a cura di Stefano Nitoglia, Cristianità n. 404 (2020)
Il recente atto di accusa dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò contro il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), contenuto in una lettera del 3 luglio 2020, nella quale l’ex-nunzio a Washington attacca tutto il concilio, «in quanto tale e in blocco», e le polemiche che ne sono seguite, con l’intervento chiarificatore del card. Walter Brandmüller (1), in una conferenza tenuta nel corso di un seminario di studi, nella quale il novantunenne porporato tedesco dà un’esaustiva lettura storico-teologica del Concilio Ecumenico Vaticano II e dei concili in generale, hanno riportato di attualità il tema del concilio sul quale, negli ultimi tempi, vi era stata una caduta di interesse.
Pertanto, abbiamo posto alcune domande a mons. Agostino Marchetto, arcivescovo titolare di Astigi, già nunzio apostolico e segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, «il miglior ermeneuta del Concilio» (2), come lo ha definito Papa Francesco in una lettera del 7 ottobre 2013, che ci ha cortesemente rilasciato questa intervista, nella quale parla della corretta ermeneutica del Vaticano II, ossia «[…] della riforma e del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa» (3) e non «della rottura e della discontinuità» (4), propria, quest’ultima, di alcune posizioni progressiste, fra le quali cita quella della cosiddetta Scuola di Bologna.
D. Eccellenza, le recenti critiche dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò e il successivo intervento chiarificatore del card. Walter Brandmüller hanno riacceso i riflettori mediatici sul Concilio Ecumenico Vaticano II. Lei, che è stato definito da Papa Francesco «il miglior ermeneuta del Concilio», ci potrebbe dire come mai, a cinquantacinque anni dalla sua conclusione, esso susciti ancora sentimenti così contrastanti?
R. Debbo constatare anzitutto che pure con una bibliografia vertiginosa per numero di testi, sul Vaticano II, anche negli ultimi tempi, non pochi erano coloro che attestavano la caduta di interesse, diciamo così, per tale ultimo Magno Sinodo — come io l’ho sempre chiamato —, nonostante di fatto io negassi la cosa.
Orbene, dall’inizio di questa estate si assiste al dispiegarsi di un interesse che si rivela anche in rapporti contrastanti.
Lei mi domanda il perché e le rispondo facendo una premessa. Ricordo infatti che Yves Congar O.P. (1904-1995) dichiarò, alla fine del Vaticano II — e lo ha ricordato lo stesso Papa Francesco due volte —, che ci sarebbe voluto un secolo per compiere la sua ricezione. Tale punto di vista fu poi confermato da Karl Rahner S.J. (1904-1984), il quale, contemplando la volta del soffitto della sala dove teneva una conferenza, sul quale erano dipinte le fatiche d’Ercole, attestò che «[…] anche quelle per la ricezione del Vaticano II saranno fatiche simili, della stessa difficoltà». Esse erano dunque previste da teologi.
Ebbene perché una tale previsione? Penso che, nonostante la quasi unanimità nelle votazioni finali sui documenti conciliari, il ricordo delle difficoltà di unire i pensieri e le convinzioni di maggioranza e minoranza del Concilio, ottenuta fondamentalmente grazie all’opera straordinaria di mediazione di Papa san Paolo VI (1963-1978), facevano prevedere che entrambi gli schieramenti — anche per l’esistenza in essi di estremisti apparsi con maggior virulenza dopo la chiusura del Concilio — potevano far prevedere l’affiorare di sentimenti e di atteggiamenti così contrastanti, come costatiamo e come lei li chiama.
E così è stato, e in questa situazione ancora ci troviamo, purtroppo. Per capirlo un po’ di più si deve pensare alla natura eminentemente pastorale del Concilio, che nulla toglie alla solennità e grandezza ecumenica del suo Magistero e all’impegno nuovo che esso volle in relazione al mondo contemporaneo che portò la Chiesa a chiedersi Chi essa stessa fosse. Compito arduo, e si potrebbe dire paragonabile alle fatiche d’Ercole. Ma lo Spirito viene sempre al soccorso della sua Chiesa.
D. Vi sono stati altri concili, nella storia della Chiesa, che hanno avuto un esito così travagliato?
R. Chi ha dimestichezza con la storia dei concili ecumenici, espressione massima della «comunione» che è la Chiesa, conosce le difficoltà che vi furono a tale riguardo (della koinonia) durante e dopo la chiusura di grandi sinodi. Vi furono dunque molti post-concili travagliati. Non è possibile qui approfondire, ma basta ricordare quelli di Nicea (325) — un chiarimento venne con il Costantinopolitano, del 381 — e di Calcedonia (451), il quale causò una più lunga contestazione, che i tre Sinodi successivi cercarono di superare, connettendone i testi con quelli di Efeso (431). Ma pensiamo pure a quelli di Costanza (1414-1418), Firenze (1439), Trento (1545-1563), al Vaticano I (1869-1870) e ora al Vaticano II (1962-1965). In ogni caso molti concili che abbiamo nominato hanno avuto un post-concilio più travagliato del nostro. Per rincuorarci, forse, potremmo pensare al primo cosiddetto Concilio di Gerusalemme (49?) e al felice suo esito, che aprì la porta del cristianesimo ai Gentili e a tutti gli uomini di buona volontà chiamati alla fede in Cristo Salvatore del mondo intero. Il travaglio del cammino della Verità e della sua accoglienza è sempre arduo, ma alla fine il Signore Gesù ha vinto il mondo e il suo Spirito ha raccolto in unità i chiamati.
D. Il card. Brandmüller, sulla scia del noto discorso di Papa Benedetto XVI alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, parla di «riforma nella continuità» e di «ermeneutica della continuità». Ci potrebbe spiegare di che cosa si tratta?
R. Con questa domanda lei ci porta al punto fondamentale della discussione o del travaglio post-conciliare, cioè alla interpretazione ermeneutica (spiegazione, si potrebbe dire) del grande avvenimento, e da ciò deriva altresì la lunghezza della mia risposta. Si tratta del secondo dei tre gradini di conoscenza conciliare. Il primo è la sua storia, il secondo è appunto l’ermeneutica e il terzo è la ricezione (realizzazione, accoglienza). Sono tre gradini, nessuno dei quali può essere saltato.
Ebbene, a proposito del primo gradino, quello storico, di storia della Chiesa, peraltro, è rimasto il grave condizionamento iniziale storico-ideologico della visione del Vaticano II come «evento», (si veda la storiografia francese, per la visione di esso, specialmente dopo gli Annales d’histoire économique et sociale, diciamo così), che porta fuori strada l’interpretazione corretta. A questo riguardo — come meglio ho potuto presentare a suo tempo nella prima storia della storiografia del concilio (5) — è risultato che l’opera della Scuola di Bologna è stata in gran parte pubblicata con grandi lacune storiche e ideologiche, sia per quel che riguarda i diari conciliari privati, sia soprattutto perché compiuta senza il sostegno di documenti ufficiali fondamentali per la comprensione del Magno Sinodo, quali gli atti dei suoi organi direttivi e della Segreteria Generale. Oggi poi, possiamo ricorrere a quella fonte straordinaria di conoscenza dell’opera di Paolo VI che è il «Diario Felici» (6) — cioè il diario redatto dal card. Pericle Felici (1911-1982), segretario del concilio —, pubblicazione da me curata.
Aggiungo, e dilato la questione, perché dai miei studi in effetti (7) traggo la convinzione che anche chi richiama, lodandole, altre tendenze ermeneutiche — quella di Peter Huenermann, per esempio, o di John W. O’Malley, di Gilles Routhier, o di Christoph Theobald —, di fatto porta acqua ermeneutica inquinata allo stesso mulino bolognese. Anzi, si è passati alla fattuale rivendicata ricezione del Magno Sinodo saltando il gradino intermedio della ponderazione ermeneutica, forse pensando, erroneamente, che «cosa fatta capo ha».
In effetti, la «crisi» attuale di cui soffre la Chiesa Cattolica penso sia causata appunto dall’abbandono della questione della sua corretta ermeneutica, quella di tutti i Papi conciliari e postconciliari, annunziata con precisione finale da Papa Benedetto XVI, e cioè non quella «della rottura e della discontinuità, ma quella della riforma e del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa».
A tale proposito oggi piuttosto si tace sulla necessità della non rottura, accettata invece dalle posizioni estreme radicalizzatesi dopo il Vaticano II, con il conseguente indebolimento della interpretazione intermedia — quella per intenderci dell’et…et… —, della ermeneutica, quella cioè dei cosiddetti «tradizionali», una ben altra categoria rispetto a coloro che son chiamati «tradizionalisti»; e ha poco rilievo, inoltre, la «continuità dell’unico soggetto Chiesa». Non è questione di lana caprina ma di essere e rimanere cattolici. Nella Chiesa vi è certo la possibilità di uno sviluppo finanche del dogma ma esso deve essere organico ed omogeneo, cioè senza rottura.
D. Nella sua interpretazione si può parlare — come alcune frange sostenitrici della discontinuità, soprattutto quelle della cosiddetta Scuola di Bologna — di un «concilio-evento», o bisogna riferirsi soltanto ai suoi documenti?
R. Per il concilio — lei mi chiede — si può parlare di un suo «spirito»? Quello che io ho sempre sostenuto, e i miei libri lo testimoniano, è la necessità che esso sia lo spirito tratto dai documenti conciliari finalmente approvati e debitamente confermati dal Presidente del concilio stesso, il Papa Paolo VI. Quello che ho sempre disapprovato è il sostenere l’evento — e ho già detto qual è il rischio che questa parola storicamente ha — svalutando il testo conciliare, frutto di un dialogo, nonostante tutto, fra la maggioranza conciliare e la minoranza.
D. Nella sua recente Circolare ad amici e conoscenti, pubblicata il 27 luglio scorso sul blog di Sandro Magister Settimo cielo, a proposito del poco rilievo che si dà attualmente alla «continuità dell’unico soggetto-Chiesa», Lei afferma che «ciò è dovuto specialmente per l’introduzione di “nuovi parametri” o di “nuova pragmatica ecclesiale” che di tale continuità non si preoccupa troppo, grazie altresì alla valutazione esorbitante dei “segni dei tempi”»(8). Che cosa significa?
R. In precedenza ho affermato che oggi, alla «continuità dell’unico soggetto-Chiesa» della corretta formulazione benedettina dell’ermeneutica conciliare, si dà poco rilievo e attenzione. Ciò è dovuto specialmente all’introduzione di «nuovi parametri» o di una «nuova pragmatica ecclesiale» che proprio di tale necessaria e corretta continuità non si preoccupa troppo, grazie altresì alla valutazione esorbitante dei «segni dei tempi»; questo meriterebbe un lungo discorso, e un richiamo per esempio alla posizione di mons. Karol Wojtyła, il futuro san Giovanni Paolo II (1978-2005), in seno alla Commissione sinodale Gaudium et spes — chiamiamola così. Essi, infatti, non possono essere considerati quasi fossero una nuova, aggiuntiva Rivelazione. E la grande questione della loro interpretazione — discernimento —, alla fin fine, potremmo dire, introduce al rapporto critico della Chiesa con la modernità, meglio, con il mondo contemporaneo, con l’oggi. Io credo, cioè, che si dovrebbe esaminare se quel «nuovo», proposto, vada nella linea della «riforma e del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa» e non sia invece una «rottura nella discontinuità».
D. Papa Benedetto XVI e altri autorevoli ecclesiastici, fra i quali il card. Brandmüller, sostengono che il Concilio Vaticano II vada letto alla luce della Tradizione e del successivo magistero post-conciliare. Potrebbe dirci qualcosa in merito?
R. Pilastri della Parola di Dio per il discernimento in questione sono per noi la Sacra Scrittura e la Sacra Tradizione e quindi anche il Concilio Vaticano II, come tutti i sinodi, va letto alla luce della Tradizione e del successivo Magistero pontificio post-conciliare e del collegio dei vescovi uniti al Papa in comunione gerarchica.
Una volta detto ciò, oso citare un esempio concreto di realizzazione di quanto così attestato, citando, mi si perdoni, un mio lavoro sulla tanto contestata, da alcuni, dichiarazione conciliare Dignitatis humanae. Il titolo è già significativo, pur con punto interrogativo finale che stuzzica l’appetito del lettore, così spero, ed è questo: La dichiarazione Dignitatis humanae, rottura o riforma e rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa? (9). Le scansioni dello studio portano i seguenti titoli: Introduzione. La corretta ermeneutica conciliare: il Concilio come evento o avvenimento?; Evoluzione omogenea della dottrina pontificia; Nuovo status quaestionis; Elementi essenziali del diritto alla libertà religiosa; Rapporto tra libertà religiosa e poteri pubblici; Educazione all’esercizio alla libertà religiosa; Alla luce della Rivelazione; Cenni alle sequele della «Dignitatis Humanae».
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La lettura di mons. Marchetto, fondata su salde basi storiche e teologiche, si pone nel solco del magistero del Papa emerito Benedetto XVI e di altri illustri teologi, fra i quali il card. Brandmüller, e può rispondere ai numerosi problemi e interrogativi suscitati dall’ultimo concilio ecumenico.
Stefano Nitoglia
Note:
1) Cfr. il mio Sull’interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II. Una conferenza del card. Walter Brandmüller, alle pp. 5-10 di questo numero.
2) Francesco, Mons. Agostino Marchetto, «il migliore ermeneuta del Concilio Vaticano II», in Cristianità, anno XLII, n. 371, gennaio-marzo 2014, p. 67.
3) Benedetto XVI (2005-2013), Discorso ai Cardinali, agli Arcivescovi, ai Vescovi e ai Prelati della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi, del 22-12-2005.
4)Ibidem
5) Cfr. Agostino Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2005.
6) Cfr. Vincenzo Carbone (1920-2014), Il diario conciliare di Monsignor Pericle Felici, a cura di A. Marchetto, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015.
7) Cfr. anche A. Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Per la sua corretta ermeneutica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2012.
8) Cfr. La «circolare» dell’arcivescovo Agostino Marchetto, 27-7-2020, in S. Magister, Sempre più accesa la disputa sul Vaticano II. Le lettere di un teologo e di un arcivescovo,nel sito web <http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/07/27/sempre-piu-accesa-la-disputa-sul-vaticano-ii-due-lettere-di-un-teologo-e-di-un-arcivescovo>, consultato il 23-9-2020.
9) Cfr. A. Marchetto, La dichiarazione Dignitatis Humanae, rottura o riforma e rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa?, in Annuarium Historiae Conciliorum, vol. 48, n. 2, 2018, pp. 377-395.