo ultimo governo al parlamento – non ha saputo, o voluto, esprimersi in una forma diversa da questa: «Se ripeteremo agli elettori quel discorso, perderemo milioni di voti» (4), confermando così, a chiare lettere, la caduta di ogni barriera ideologica, al cui posto si erge solamente opportunismo elettoralistico.
4. Lo «schema dell’alternativa»
Mentre l’«intesa» tra democristiani e comunisti si disegna ormai a tratti nettissimi oltre lo show elettorale – di cui abbiamo appena vissuto l’avanspettacolo nel «suicidio» pubblico dell’ultimo governo Andreotti -, un piccolo episodio rivela e indica, se non la via di uscita dall’impasse in cui ci troviamo, almeno un modo razionale e decoroso per viverla.
Domenica 1º aprile si è svolto a Trento un referendum popolare per la abrogazione del titolo terzo della legge provinciale sugli espropri. Tale referendum, promosso dalla segreteria trentina di Democrazia Nazionale e sostenuto dal Movimento Sociale Italiano e dal Partito del Popolo Trentino-Tirolese U.E., ha dato risultati sorprendenti, se paragonati alla scarsa consistenza dei gruppi politici favorevoli alla abrogazione dell’iniqua legge, lesiva del diritto di proprietà. Su 240 mila votanti, infatti, (pari al 74,45% degli aventi diritto) 88 mila (pari al 40,72% dei votanti) si sono espressi a favore della abrogazione, nonostante i prevedibili voltafaccia pre-elettorali di molte organizzazioni di categoria legate alla Democrazia Cristiana (5).
Senza entrare nel merito della operazione e dei suoi sostenitori, come non ricavarne, almeno, la lezione che, se si propongono ai cittadini quesiti significativi e comprensibili, ci si espone al rischio – si fa per dire! – di ottenere successi, che, anche se non elettorali, sono comunque affermazioni di indubbia rilevanza politica? Non vi è nessun uomo politico anticomunista capace di capire la logica di una tesi di Altiero Spinelli – citata elogiativamente dall’on. Berlinguer nel suo rapporto – secondo cui «per uscire dallo stallo in cui le forze conservatrici (europee) sono […] trincerate, […] è necessario rompere in qualche modo lo schema dell’alternativa»? Chi saprà difendere e ricostruire lo «schema dell’alternativa» su basi politiche ma, anzitutto, culturali e spirituali? Non certamente quanti sperano di poter opporre a un comunismo particolarmente scaltro e potente tesi semi-comuniste in campo politico e sociale e genericamente spiritualistiche sul terreno culturale e religioso.
Infatti una alternativa o è totale e diametrale, o è una ennesima sfumatura del cedimento.
Giovanni Cantoni
Note:
1) Cfr. il mio «Punti chiari» sulla «politica del confronto», Cristianità, anno VII, n. 46, febbraio 1979.
(2) ENRICO BERLINGUER, Rapporto al XV Congresso del Partito Comunista Italiano, in l’Unità, 31-3-1979. Salvo indicazione diversa, tutte le citazioni contenute nel testo sono ricavate da questo rapporto.
(3) Cfr. il mio La funzione della Democrazia Cristiana nella strategia comunista, in Cristianità, anno II, n. 3, gennaio-febbraio 1974.
(4) La dichiarazione è riportata in il Giornale nuovo, 3-4-1979.
(5) Ibidem.