di Maurizio Milano
Il mercato
1. Che cos’è il mercato?
Nella classica definizione data da Luigi Einaudi (1974-1961) nelle sue Lezioni di politica sociale, mercato è «un luogo dove convengono molti compratori e molti venditori, desiderosi di acquistare o di vendere una o più merci» (Einaudi, p. 14). Sia il termine «luogo» che il termine «merce» vanno intesi in un’accezione più ampia della semantizzazione usuale, fino a comprendere le contrattazioni su reti telematiche di strumenti finanziari derivati quali future e option. L’evoluzione e la complessità dei moderni mercati non sembra però mutare la sostanza del problema, che resta sempre quello di scambiare qualcosa con qualcos’altro, attraverso una libera contrattazione ed una libera scelta.
2. Il mercato, tra libertà, profitti e perdite
Quest’ultima osservazione ci richiama un requisito essenziale del mercato: la libertà di contrattare. Il mercato, infatti, prosegue Einaudi, «[…] è un luogo dal quale compratori e venditori possono uscire quando ad essi non convenga stipulare il contratto»: occorre cioè che «[…] le due parti siano libere di non mettersi d’accordo», senza subire un danno «troppo grave» (ibidem) derivante da questa loro decisione. Il libero scambio — non solo infra-nazionale ma anche a livello mondiale — è la logica conseguenza della divisione — anche internazionale — del lavoro e dovrebbe consentire alle persone come agli Stati di specializzarsi in ciò che riescono a fare meglio acquistando il resto sul mercato: non si tratta perciò di un «gioco a somma zero» perché l’aumento dell’efficienza determinato dalla divisione del lavoro consente un incremento della ricchezza complessiva. Rimane, ovviamente, il problema morale dell’equa ripartizione dei vantaggi dello scambio qualora esistano forti differenze di potere contrattuale fra gli individui, i gruppi, le nazioni.
Il prezzo che si determina come effetto dell’interazione di domanda e offerta è detto «prezzo di mercato»: in corrispondenza di esso la quantità domandata e la quantità offerta si equivalgono, il mercato si vuota e raggiunge un equilibrio, seppure solo temporaneo. Un prezzo differente, imposto politicamente, non consentirebbe di raggiungere il medesimo risultato: nel caso di un prezzo inferiore si determinerebbe un eccesso di domanda — rispetto all’offerta — che non potrebbe venire soddisfatta, e ciò darebbe vita a un mercato nero con prezzi anche superiori a quelli di mercato normali. Ciò non significa affatto che i prezzi siano arbitrarî, in balìa delle decisioni dei produttori: infatti, prosegue Einaudi, «in un mercato libero nessuno fa quello che vuole, né i produttori, né i consumatori. […] il mercato, […] automaticamente, per il gioco dell’affluire dei venditori quando i prezzi, rialzando, lasciano un margine attraente di profitto e dell’uscire dei compratori quando il rialzo li costringe a non far seguire ai desideri una domanda effettiva, e per il corrispondente gioco dell’uscire dei venditori ed affluire dei consumatori a prezzi calanti, fa sì che si stabilisca quel tal prezzo, dato il quale la quantità domandata è uguale alla quantità offerta. E così si stabiliscono automaticamente i prezzi del lavoro (salari e stipendi), dei capitali (interessi), delle terre (fitti)» (ibid., pp. 38-39). In un mercato concorrenziale, nel lungo termine il prezzo di mercato tende al costo di produzione — comprensivo di un livello normale di profitto —, perché attira nuovi produttori nei settori dove si conseguono extra-profitti — spesso profitti «pionieristici», goduti da chi apre o occupa per primo un nuovo settore o ramo produttivo — e, simmetricamente, spinge alla contrazione della produzione — anche accompagnata dalla cessazione dell’attività di quelle imprese che non riescono a produrre a prezzi competitivi — laddove i profitti sono scarsi, con miglioramento degli utili per chi rimane. L’effetto, in entrambi i casi, è il ristabilimento di profitti normali con l’eliminazione dal mercato dei produttori inefficienti: «il fallimento è la sanzione, la pena, necessaria e vantaggiosa, per quegli affittuari, per quegli industriali, per quei negozianti che non sono capaci a fare il loro mestiere, che utilizzano male terre, capitali, materiali, macchine, impiegati, operai» (ibid., p. 24), così ancora secondo Einaudi. Non i soli profitti, quindi, ma anche le perdite sono misura del grado di efficienza di una libera impresa in un libero mercato: come afferma il celebre economista statunitense Milton Friedman (1912-2006) nel suo La tirannia dello status quo, «un’impresa privata che non riesce a usare le proprie risorse efficacemente perde denaro ed è costretta a cambiare strada. Un’impresa di stato […] in perdita è più probabile che ottenga un più cospicuo finanziamento dal Congresso piuttosto che sia costretta a cambiare strada» (Friedman 1984, p. 127).
3. Mercato o pianificazione?
Il meccanismo del mercato concorrenziale consente la coordinazione dell’attività di miriadi di individui con valori, gusti e finalità differenti e mutevoli, in un processo produttivo, distributivo e di consumo esteso nello spazio e nel tempo, in cui si sommano gli sforzi di popoli e generazioni: il mercato riesce a effettuare la regolazione di tale processo in modo impersonale, lasciando libertà di scelta ai singoli senza la necessità di una pianificazione centralizzata; non occorre quindi che «qualcun altro» decida paternalisticamente per tutti quali siano i bisogni meritevoli di soddisfacimento, in che grado e con quale priorità, e quindi le scelte produttive conseguenti.
Infatti, come dice Sergio Ricossa (1927-2016) nel suo La fine dell’economia, «il mercato non è normativo, serve i consumatori come sono» (Ricossa 1986, p. 127): le risorse — sempre limitate — vengono destinate a soddisfare la reale domanda e non una domanda artefatta imposta dall’autorità politica avendo di mira il soddisfacimento di quelli che sarebbero gli autentici bisogni di un consumatore ideale. Il criterio del mercato, per usare un gergo politico-elettorale, è di tipo «proporzionale», non «maggioritario»: non è necessario cioè che la maggioranza di turno decida quello che deve essere il «pattern» di consumo valido per tutti, con una scelta politica inevitabilmente lesiva della libertà personale.
Come afferma Milton Friedman nel suo Efficienza economica e libertà, «[…] lo scambio può quindi realizzare la coordinazione senza coercizione» (Friedman 1967, p. 33): milioni di individui si trovano a collaborare inconsciamente e liberamente — mossi non tanto da spirito di servizio o di solidarietà ma dall’interesse personale e guidati dalla legge della concorrenza — assicurando in questo modo il soddisfacimento dei bisogni sconosciuti di milioni di individui sconosciuti in modo efficace, cioè veloce e preciso. L’assenza di regolazione politica, inoltre, rende il mercato uno strumento flessibile, in grado cioè di riallocare in modo veloce le risorse, così da soddisfare rapidamente i cambiamenti della domanda — sempre più veloci —, spesso giocando d’anticipo e prevedendo — talvolta anche indirizzando — l’evoluzione dei gusti dei consumatori. L’impersonalità del mercato comporta quindi un innegabile vantaggio sul piano della libertà personale e non soltanto nella sfera del consumo — come ho appena sottolineato —, ma anche nella sfera della produzione e dell’autonomia nei confronti del potere politico. In una economia in cui lo Stato fosse l’unico proprietario e l’unico datore di lavoro è evidente che la dissidenza politica comporterebbe il rischio della perdita del lavoro, e quindi la fame per sé e per la propria famiglia, come è stato ampiamente provato dall’esperienza attraversata dai vari paesi dominati da regimi comunisti. Il mercato consente invece di sopravvivere — e anche di prosperare — pure agli oppositori politici: per questo motivo, la libertà economica si può considerare come una condizione essenziale — anche se non sufficiente — per la libertà politica e quindi per la libertà tout court.
Maurizio Milano
19 ottobre 2018
Per approfondire: Luigi Einaudi, Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino 1964; Milton Friedman, Efficienza economica e libertà, trad. it., Vallecchi, Firenze 1967; Idem, Per il libero mercato, trad. it., SugarCo, Milano 1981; Idem, La tirannia dello status quo, trad. it., Longanesi, Milano 1984; Sergio Ricossa, La fine dell’economia, SugarCo, Milano 1986; e Idem, Impariamo l’economia, Rizzoli, Milano 1994.