Domenico Airoma, Cristianità n. 403 (2020)
1. Premessa
Sappiamo bene quanto sia importante, nella lettura contro-rivoluzionaria del tempo, stabilire «che ora è» (1).
Prima, allora, di interrogarci sul «dopo Covid-19», quasi che esso possa e debba avere una portata palingenetica sull’intera umanità — emblematicamente espressa dallo slogan «andrà tutto bene» —, liquidando la condizione vissuta in epoca di pandemia come una spiacevole parentesi storica, concentriamo la nostra attenzione su colui che ha vissuto questa particolare condizione, cioè su «chi» è uscito dal cosiddetto lockdown e sul significato di quanto gli è accaduto.
Partiamo con il dire che colui che è uscito dalla cattività è la stessa persona che vi è entrata. Ovvio, si dirà: ma solo fino a un certo punto. Innanzitutto, perché è importante tener presente che il soggetto che è entrato in cattività ha portato con sé la propria storia. E non vi è nessuna garanzia che ne sia uscita una persona diversa o migliorata. È probabile che ne sia uscito cambiato, che non sarà più come prima; ma non è detto che sarà migliore di prima.
Inoltre, pare pure opportuno soffermarsi su due parole molto di moda in epoca di pandemia: «catastrofe»e «apocalisse».
Infine, va valutata l’azione; dopo averla, si spera, adeguatamente pensata.
2. «Chi» è entrato in cattività?
Per la più gran parte, l’uomo occidentale, già cristiano e «rivoluzionato» (2).
Non è indifferente la condizione esistenziale dell’uomo che ha patito la pandemia, il suo «giro mentale», dal momento che esso influisce in modo significativo sul modo di affrontare le prove, soprattutto se queste assumono un carattere ultimativo. E non è neanche mero esercizio cartografico constatare che la macchia rossa del Covid-19 ha finito con il superare, di gran lunga, anche quella che copriva buona parte dell’orbe terracqueo all’epoca dell’espansione dell’impero social-comunista. Ciò solo per dare la dimensione quantitativa, oltre che qualitativa, del frangente storico che stiamo vivendo.
Uomini «rivoluzionati», dunque, che di fronte alla pandemia si sono persuasi che l’unico bene da difendere a tutti i costi fosse la salute, per esempio rassegnandosi facilmente alla privazione dei sacramenti: la salute come bene superstite, dopo che altri, capaci di fondare una speranza, un eschaton ultraterreno, erano già stati estromessi dal loro orizzonte esistenziale (3).
Soffermiamoci sulla cattività. E chiediamoci: di che cosa sono stati privati questi uomini? O meglio, a che cosa hanno acconsentito a rinunciare? A molte libertà, certo; e non solo di movimento o di riunione: si pensi, di nuovo, alla libertà religiosa. Soprattutto, essi sono stati privati della loro stessa socialità, che non è proprio un aspetto accessorio dell’umano.
In primo luogo, per questa ragione abbiamo assistito a un esperimento sociale straordinario. Ci siamo, cioè, ritrovati a vivere una condizione in qualche modo innaturale, con una socialità ridotta alla sua dimensione elementare, ovvero alla famiglia (e talora neppure quella).
Un esperimento che rappresenta un’occasione altrettanto straordinaria per il militante contro-rivoluzionario, cioè colui che ama l’ordine e la Verità e, perciò, opera in vista dell’esatto contrario degli scopi rivoluzionari, ossia affinché la città dell’uomo possa riavvicinarsi alla Gerusalemme celeste (4). Abbiamo, infatti, avuto l’opportunità di agire come una sorta di «entomologi sociali», avendo avuto a che fare con gran parte del nostro prossimo –– e di quella parte, come detto, maggiormente colpita da quel morbo rivoluzionario plurisecolare studiato per anni –– che si è ritrovato a vivere come sotto un enorme bicchiere, come un insetto da laboratorio. Una condizione che, oltre ad essere non ordinaria, è a suo modo anche irripetibile.
Perché irripetibile?
Si è sempre detto che la lettura contro-rivoluzionaria del reale e dell’uomo non può prescindere da una dimensione dinamica: a noi interessa sapere a che punto è il nostro interlocutore, il suo film, più che il singolo fotogramma. Ebbene, la irripetibilità della situazione che si è vissuta — e che stiamo tuttora vivendo, quanto alla permanenza di taluni effetti non secondari —, nella prospettiva dell’azione contro-rivoluzionaria, sta anche e, credo, soprattutto in questo: abbiamo la possibilità di mostrare al nostro prossimo una sorta di «fermo immagine» della sua condizione personale e sociale, una sorta di «istantanea della verità» di sé stesso e della «suacircostanza», secondo la nota definizione dell’«io»di José Ortega y Gasset (1883-1955) (5).
3. Catastrofe e apocalisse
Veniamo alle due parole forse più usate e abusate in epoca di pandemia: catastrofe e apocalisse. Facciamo anche qui una premessa.
L’uso di queste parole deve rimandare necessariamente alla loro etimologia, se vogliamo evitare tentazioni gnostiche del tipo: «Finalmente è arrivato il castigo per il mondo moderno!». E ciò non solo perché, come diceva il pensatore colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), il castigo del mondo moderno è lo stesso mondo moderno (6), ma perché il castigo o il premio è materia di Dio, che in genere preferisce la strada della correzione misericordiosa. Fatima docet (7). Ed anche perché non dobbiamo dimenticarci che noi guardiamo l’ordito della storia dalla parte dei fili, non da quella del disegno riprodotto dal tappeto (8).
Che cos’è una catastrofe?
La catastrofe è un rivolgimento, un radicale capovolgimento. Pensiamo all’aratro che solca il terreno e lo rivolta, facendo venire in superficie ciò che era nascosto e spostando sotto ciò che era sopra.
Se ci soffermiamo su questa immagine, possiamo cogliere bene il senso dell’altra parola, «apocalisse».
L’apocalisse è una rivelazione, un disvelamento (9).Orbene, quest’uomo che è rimasto chiuso sotto il bicchiere ha sperimentato questo radicale capovolgimento. Ha visto il suo mondo cosi come realmente è. O, almeno, è stato nella condizione di vederlo per come è. E di conservarne memoria.
Ciò che sembrava importante, indiscutibile, rassicurante, si è sgretolato: è venuto giù come mera crosta di superficie. E hanno incominciato a venir su, ad emergere, altre cose, fino ad allora nascoste, sotterrate, rimosse.
La morte si è presentata in tutta la sua violenza imprevista, inaspettata, non dominabile; la vita ha assunto una connotazione drammatica, tragica; tutto è sembrato interpellare sul senso ultimo: l’«io che sono?» del pastore errante per l’Asia di leopardiana memoria è il grido che risuona ancora, anche dopo che si è usciti dalla cattività (10).
È stato spesso evocato il raffronto con una condizione bellica. E, tuttavia, a differenza della guerra, nella quale si difende un mondo, il proprio mondo, in questa catastrofe è proprio quel mondo che implode, trascinando con sé tutto e tutti. E implode in maniera inaspettata, repentina, globale, non dominabile, senza lasciare spazio a sofismi: soprattutto, costringendo finalmente alla serietà.
Se questa, però, è la condizione che stiamo vivendo, non è detto che ognuno ne stia percependo la qualità epocale e sia disposto a fare i conti con quel che questa condizione porta con sé.
Per spiegare questo decisivo passaggio, si può far riferimento a quanto accaduto per la rimozione del Muro di Berlino.
Va detto subito che è presto per operare raffronti che vadano al di là della mera percezione di spartiacqueche sembra accomunare i due eventi. Tuttavia, quel che qui rileva è descrivere l’atteggiamento che sta avendo chi ha vissuto quell’evento, come chi sta vivendo questo.
All’occhio di un osservatore senza pregiudizi ideologici, appariva evidente che quel che stava finendo il 9 novembre 1989 non era solo un regime, un impero, ma un’ideocrazia, l’idea di realizzare l’«uomo nuovo», il paradiso in terra (11). Eppure c’è stato chi non ha voluto vedere quel che stava accadendo, attribuendo quella caduta, quella catastrofe, al fallimento di «un» tentativo, non «del» tentativo in sé.
Anche oggi sembra stia accadendo in qualche modo, mutatis mutandis, la stessa cosa.
Quanti, per esempio, pur respingendo sdegnati l’idea del complotto made in China, attribuiscono la causa della pandemia alla reazione della natura violentata da sette miliardi di uomini! E innamorati delle città vuote e delle acque tornate limpide, vagheggiano e dichiarano, senza mezzi termini, che il vero nemico è l’uomo (12)! Per costoro — per quanto siano una esigua minoranza estremamente ideologicizzata, che poco ha a che fare con la gente comune — l’esperimento non dovrebbe finire o «meglio» dovrebbe concludersi con la definitiva asfissia dell’uomo-insetto chiuso nel bicchiere. Anche costoro non rimpiangono il mondo di ieri, soltanto che lo vogliono semplicemente senza uomini; insomma la pandemia è, per loro, l’occasione per rilanciare, per alzare la posta della scommessa, non per abbandonare quel tavolo da gioco cui hanno ridotto il consorzio umano.
Qual è, invece, l’aspetto che va valorizzato e che deve necessariamente accompagnare quello catastrofico? Proprio il disvelamento. Ed è il disvelamento che interpella i contro-rivoluzionari.
E non per dire: «avevamo ragione!». Ma perché, torno a dire, abbiamo la straordinaria possibilità di far aprire gli occhi al nostro prossimo, ovvero di approfittare dell’occhietto che incomincia ad aprirsi, mostrargli gli effetti del mondo rivoluzionato e fargli vedere in quanto sterco si trova immerso, con risultati molto più efficaci di tante parole e di tante conferenze (13). E la condizione di isolamento in cui si trova costituisce già di per sé la plastica rappresentazione dell’approdo individualistico del processo rivoluzionario, vagheggiato e teorizzato come esito utopicamente felice della progressiva liberazione da vincoli e legami, ed ora fattasi — seppur solo per qualche mese — soffocante realtà.
Proviamo, allora, a suggerire qualche riflessione su alcuni scenari che l’osservazione da laboratorio ci ha offerto e ci sta offrendo.
4. Che cosa descrive questo fermo immagine? Di cosa è l’istantanea?
Della fine della modernità.
Abbiamo evocato il confronto con un altro evento-spartiacque, la caduta del muro di Berlino.
Tuttavia, la pandemia con cui si apre il primo secolo del terzo millennio ha una peculiarità «apocalittica»che non possiede quel che è accaduto nel 1989. Essa interessa tutto un mondo, quello nato dalla modernità, e ne mette a nudo la tracotanza, senza che la cosa possa essere liquidata, per dimensioni e profondità, come frutto dell’errore di qualche cattivo interprete del copione.
Ma che cos’è la modernità? Facciamo rispondere a uno dei suoi difensori, il sociologo francese Alain Touraine: «La modernità è il passaggio dalla legge di Dio o della natura alla legge umana cosciente della propria capacità e volontà di auto-creazione, di auto-trasformazione e di auto-distruzione» (14). «Siamo sempre più consapevoli di essere determinati da noi stessi, di vivere in un mondo creato da noi» (15). «Ciò che definisce la modernità è l’eliminazione del sacro» (16).
Se questa è la definizione di modernità e del giro mentale dell’uomo moderno, la pandemia ci mette davanti proprio il suo fallimento, giacché la distruzione e la trasformazione sembrano non provenire dalla mano dell’uomo e sfuggire a ogni umano controllo. È la sconfitta dell’auto-determinazione, della pretesa di governare il corso delle vicende storiche.
È la bancarotta della scienza, con la «S» maiuscola; di quella scienza cui «[…] è attribuita una sconfinata capacità predittiva […]. Quando il ministro per gli Affari Regionali, Francesco Boccia, ha chiesto alla comunità scientifica […] “di darci certezze inconfutabili e non tre o quattro opzioni per ogni tema” non ha detto soltanto una sciocchezza epistemologica da seconda metà dell’Ottocento, ma ha dato voce ad un sentimento di frustrazione popolare intorno ad una scienza che non riesce nemmeno a mettersi d’accordo sull’efficacia delle mascherine» (17).
Ancora più evidente è il naufragio delle illusioni narcisistiche alimentate dalla modernità. La pandemia ha sancito drammaticamente la fallacia dei nuovi orizzonti paradisiaci di cui la modernità ha nutrito ciascuno di noi: il diritto alla salute, in primis, inteso come diritto assoluto al ben-essere cioè allo star bene, e il diritto alla felicità concepito come una sorta di diritto all’immortalità. La società narcisistica di massa, dal volto sempre più simile a una «società dispotica di massa», popolata da individualisti sempre più aggressivi e rancorosi (18), secondo le acute osservazioni di Giovanni Orsina (19), sembra naufragare nella delazione reciproca (20).
La pandemia ha fatto crollare una società già destinata all’implosione? Può essere. Certo è che ne sta quanto meno accelerando la dissoluzione.
E tanti lo avevano già previsto. Infatti, la previsione fatta da Giovanni Cantoni sull’implosione del mondo coartato all’interno del Muro di Berlino e dell’impero socialcomunista rende plausibile oggi la proposizione di un parallelismo, a mo’ di ricorso vichiano, con la dicotomia fra lo sfruttamento da parte del Partito Comunista Cinese della pandemia –– quantomeno favorita dal colpevole silenzio, fino alla censura, sul conclamarsi del nuovo virus, per finalità di egemonia geopolitica –– e la strutturale fragilità del suo potere, minato alla base dall’ergersi sulla menzogna e, ultimamente, passibile anch’esso verosimilmente, a detta di molti analisti, di implodere. Del pari interessante è la previsione svolta da Orsina proprio con riferimento alla democrazia del narcisismo: «Nella storia della democrazia […], l’espansione dell’autodeterminazione soggettiva è stata limitata soprattutto in due maniere: facendo forza sulle strutture sociali e sui valori tradizionali da un lato, e sulle circostanze storiche dall’altro. La restaurazione della tradizione e il presentarsi di una catastrofe rappresentano la seconda e la terza ipotesi di soluzione del rompicapo democratico […]. Con ogni evidenza, né le sfide storiche che si sono presentate finora né il timore per l’insorgere di difficoltà ancora più drammatiche sono state sufficienti a far uscire la democrazia dal suo labirinto. Non è che ci si possa augurare a cuor leggero sciagure sempre maggiori, tuttavia. Anche a prescindere dal fatto che comunque le catastrofi arrivano quando dicono loro, e non quando vogliamo noi» (21).
È, dunque, finita la Rivoluzione? Certamente no!
Anzi non può escludersi che la pandemia possa essere l’occasione per la Rivoluzione di fare un salto di qualità nella complicata fase del coagula (22), grazie a un sottile ma pervasivo dirigismo motivato dall’emergenza sanitaria e, per questo, accettato di buon grado dal narcisista moderno che non è disposto ad alcun sacrificio, men che meno a mettere a repentaglio l’unico bene rimastogli, ovverosia la propria salute.
Le reazioni osservate durante il confinamento forzato mostrano quanto sia sempre meno richiesto un esercizio manifesto di coazione da parte dei governanti e quanto sempre più evidente sia la tendenza dei governati ad accettare, senza opporre resistenza, sistemi di controllo invasivi.
La pandemia ci consegna, in definitiva, una società totalitaria di massa, dove la spinta verso il controllo capillare e totalizzante non viene più dall’alto ma dal basso, da un corpo sociale composto da monadi a cui non interessa altro che il breve respiro di felicità da godere su questa terra, per il quale sono disposte a sacrificare porzioni sempre più estese di libertà; quel che è iniziato dopo l’11 settembre del 2001, dinanzi alla minaccia terroristica, viene a compimento oggi, dinanzi alla minaccia del Covid-19.
Se lo Stato totalitario è stato efficacemente definito come il regime misto delle degenerazioni delle diverse forme di governo, tutto teso a controllare la società fino a divorarla, la società totalitaria rappresenta la coerente evoluzione di quella «dittatura del relativismo» che vede come soggetto propulsore l’«io»fattosi legge a sé stesso e che pretende dallo Stato la persecuzione di tutti coloro che costituiscono minaccia alla realizzazione delle «proprie voglie» (23). Naturalmente, tra le «voglie» di cui parlava il card. Ratzinger non possiamo certamente considerare la salute del corpo, che ogni uomo ha il dovere di proteggere per sé e per gli altri, né possiamo mai dimenticare le tante vittime di questa pandemia, soprattutto coloro che sono morti per amore degli altri, come i medici, gli infermieri e i sacerdoti, in particolare quelli delle regioni più colpite, ricordati dalle belle parole di Papa Francesco: «Abbiamo sentito più che mai viva la riconoscenza per i medici, gli infermieri e tutti gli operatori sanitari, in prima linea nello svolgimento di un servizio arduo e a volte eroico. Sono stati segno visibile di umanità che scalda il cuore. Molti di loro si sono ammalati e alcuni purtroppo sono morti, nell’esercizio della professione. Li ricordiamo nella preghiera e con tanta gratitudine» (24).
5. Altro terreno, sul quale si manifesta la portata apocalittica della pandemia, è quello della socialità
A tal proposito, i dati relativi alla criminalità evidenziano il tipo di socialità che abbiamo vissuto: una socialità viziata. L’esperimento sociale subìto costituisce la conferma «da laboratorio» della fondatezza della tesi enunciata dal magistrato Giovanni Falcone (1939-1992), secondo cui la mafia non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano (25). Il problema, in altri termini, non è nella socialità, ma nel vizio che l’ha resa tossica e nel soggetto che origina e alimenta il vizio: l’uomo. Ed è la prova che occorre prender atto che la criminalità, soprattutto quella organizzata, si alimenta del brodo di coltura costituito da un relativismo morale fattosi costume e norma sociale.
Orbene, anche da questa angolazione, si pone dinanzi a noi l’opportunità storica e –– questa sì –– davvero epocale, di mostrare all’uomo, che ha vissuto questa lunga cattività da pandemia, la sua condizione viziosa, senza veli né schermi.
Riprendo l’immagine dell’aratro: questo è il momento in cui possiamo gettare semi, perché c’è terreno nuovo, un humus reso fertile da un atteggiamento nuovo, quello di un uomo che incomincia a rientrare in sé stesso, che riacquista familiarità con la virtù dell’umiltà (26), realizzando la propria condizione di strutturale finitezza e dipendenza.
Dio ci ha aiutati: sta adesso a noi aiutarci e aiutare il nostro prossimo. E sta in modo particolare a noi, contro-rivoluzionari, aiutarlo, sollecitando qualche domanda ed evitando una pericolosa tentazione: l’assuefazione sanitaria.
In nome della «salute», infatti, si sta cercando di anestetizzare l’insetto uscito dal bicchiere, abituandolo, come si è detto, a un regime di controllo invasivo e alla etero-direzione; tacitando, come domande fuori contesto, quelle che attengono alla «salvezza». Favorendo, inoltre, l’attecchimento di una mentalità dialettizzante, che vede in rapporto di insanabile e irrimediabile contrasto aspetti essenziali per la vita dell’uomo; aspetti, che, al contrario, devono essere sempre tenuti insieme, nel rispetto dell’unità corpo-anima; mi riferisco, in modo particolare, ai binomi salute-salvezza, libertà-autorità.
6. Catastrofe e apocalisse sociale
Proseguiamo nell’analisi di questo straordinario «fermo-immagine»e vediamo in che modo la catastrofe e l’apocalisse hanno interessato le principali autorità sociali. Perché questa condizione non ha solo messo a nudo la condizione dell’uomo «rivoluzionato». Ha evidenziato anche le condizioni –– pure rivoluzionate –– delle principali autorità sociali.
a. La Chiesa
Ovviamente dalla sua parte umana. Quella del piano superiore sta provando a correggerci, con misericordia. Non so se è l’ultima occasione: certamente viviamo tempi «ultimi» e la Chiesa resta il nostro Medioevo (27), la nostra unica arca, da amare. E ovviamente non va dimenticato il mirabile sacrificio di tanti sacerdoti e religiose, che costituiscono prova evidente della indefettibile presenza amorevole di Nostro Signore.
Ma l’osservazione a cui siamo chiamati mira a stabilire le condizioni della Chiesa come istituzione, la sua rilevanza nel contesto sociale e politico; insomma, la sua resistenza a questa «prova da sforzo». Orbene, sembra di poter affermare, alla luce soprattutto della vicenda dell’interdizione al pubblico delle Messe, che la Chiesa-istituzione in Italia non sembra aver cercato di cogliere il tempo della pandemia come occasione di evangelizzazione, salvo alcune lodevoli eccezioni fra cui i gesti liturgici di Papa Francesco e di alcuni vescovi, oltre che la Messa quotidiana del Papa alle sette del mattino da Santa Marta, vista da decine di milioni di persone, nonché lo sforzo di quei sacerdoti che non hanno abbandonato i fedeli ma sono stati sempre loro accanto con i sacramenti e la vicinanza spirituale e materiale.
Vi è stato un frettoloso adeguamento alle disposizioni dell’autorità civile, che sono state, anzi, interpretate anche in senso ulteriormente restrittivo dai vertici ecclesiali. Così, di fatto, rinunciando alla potestas directa in spiritualibus che, in base al Concordato (e non solo) del 1929, aggiornato nel 1984, appartiene in modo esclusivo alla Chiesa; e, per giunta, acuendo una condizione di conflittualità intra-ecclesiale.
È una Chiesa sempre più smembrata,frammentata, nella quale la dottrina viene separata dalla pastorale, il Papa dai vescovi, i vescovi fra loro e dai sacerdoti, questi ultimi spesso anche dal popolo. Una Chiesa fatta a pezzi –– l’autodemolizione è continuata ed è, purtroppo, in una fase avanzata (28) –– che, dunque, è meno temuta ed è più facile controllare. È innegabile che quanto accaduto nella vicenda relativa alle cerimonie religiose, con particolare riferimento alle disposizioni impartite per lo svolgimento dell’esercizio pubblico del culto, segna una svolta che crea un precedente allarmante: lo Stato ha messo piede all’interno delle Chiese; il che, oltre a infrangere il principio della sovranità della Chiesa nella materia del culto, ha fatto venir meno, nella percezione dell’uomo sottoposto al lockdown, l’ultimo ambito sottratto al potere secolare, quello del sacro appunto, da sempre asilo della libertà minacciata dal potente di turno.
In effetti, quel che viene allo scoperto, in modo drammaticamente evidente, è proprio l’irrilevanza della Chiesa come frammento della più generale estromissione del sacro dall’orizzonte secolare. La questione, dunque, non è riducibile a quella «Messe sì/Messe no»: è molto più profonda e radicale e attiene al ruolo della religione per l’uomo post-moderno.
«Silete fideles in munere alieno!», si potrebbe sintetizzare così il giro mentale di cui i provvedimenti governativi e ministeriali sono solo espressione finale (29).
Risultano davvero illuminanti, a tale riguardo, le considerazioni svolte da Ernesto Galli della Loggia a proposito della condizione di crisi pressoché irreversibile dell’Unione Europea evidenziata dalla pandemia; una crisi che non è solo economico-politica, ma relativa alla sua stessa idea fondante, che non può essere che religiosa (30).
Anche per questo sarebbe stato lecito attendersi da parte della Chiesa una voce forte, un richiamo alla salvezza e al senso ultimo della vita e non unicamente la preoccupazione sanitaria, pure legittima, ma percepita come esclusiva. Sarebbe stato lecito, ma scarsamente pronosticabile, tenuto conto della drammatica situazione in cui versa la Chiesa.
E ciò, senza alcuna intenzione di svolgere una polemica fine a sé stessa, né di assecondare pulsioni «sedevacantiste», o anche soltanto animate da zelo amaro, ma solo per carità di Chiesa.
Vi è un dato, in definitiva, di questa istantanea che dovrebbe far riflettere tutti, chierici e laici: in questo «fermo immagine» non c’è nessun altare, non c’è popolo radunato attorno al suo sacerdote, non c’è il sacrificio, non c’è il Logos incarnato, principio e fondamento di ogni cosa.
b. Le autorità politiche
La pandemia ha certificato la loro agonia.
Non si è più al cospetto della delega ai tecnici di alcuni compiti. I tecnici si sono completamente sostituti alla politica. Di più. Il premier Giuseppe Conte, non essendo espressione né di un partito né eletto dai cittadini, è un tecnico «speciale» che fonda la propria autorevolezza su un partito altrettanto particolare, che non è fatto di parlamentari, ma da una categoria particolare di tecnici: gli esperti. Questi ultimi, infatti, non si limitano a indicare la soluzione tecnicamente più affidabile, ma propongono quella che –– secondo loro –– meglio si confà al benessere dei consociati. Si tratta, a ben vedere, della versione politica dei comitati etici per le questioni relative al cosiddetto «biodiritto». E tutto ciò sembra preludere a un salto qualitativo che si sta compiendo, grazie anche alla pandemia: il connubio fra tecnocrazia e un sempre più penetrante dirigismo statale. Sembra essere proprio questo il più probabile lascito, dal punto di vista degli equilibri istituzionali, per il dopo-pandemia, certificato anche da un completo sovvertimento delle fonti del diritto, dal momento che i principali atti di governo assumono la veste di provvedimenti di natura amministrativa, mettendo da parte l’orpello della legge e l’intervento del Parlamento, avvertito sempre più come un inutile passaggio formalistico.
c. Le famiglie
L’uomo chiuso nel bicchiere ha «riscoperto» la famiglia? Vedremo. Anche a tale riguardo, tuttavia, è bene ricordare che la famiglia entrata in quarantena non godeva, già prima della pandemia, di buona salute. E, perciò, non è detto che esca migliorata o che abbia risolto tutti i suoi problemi. Anzi.
Sulle famiglie, sul loro futuro prossimo, pesa, peraltro, una grande incognita, che è data dallo scenario economico che ci attende. La pandemia potrà avere, in particolare, effetti catastrofici sulla «società signorile di massa» (31), descritta dal sociologo Luca Ricolfi e caratterizzata da un significativo squilibrio fra chi non lavora e vive di rendite accumulate, e chi è costretto a lavorare. La storia ci mostra quanto siano state devastanti le recessioni economiche seguite alle pandemie. Ed è possibile che tutto questo potrà incidere sull’istituto familiare, mettendolo ulteriormente alla prova.
7. Che fare, dunque?
Innanzitutto, verso noi stessi…
Questa condizione incide anche su di noi, militanti di Alleanza Cattolica, sulla nostra psicologia di contro-rivoluzionari chiamati a ricostruire più che a difendere. Oggi è quanto mai importante non trascurare l’auto-formazione, la routine associativa, la coltivazione dei rapporti intra-associativi, non trascurando la cura e l’attenzione nei confronti di ogni militante.
…e, poi, verso il nostro prossimo.
All’uomo uscito dalla cattività, come si è detto, bisogna continuare a parlare. E suscitare in lui domande, una volta che siamo riusciti a far sì che il suo sguardo ritorni su questo «fermo immagine» epocale.
Il rivolgimento e l’apocalisse possono favorire, come abbiamo visto, l’emersione di domande fondamentali. Domande che sollecitano risposte altrettanto fondamentali, non banali.
«Pensare l’azione», in questo contesto, è operazione, dunque, particolarmente delicata, proprio perché ci troviamo in una condizione di apparente inazione (e dove sono la mente e il cuore che ricominciano a respirare, ad agire).
Per tornare al quesito iniziale, che è peraltro «il»quesito contro-rivoluzionario per eccellenza, cioè al «che ora è», mai come in questo momento va detto che stiamo vivendo un’ora che sembra essere scoccata per gran parte dell’umanità, chiamata ad affrontare un tornante storico non qualsiasi, ma decisivo ai fini di un’eventuale, non scontata, ma possibile, risalita.
Occorre certamente l’aiuto di Dio, che, per certi versi, c’è già stato; ma bisogna soprattutto che decidiamo di aiutarci e di non far mancare il nostro aiuto a chi sta affrontando una prova importante ed è chiamato ad affrontarne una ancor più difficile.
Come aiutare noi stessi e gli altri?
a) Spiegare quanto è accaduto, almeno per fare contro-informazione — innanzitutto, la verità dei fatti: «dopo Chernobyl, Wuhan?» — e per impedire che si facciano narrazioni che rilancino subdolamente ideologie fallimentari: ambientalismo, globalismo, scientismo;
b) pensare e diffondere iniziative vessillari, dedicandosi soprattutto ai princìpi, cioè alle risposte alle domande fondamentali, ben racchiuse nella felice iniziativa voluta da Giovanni Cantoni nota come Dizionario del pensiero forte;
c) mettere a frutto i contatti sorti — anche a seguito di numerose iniziative on line, a cominciare dalla recita quotidiana del rosario — e coltivarli, soprattutto se sono espressione di ambienti: gli «isolati» e gli «abbandonati» — anche fra il clero — vanno confortati, orientati e messi in relazione fra loro;
e) interessarsi delle autorità — amministrative, politiche e non solo — e dare loro consigli;
g) tenere vivo il ricordo di quanto accaduto, conservando l’istantanea come pro-memoria (32). In particolare, non dimenticare mai i tanti morti (che purtroppo continuano anche se in misura ridotta) e il modo disumano in cui han dovuto morire, cioè da soli, senza alcun accompagnamento da parte dei propri cari. In molti paesi e in alcuni ospedali la morte è entrata con prepotenza nella vita pubblica e non soltanto in quella familiare come normalmente accade. È come se la modernità avesse dovuto sperimentare in modo «sociale» pubblico, quanto descrivevo all’inizio dell’articolo, circa l’incapacità del mondo moderno di garantire la realizzazione delle sue pretese ideologiche di onnipotenza.
Ricordiamoci che esistono anche gli esperti di «ascetica sociale», quali noi — che militiamo in Alleanza Cattolica — ci sforziamo di essere. Se siamo «sprofondati», occorre insegnare le «tecniche di risalita», come si fa per le riemersioni subacquee. Ed è una risalita impegnativa, nel senso proprio del termine, che cioè impegna sia chi la indica che chi viene invitato a percorrerla.
«L’impegno urge. E non quello che gradiremmo, ma quello a cui ci chiama la pressione rivoluzionaria così come storicamente si manifesta. Un impegno personale, diretto, non delegato. Si può delegare molto, non tutto e, certamente, non l’essenziale. Non basta sostenere chi si impegna, sempre che lo si faccia veramente, ma bisogna impegnarsi in campo culturale, civico, sociale. […] All’avvelenamento psicologico e culturale in cui immerge la educazione permanente dei mezzi di comunicazione sociale, dei mass media, si deve rispondere non tollerando l’errore –– neppure per carità di Chiesa ––, ma facendo circolare la buona stampa, spegnendo la televisione e parlando, ravvivando il dialogo domestico e fra nuclei familiari, costruendo micro-comunità dottrinalmente e praticamente solidali. E tutto questo costa tempo e fatica. Tempo e fatica sottratti al lavoro e allo svago […]. Ma tutto questo sta dalla parte di quell’“aiutati” naturale, cui segue, ristoratrice e restauratrice, la promessa dell’aiuto di Dio» (33).
Domenico Airoma
Note:
1) Chiedersi «che ora è?» –– cioè identificare con precisione lo scenario all’interno del quale la Provvidenza ci ha chiamati a esercitare il nostro apostolato –– era ritenuto da Giovanni Cantoni (1938-2020) un imprescindibile punto di partenza per qualsiasi azione realmente incisiva. Ignorare la domanda, o rispondervi scorrettamente, potrebbe ridimensionare drasticamente, se non addirittura vanificare, gli sforzi. La meditazione di Cantoni prendeva spesso spunto dalla domanda che Dio rivolse ad Adamo, dopo che quest’ultimo ebbe mangiato dall’albero: «Ubi es?», cioè «Dove sei?» (Gn. 3,9). Cfr. Ignazio Cantoni, La Casa Europa: vivere da contro-rivoluzionari in un’Europa che muore, in Cristianità n. 381, anno XLIV, luglio-agosto 2016, pp. 43-54 (p. 53).
2) La Rivoluzione a cui viene fatto riferimento si identifica in un processo critico plurisecolare che, nato storicamente all’epoca dell’umanesimo rinascimentale, ha interessato le zone più profonde dell’anima e della cultura dell’uomo occidentale, corrompendo dall’interno la civiltà cristiana nata dallo sforzo storico di avvicinare la città dell’uomo alla Gerusalemme celeste.
3) «Abbiamo cresciuto una larga parte dei nostri ragazzi nell’illusione che il benessere fosse un diritto universale e comunque ci dovesse essere qualcuno, famiglia o stato, a garantirlo. Abbiamo sparso a piene mani l’idea che la vita fosse un film di Walt Disney o un Luna Park. Che toccava sempre ad altri precipitare nel baratro, non a noi, esseri onnipotenti resi quasi immortali dagli ultimi ritrovati della tecnica» (Guido Tonelli, «Non saremo mai più gli stessi quando finirà la catastrofe», in Corriere della Sera, 9-4-2000).
4) Si tratta, perciò, di una missione totalizzante, che investe tutti gli aspetti della vita, e dunque della cultura, e che richiede in colui che la pratica un’azione sempre modulata sull’attualità del processo rivoluzionario. «Il contro-rivoluzionario deve […] utilizzare con cura il tremendo spettacolo delle nostre tenebre per far comprendere ai figli della Rivoluzione — senza demagogia, senza esagerazione, ma anche senza debolezza — il linguaggio dei fatti e così produrre in essi il flash salutare. Indicare virilmente i pericoli della nostra situazione è tratto essenziale di un’azione autenticamente contro-rivoluzionaria» (Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, con presentazione e cura di Giovanni Cantoni, Sugarco, Milano 2009, p. 129).
5) «Yo soy yo y mi circunstancia, y si no la salvo a ella no me salvo yo», cioè: «Io sono io e la mia circostanza e se non la salvo, non salvo neanche me stesso» (José Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte, 1914, trad. it., Guida, Napoli 1986, p. 44).
6) «Il mondo moderno non sarà castigato. Esso stesso è il castigo» (Nicolás Gómez Dávila, Escolios a un texto implícito II, introduzione di Alfredo Abad, versione italiana e note di Loris Pasinato, GOG, [Roma] 2018, p. 241).
7) Cfr. G. Cantoni, Fatima e la Contro-Rivoluzione del secolo XXI, in Cristianità, n. 301-302, anno XXVIII, settembre-dicembre 2000, pp. 3-14.
8) Cfr. Jean-Pierre de Caussade S.J. (1675-1751), L’abbandono alla divina provvidenza, testo critico originale ristabilito e presentato da Michel Olphe-Galliard S.J. (1900-1985), trad. it., San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1986, p. 86.
9) Il significato del vocabolo greco ἀποκάλυψις, che peraltro dà il titolo all’ultimo libro delle Sacre Scritture, significa appunto «rivelazione».
10) «Che vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono?» (Giacomo Leopardi (1798-1837), Canto notturno di un pastore errante per l’Asia, in Idem, Canti, Letteratura italiana Einaudi, Canto XXIII, pp. 76-80 (p. 78), vv. 88-89.
11) Cfr. G. Cantoni, Dopo il «crollo delle ideologie»: la politica e il «ritorno al reale», in Cristianità, n. 275-276, aprile 1998, anno XXVI, marzo-aprile 1998, pp. 3-4.
12) Cfr., per esempio, Stefano Magni, Comunisti verdi per un lockdown permanente,del12-5-2020,consultabile nel sitoweb <https://www.lanuovabq.it/it/comunisti-verdi-per-un-lockdown-permanente>, consultato l’11-7-2020.
13) Giovanni Cantoni soleva paragonare la condizione dell’uomo moderno a quella di Giobbe «sedens in sterquilinio» (Gb. 2,8), cioè che siede «sopra un letamaio». Il riferimento allo sterco è sostituito con «in mezzo alla cenere» nelle versioni italiane più recenti promosse dalla Conferenza Episcopale Italiana.
14) Alain Touraine, In difesa della modernità, trad. it., Cortina, Padova 2019, p. 41.
15) Ibid., p. 39.
16) Ibid., p. 22.
17) Mattia Ferraresi, Si fa presto a dire scienza, ne il Foglio quotidiano,25-5-2020.
18) «Aggressivi», come è lecito attendersi da più di un secolo di lavorio sulle coscienze della cosiddetta «filosofia della colpa altrui», così Gómez Dávila sintetizzava il tratto essenziale dell’idea socialista (cfr. N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, trad. it., Adelphi, Milano 2001, p. 19); «rancorosi», come è (altrettanto) lecito attendersi da chi ha, prima, sperimentato il fallimento planetario della promessa del «paradiso in terra», e poi la disillusione di una «società del benessere» fondata su una montagna di debiti che ha ipotecato il futuro dei figli: e il rancore è tanto più livido quanto più la società dei «nuovi diritti» dimostra di non poter accontentare tutti. Non a caso, alla filosofia della colpa altrui è subentrata, figlia comunque della stessa scuola, la «filosofia della colpa necessaria»: per la quale –– e lo stiamo vedendo massimamente in campo medico/sanitario –– il diritto a essere curati si è trasformato nella necessità di essere guariti.
19) Cfr. Giovanni Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica, Marsilio, Venezia 2018.
20) «La delazione è un fenomeno che c’è stato […]. Ma più che su questo aspetto, mi soffermerei sulla paura, che è il sentimento che lo ha scatenato. Dalla paura deriva la rabbia, che deve sempre rivolgersi contro qualcuno: in questo caso il nemico non era definito, perché il coronavirus è un batterio [sic], e allora il nemico lo si è cercato in coloro che contravvenivano alla propria paura» (Giuseppe De Rita, Il coronavirus lascia un’Italia ancora più divisa, in Il Quotidiano del Sud, 22-5-2020).
21) G. Orsina, op. cit., pp. 172-173.
22) Della Rivoluzione, la formula alchemica «solve et coagula», «dissolvi e ricomponi», ben riassume sia l’indole –– che prometeicamente, intende riplasmare la realtà –– sia i due momenti nei quali molto spesso si articola la sua strategia. Il momento del «solve» è quello della corruzione di un determinato istituto naturale, della società o dello Stato; quello del «coagula» consiste nel costruirne sulle rovine il «canone inverso» da parte di quella che, in un determinato momento storico, è l’«ala marciante» della Rivoluzione. Per fare un esempio «in grande», nella storia della decadenza della civiltà cristiana europea, il liberalismo filosofico ha costituito il momento del «solve», che ha poi lasciato il posto al «coagula», ieri, del social-comunismo e, oggi, del relativismo aggressivo, con i rispettivi tentativi di edificazione di un «uomo nuovo» asservito allo Stato-Moloch e/o alla dittatura del politicamente corretto. Cfr. Augustin Cochin (1876-1916), Le società di pensiero e la Rivoluzione francese. Meccanica del processo rivoluzionario, saggio introduttivo di Andrea Sciffo su La lezione di Mario Marcolla (1929-2003), Il Cerchio, Rimini 2008; n. ed., Oaks Editrice, Sesto San Giovanni (Milano) 2020.
23) «Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie» (card. Joseph Ratzinger, Omelia della Messa «Pro eligendo Pontifice», del 18-4-2005).
24) Francesco, Discorso ai medici, infermieri e operatori sanitari dalla Lombardia, del 20-6-2020.
25) Cfr. Giovanni Falcone (con Marcelle Padovani), Cose di Cosa nostra, Rizzoli, Milano 1992, p. 93.
26) «L’umiltà non definisce un comportamento esteriore, ma un atteggiamento interiore, dell’animo, nato da una decisione della volontà. Essa, fissa in Dio e compresa della sua condizione creaturale, è quell’attitudine di assoluto riconoscimento di ciò che è reale, grazie alla volontà divina. È la semplice accettazione di quest’unica verità: l’uomo e l’umanità non sono Dio, né come Dio» (Joseph Pieper [1904-1997], Sulla temperanza,trad. it., Morcelliana, Brescia 1965, pp. 89-90).
27) Sulla nozione di «grande medioevo» teologico, inteso come il tempo intermedio fra la prima e la seconda venuta di nostro Signore, cioè il tempo della Chiesa, all’interno del quale si formano «piccoli medioevi», cioè epoche di cristianità, cfr. G. Cantoni, Il «piccolo Medioevo», che trascrive il «grande Medioevo», in Cristianità, n. 391, maggio-giugno 2018, anno XLVI, pp. 23-26.
28) L’autodemolizione fu denunciata per la prima volta da Papa san Paolo VI (1963-1978) tre anni dopo la chiusura del Concilio Vaticano II (1962-1965): «La Chiesa attraversa, oggi, un momento di inquietudine. Taluni si esercitano nell’autocritica, si direbbe perfino nell’autodemolizione. È come un rivolgimento interiore acuto e complesso, che nessuno si sarebbe atteso dopo il Concilio […]. La Chiesa viene colpita pure da chi ne fa parte» (Paolo VI, Discorso ai membri del Pontificio Seminario Lombardo, del 7-12-1968).
29) Il giurista protestante Alberico Gentili (1552-1608), che insegnava diritto civile nell’Inghilterra elisabettiana, inserì la frase «Silete theologi in munere alieno» nel suo De iure belli, del 1588 (cfr. Alberico Gentili, Il diritto di guerra, trad. it., Giuffrè, Milano 2008, I.12, p. 83), così intimando ai teologi di non pretendere che in questioni di diritto internazionale –– e, in particolare, in caso di dichiarazione di guerra –– la religione potesse avere voce in capitolo per soppesarne la moralità.
30) Cfr. Ernesto Galli della Loggia, Coronavirus, idee, cultura, valori, interessi: è ormai un’Europa inaridita, in Corriere della sera, 6-4-2020.
31) «Per società signorile di massa intendo una società opulenta in cui l’economia non cresce più e i cittadini che accedono al surplus senza lavorare sono più numerosi dei cittadini che lavorano» (Luca Ricolfi, La società signorile di massa,La nave di Teseo, Milano, 2019, p. 21).
32) «L’oblio, il disprezzo della storia, andrebbe considerato come uno dei più gravi fenomeni degenerativi e di barbarie. In effetti, il fenomeno non cesserebbe di essere per la società quello che è la perdita di memoria per l’individuo. Ma se l’uomo perde la memoria prenderà come guida i suoi istinti» (Gonzague de Reynold (1880-1970), Cercles concentriques. Etudes et morceaux sur la Suisse,Les Edition du Chandelier, Bienne (Svizzera) 1943, p. 183).
33) G. Cantoni, Per un anticomunismo militante, in Cristianità, anno VI, n. 37, maggio 1978, pp. 1-2 (p. 2), ora in Idem, La lezione italiana. Premesse, manovre e riflessi della politica di «compromesso storico» sulla soglia dell’Italia rossa, Cristianità, Piacenza 1980, pp. 233-236 (p. 236).