di Marco Invernizzi
Si comincia a parlare di Europa in vista delle prossime elezioni europee di fine maggio. Per esempio, su la Repubblica del 3 dicembre, Andrea Bonanni comincia a descrivere i termini del confronto politico e le caratteristiche degli schieramenti partitici che si presenteranno al voto.
Il confronto che si profila è gravido di tanti possibili fraintendimenti ed è quindi opportuno precisare anche per prevenire una confusione che in parte sarà inevitabile.
Da un lato vi sono “europeisti” a diverso titolo (da quasi tutte le Sinistre a una Destra moderata rappresentata da Forza Italia) e dall’altro i cosiddetti “sovranisti” e “nazionalisti”, rappresentati in Italia dalla Lega, ma presenti in tutti i Paesi europei. Anzi, in Italia, in Ungheria e in Polonia queste forze sono attualmente al potere. È evidente come questa contrapposizione semplicistica generi confusione, soprattutto nel mondo cattolico, e come non sia sufficiente rispondere che una cosa è essere contrari a “questa” Unione Europea (UE) e un’altra essere contrari all’Europa. Siccome Alleanza Cattolica non si presenta alle elezioni, ma desidera che gli italiani che andranno a votare lo facciano in modo consapevole della posta in gioco, è importante impostare il problema chiarendo anzitutto cosa significa “Europa”, un tema al quale il Magistero pontificio ha sempre dedicato attenzione a cominciare dal grande (in tutti i sensi) insegnamento di san Giovanni Paolo II (1920-2005), ma proseguendo fino a oggi con Papa Francesco, di cui è meritevole di attenzione almeno il discorso rivolto il 28 ottobre 2017 ai partecipanti alla Conferenza “(Re)thinking Europe”.
Occorre però una premessa generale. I nazionalismi, sia quello democratico dell’Ottocento, sia quello imperialista del Novecento, hanno distrutto l’Europa attraverso rivoluzioni come il Risorgimento italiano e le due guerre mondiali. Tuttavia l’Europa di ieri, quella appunto degli imperi che i nazionalismi hanno distrutto, non annullava le differenze nazionali, ma cercava di valorizzarle e di armonizzarle. Invece l’Europa della UE appare senz’anima, come si comprese quando venne esplicitamente espunto ogni riferimento alle radici cristiane dal Preambolo del progetto di Costituzione che non vide poi la luce, dunque appare come un’Europa arrogante e impositiva, estranea agli interessi dei popoli che ne fanno parte. Nonostante il motto “Unità nella diversità”, la UE viene infatti percepita esclusivamente come un fatto economico che per di più non è neppure favorevole ai popoli che quindi premiano elettoralmente i partiti cosiddetti euroscettici. Ecco perché, secondo Bonanni, nessuno, nemmeno le Sinistre, vuole apparire come sostenitore a oltranza della UE: il farlo costerebbe troppi voti.
Alcune parole del Papa dal citato discorso del 2017, di per sé molto semplici, aiutano a “entrare” nel tema europeo, consentendo domani di votare con consapevolezza maggiore, ma fin da subito di capire quali siano veramente le radici dell’Europa a cui tutti siamo chiamati a partecipare. «Il primo, e forse più grande, contributo che i cristiani possono portare all’Europa di oggi», scrive Francesco, «è ricordarle che essa non è una raccolta di numeri o di istituzioni, ma è fatta di persone». Che essa fonda, cioè, la propria identità sulla centralità della persona, un portato essenziale del cristianesimo, sconosciuto alla stessa cultura greca di cui l’Europa è peraltro in parte debitrice, come spiega per esempio lo storico della filosofia Giovanni Reale (1931-2014) in Radici culturali e spirituali dell’Europa. Per una rinascita dell’“uomo europeo” (Cortina, Milano 2003).
«Il secondo contributo che i cristiani possono apportare al futuro dell’Europa è la riscoperta del senso di appartenenza ad una comunità», aggiunge il Santo Padre, ricordando poi che «la famiglia, come prima comunità, rimane il più fondamentale luogo di tale scoperta». Famiglia che «[…] è l’unione armonica delle differenze tra l’uomo e la donna, che è tanto più vera e profonda quanto più è generativa, capace di aprirsi alla vita e agli altri».
Invece, ricorda il Pontefice, «purtroppo» nei decenni scorsi si è diffuso «un certo pregiudizio laicista, ancora in auge, (che) non è in grado di percepire il valore positivo per la società del ruolo pubblico e oggettivo della religione, preferendo relegarla ad una sfera meramente privata e sentimentale. Si instaura così pure il predominio di un certo pensiero unico, assai diffuso nei consessi internazionali, che vede nell’affermazione di un’identità religiosa un pericolo per sé e per la propria egemonia, finendo così per favorire un’artefatta contrapposizione fra il diritto alla libertà religiosa e altri diritti fondamentali».
Che fare allora? Il problema non è risolvibile nel breve periodo e tuttavia anche un turno elettorale può essere un’occasione per riflettere e iniziare a guardare “oltre”. I cristiani devono occuparsi di politica, ricorda il Papa anche nella circostanza evocata, cercando il dialogo invece dello scontro, puntando al bene comune invece che all’occupazione del potere, ma «ciò richiede anche un’adeguata formazione, perché la politica non è “l’arte dell’improvvisazione”, bensì un’espressione alta di abnegazione e dedizione personale a vantaggio della comunità. Essere leader esige studio, preparazione ed esperienza».
Sembrano parole che provengono da un altro pianeta, soprattutto per il nostro mondo abituato a divisioni e a polemiche, anche all’interno delle assemblee ecclesiali, non adeguatamente fondate sui princìpi fondamentali della dottrina sociale della Chiesa, che è pochissimo conosciuta e spesso avversata anche da cattolici importanti.
Eppure il Papa, spesso impropriamente usato per giustificare chissà quali rivoluzioni, invita a studiare e a cercare nella tradizione le radici delle nostre proposte politiche: «A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso è in atto un conflitto generazionale senza precedenti. Nel consegnare alle nuove generazioni gli ideali che hanno fatto grande l’Europa, si può dire iperbolicamente che alla tradizione si è preferito il tradimento. Al rigetto di ciò che giungeva dai padri, è seguito così il tempo di una drammatica sterilità. Non solo perché in Europa si fanno pochi figli ‒ il nostro inverno demografico ‒, e troppi sono quelli che sono stati privati del diritto di nascere, ma anche perché ci si è scoperti incapaci di consegnare ai giovani gli strumenti materiali e culturali per affrontare il futuro. L’Europa vive una sorta di deficit di memoria. Tornare ad essere comunità solidale significa riscoprire il valore del proprio passato, per arricchire il proprio presente e consegnare ai posteri un futuro di speranza».
Certo, poi verranno temi delicati e anche divisivi, come l’immigrazione, i ponti e i muri, ma prima non sarebbe male se si cercasse nel patrimonio dottrinale della Chiesa la proposta, anche politica, da fare all’uomo di oggi, smarrito e disperato, «per una rinascita dell’”uomo europeo”», come appunto dice il libro di Reale.
Martedì, 4 dicembre 2018