Downton Abbey: riflessioni e digressioni
di Luca Finatti
Downton Abbey è una delle serie tv più amate di questo decennio.
Seguita da 120 milioni di persone in 220 nazioni, è andata in onda negli anni 2010-2015 per sei stagioni e ha visto la prosecuzione della storia in un film dal titolo omonimo, uscito nel 2019, che avrà probabilmente un sequel il prossimo anno*.
Il racconto si snoda dal 15 aprile 1912, giorno del naufragio del Titanic, al 1925, fra dilemmi ereditari, storie d’amore e i grandi eventi che rimangono sullo sfondo, influenzando però, a volte in modo decisivo, anche la quotidianità dei protagonisti: la Prima Guerra Mondiale, l’epidemia influenzale detta “spagnola”, lo sviluppo impetuoso della tecnica, la decadenza della nobiltà di sangue e l’affermazione delle nuove istanze politiche liberali e socialiste.
Il creatore della serie, Lord Julian Fellowes, cattolico conservatore, baronetto di West Stafford dal 2011, ha studiato nel collegio benedettino di Ampleforth, laureandosi poi a Oxford. Recentemente, dopo essere stato attore discreto, prolifico sceneggiatore di film gialli e drammi storici (Oscar nel 2002 per la sceneggiatura di Gosford Park, film che ha ispirato l’idea della serie tv), Fellowes è divenuto uno stimato scrittore di romanzi di successo, sempre ambientati nel mondo dell’aristocrazia britannica contemporanea, descritta però con uno spirito più caustico rispetto alla serie tv.
Come ha ripetuto in molte interviste, stanco di racconti nichilisti pieni di violenza, Fellowes ha deciso di mostrare personaggi che cercano di migliorare la propria condizione sociale o di essere all’altezza del compito loro assegnato, lottando anzitutto contro le proprie debolezze, in un’alternanza di cedimenti e volontà di riscatto che creano empatia con il pubblico. Sarebbe stato facile, come tanti prodotti culturali ci hanno abituato, rappresentare la nobiltà come corrotta e sfruttatrice di classi povere piene di risentimento; invece, la scrittura raffinata e intelligente dell’autore ci propone una realtà più complessa, dove le dinamiche del cuore umano sono le stesse, al di là delle differenze di classe, e si creano spesso alleanze e complicità tra i signori e la servitù, alla ricerca di un bene superiore.
Cosa s’intende dunque per “nobiltà” in Dowton Abbey?
“La parola nobiltà evoca in primo luogo, per me, l’idea di distanza. Precisiamo. La nobiltà esteriore e apparente consiste nell’essere distanti nei confronti degli altri, la nobiltà interiore e reale consiste nell’essere distanti nei confronti di sé stessi. L’uomo nobile pone la ragione d’essere della sua esistenza e la sorgente delle sue azioni in una fede, un ideale, un codice d’onore che s’innalzano enormemente al di sopra del suo meschino io” (Gustave Thibon [1903-2001], Ritorno al reale, trad. it., Effedieffe, Milano 1998, p. 281).
Forse è proprio questa la ragione dell’enorme successo della serie tv: avere descritto personaggi anzitutto interiormente nobili, che sanno irradiare di luce buona l’ambiente in cui vivono, sia quello di un’antica famiglia aristocratica della piccola nobiltà inglese, sia quello della servitù che lavora e convive negli stessi ambienti.
Uno dei protagonisti della narrazione è certamente il padre, Robert Crawley, conte di Grantham: le figlie lo amano e lo rispettano, senza però rinunciare alle proprie esigenze di emancipazione.
Lui le rimprovera o le asseconda, con amorevole pragmatismo, ribadendo però con forza i princìpi a cui si deve ispirare la loro condotta e riuscendo sempre a riportare anche le spinte più rivoluzionarie nell’alveo della storia famigliare, facendo sì che tutti possano trovare un posto nella secolare vicenda di Dowton Abbey, simbolo di un cosmo tradizionale, ordinato e regolato da leggi accettate come naturali e giuste.
Come ha scritto lo psicologo Claudio Risé: “il padre ci libera dal male dandoci l’ordine, separandoci dal caos. Quella separazione comporta però una ferita” (Il padre. L’assente inaccettabile, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo [Milano] 2003, p. 23).
La prima ferita è strappare i figli dall’unione simbiotica con la madre, come avviene nelle vicende qui narrate, dove a volte, contro Lord Grantham, si coalizza il mondo femminile: la madre, le figlie, sporadicamente la moglie.
Il padre però sa quando è conveniente cedere e quando è giusto resistere.
Esemplare la “ferita” amorevolmente inferta alla primogenita Mary, mentre il conte le spiega perché non ha intenzione di favorirla, attraverso sotterfugi o ingiuste forzature, per impedire che l’eredità e la tenuta di Dowton Abbey vadano a un lontano e sconosciuto cugino, come stabilito dalle regole del suo lignaggio: “La mia fortuna si deve ad altri. Hanno lottato duramente per costruire questa dinastia. Ho il diritto di distruggere i loro sforzi? O depauperare la loro dinastia? Sono un custode mia cara, non un proprietario. Devo cercare di svolgere bene il compito assegnatomi”.
Così parla un padre.
Non dobbiamo però immaginare un’inverosimile idealizzazione della paternità tradizionale: Robert Crawley ha sposato la ricca americana Cora anzitutto per interesse e per salvare Dowton Abbey da una sua gestione economica poco avveduta, ma ha imparato a stimare e amare la moglie, rinunciando anche a possibili occasionali tradimenti.
Nel corso delle stagioni, inoltre, il padre viene rappresentato con tutti i difetti e le debolezze di un uomo che vede sfaldarsi il mondo a cui apparteneva, perdendo molte delle certezze del passato e attraversando esperienze familiari drammatiche, anche a causa di alcuni suoi peccati di orgoglio; nonostante tutto però il racconto preferisce sempre sottolineare la dignità del ruolo paterno di guida, di consiglio, di sostegno, anche nei confronti delle classi inferiori. Si osservi ad esempio la vicenda di John Bates, il valletto del conte, le cui disavventure a poco a poco delineano un chiaro destino: smettere di farsi condizionare dai sensi di colpa per imparare davvero ad amare e diventare così, anche lui, orgogliosamente padre.
Emergono inoltre spesso tratti di tenerezza che potrebbero sembrare poco consoni a un austero pater familias del secolo scorso, ma certo lo avvicinano a un’idea di paternità oggi più diffusa e comune. Lo splendore di questo personaggio emerge tanto più dal contesto in cui è inserito: un mondo fatto di armonia, ordine, bellezza che pervadono minuziosamente ogni aspetto della quotidianità; dialoghi sagaci, argute schermaglie che esaltano il piacere della conversazione, il tutto vissuto con fierezza e coscienza del proprio valore, come accade per l’anziana madre Lady Violet, interpretata da una superba Maggie Smith.
L’ottimismo che impregna di sé tutta la serie non è però mai disgiunto dalla crescente malinconica consapevolezza che un mondo sta morendo e un altro si sta affacciando con prepotenza e disprezzo del passato, ma alla fine prevale il desiderio di immaginare una possibile futura riconciliazione fra il vecchio e il nuovo, attraverso soprattutto i matrimoni lungamente agognati e sofferti.
Se è vero che la fede cristiana è solo accennata come consuetudine, ma è comunque presente, possiamo sperare che il simbolismo dello sposalizio non sia solo un facile lieto fine, ma ci ricordi implicitamente quanto Marcel de Corte (1905-1994) aveva magistralmente scritto in un’altra epoca ed è oggi sempre più drammaticamente vero: “Senza delle vere élites, una civiltà non può reggersi […] la famiglia cristiana, ecco il solo luogo della terra in cui si mantengono vive le élites, se noi lo vogliamo. Ecco il punto: se lo vogliamo. Bisogna che padre e madre siano oggi tali che i figli possano ammirarli, accordargli la loro approvazione, imitarli, scoprire in essi dei modelli di uomini e di cristiani […]. Così nasceranno le nuove élites, umili, solide e vere: con il contagio dell’esempio, nel segreto del cuore che prega senza stancarsi, nell’intimo del focolare che irradia luce” (Fenomenologia dell’autodistruttore, trad. it., Borla, Torino 1967, p. 123).
*Si segnala che il film, gradevole nella sua confezione, è un’operazione meramente commerciale, con alcune scene del tutto gratuite nell’economia del racconto, che pagano pegno al politicamente corretto in tema di omosessualità, pur essendo storicamente fondate
Sabato, 2 gennaio 2021