È finito il postconcilio ?
Il Concilio «integrale»
Considerazioni sui rapporti tra la Tradizione, il costante Magistero della Chiesa e la realizzazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, alla luce del discorso tenuto il 6 novembre 1979 da S. S. Giovanni Paolo II alla riunione plenaria straordinaria del Sacro Collegio.
Nel settembre dello scorso 1978 meditavo «in pubblico» sulla elevazione al trono di Pietro di Giovanni Paolo I. Da allora non mi è parso di dovere aggiungere nulla a quel Continuerà l’«autodemolizione»? (1); neppure dopo la morte repentina e imprevedibile dell’immediato successore di Paolo VI e la elezione al trono di Pietro di Giovanni Paolo II, e nonostante la straordinarietà del tempo – un anno con tre Papi – e dell’uomo – un Pontefice non italiano dopo più di quattrocento anni e, in aggiunta, proveniente da oltre la cortina di ferro.
Oggi mi pare non solo doveroso, ma indispensabile, rompere quel silenzio, per aggiornare quel quesito angosciante, ed eventualmente precisarlo; oggi: a poco più di un anno dalla intronizzazione di Giovanni Paolo II, e in seguito al discorso tenuto dal Pontefice in occasione della recente, straordinaria convocazione plenaria del Sacro Collegio (2).
Quali sono le ragioni che mi spingono a fare stato da questo discorso, e a considerarlo terminus ad quem di un tempo esaurito, e possibile oltreché auspicabile terminus a quo di un tempo nuovo?
Il concilio nella vita della Chiesa
Tra gli avvenimenti esterni della vita della Chiesa – Corpo Mistico di nostro Signore Gesù Cristo, seconda persona della santissima Trinità in cui sussiste l’unico Dio, creatore e signore del cielo e della terra – spicca certo, e con un rilievo tutto particolare, il concilio ecumenico. Tale rilevanza l’assise di tutti i vescovi del mondo la divide, per esempio e grosso modo, con il conclave, il momento e l’assise in cui il Sacro Collegio sceglie il successore di Pietro sulla cattedra romana, alla quale è legato per l’eternità il primato del Sommo Pontefice.
La ragione profonda della convocazione del concilio è da cercare, ordinariamente, nella necessità storica di legiferare su nascenti errori e, più in generale, nella opportunità di deliberare e di decretare in materia ecclesiastica da parte dei vescovi, i cui atti ricevono valore pieno e universale forza di obbligatorietà dalla conferma antecedente, concomitante o susseguente da parte del Romano Pontefice.
Il concilio ecumenico è, dunque, avvenimento assolutamente degno, per la sua intrinseca natura e importanza, di riempire di sé la cronaca, e quindi la storia, del tempo in cui si svolge e degli anni immediatamente seguenti. Ma il concilio è anche, nello stesso tempo, espressione ordinaria della vita ecclesiastica – non reso necessario, come il conclave, dalla scomparsa del Pontefice, umanamente prevedibile ma cronologicamente imprevista – ed espressione straordinaria della storia della Chiesa – in quanto non particolarmente frequente, almeno nella sua versione ecumenica, che è quella di cui sto parlando.
La sua straordinarietà fa sì che il concilio ecumenico segni legittimamente, con la forza della sua presenza, i tempi in cui si svolge, così che quanti dell’evento sono contemporanei e quindi testimoni sono tentati e quasi spinti a periodizzare la storia che vivono in un tempo preconciliare, conciliare e postconciliare. Ma la particolare valutazione dell’avvenimento si lega, spesso e piuttosto, se non esclusivamente, alla materia dal concilio trattata e alla verità in esso difesa e opportunamente definita.
Così, la periodizzazione tanto cara ai contemporanei del concilio – che solletica anche l’orgoglio di vivere quando e «dove batte la storia» – è provvidenzialmente destinata a sfumare e l’avvenimento umanamente straordinario passa a poco a poco ad assumere i suoi caratteri di ordinaria espressione della vita della «comunità di tutti i fedeli, uniti dalla professione della medesima fede, dalla partecipazione ai medesimi Sacramenti, sotto l’autorità dei legittimi pastori, specialmente del Sommo Pontefice, vicario di Gesù Cristo in terra» (3).
Così, dunque, in quanto avvenimento ordinario, il concilio viene assorbito, per così dire, nella vita della Chiesa, non certo senza lasciare traccia, ma certamente non senza che questo assorbimento quasi «fisiologico» – in conformità con il carattere organico del corpo ecclesiale – generi almeno qualche difficoltà. E, oltre il fatto storico ed emotivamente impressionante, del concilio rimane l’insegnamento, con le note cogenti che sono a esso proprie, quale elemento esplicitato del depositum fidei veicolato dalla Tradizione e dal costante Magistero dei Pontefici.
Mi è parso indispensabile premettere queste brevi nozioni e osservazioni a poche ed elementari considerazioni che verrò facendo sul Concilio Ecumenico Vaticano II dopo il discorso che il Santo Padre Giovanni Paolo II ha tenuto ai cardinali aprendo la riunione plenaria del Sacro Collegio il 6 novembre scorso.
Il Concilio Vaticano II e il postconcilio
Dunque, la nostra generazione è stata contemporanea di un concilio, il Vaticano II, e lo ha vissuto in piena e assoluta conformità con le notazioni più ovvie, che sulla materia ho immediatamente sopra esposto. Ha, quindi, periodizzato il «suo» tempo in preconciliare, conciliare e postconciliare e ha sentito con particolare intensità il carattere straordinario dell’avvenimento, in un modo che si potrà forse giudicare perfino eccessivo. Ma tale «compassione» conciliare è certamente sintomo inequivocabile della profonda e diffusa necessità di un grandioso «buono» da parte di un secolo, «il nostro secolo», che «è stato finora un secolo di grande calamità per l’uomo, di grandi devastazioni non soltanto materiali, ma anche morali, anzi forse soprattutto morali» (4). Non ha, forse, il nostro secolo vissuto e sperimentato in corpore vili quelle espressioni di grandioso «malvagio» costituite dai due conflitti mondiali, che inoltre, a causa della falsa pace, della pace «come la dà il mondo» (5) che hanno avuto come esito, lasciano intravedere davanti a noi, e forse a breve termine, una possibile terza e ancora più tragicamente grandiosa conflagrazione, di cui un qualsiasi accadimento di oggi può essere il detonatore?
Su questa fondata e spontanea valutazione e più che comprensibile sopravvalutazione dell’importante evento della vita ecclesiastica costituito dal Concilio Ecumenico Vaticano II si sono, però, innestate, per dire il meno, tendenze devianti e fuorvianti, tese a realizzare, attraverso gli stessi uomini di Chiesa, una sorta di damnatio memoriae del passato della Chiesa medesima, in nome del suo presente «conciliare» e, ancora più facilmente, del suo futuro «postconciliare» (6). E l’attacco al passato e alle sue «rughe» ha coperto, spesso se non sempre, e talora maldestramente. l’attacco alla Tradizione in tutte le sue espressioni, nonché alle tesi costantemente sostenute dal Magistero dei Romani Pontefici.
Dallo scatenamento di questa autentica libido reformandi e dalle sue tragiche conseguenze, niente è stato risparmiato: dogmatica e morale individuale, liturgia e morale sociale ne sono state toccate, spesso in radice, e la prova del vero è stata non raramente ricercata nel nuovo, e quella del nuovo nel contrario del recepito, del tradizionale, inducendo talora, per diametrum, alla fondazione dell’argomento di verità nel vecchio in quanto vecchio.
Tutto questo, principalmente, «dopo il Concilio», dopo il quale «si credeva che […] sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza», così che si ha la sensazione che «da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio», e proprio «per finestre che invece dovevano essere aperte alla luce» (7).
La «questione conciliare»
Sulla scia del Concilio e del postconcilio è nata e si è sviluppata, inoltre, una querelle, che è ben lontana dal sopirsi e che ha visto teorizzata persino – o almeno apoditticamente affermata – la esistenza di una ipotetica «Chiesa conciliare», dialetticamente opposta a quella «preconciliare»… senza tenere in nessun conto il fatto – ovvio, ma non per questo meno vero – che anche tale «Chiesa preconciliare» era stata, a sua volta, «postconciliare», se, non altro negli anni immediatamente seguenti, per esempio, l’assise ecumenica di Trento o il Concilio Vaticano I!
Nel corso di tale querelle, poi, i termini del contendere si sono venuti facendo sempre più confusi e i toni sempre più roventi, così che è certamente mancata, nella maggior parte dei casi, una adeguata meditazione sulla Chiesa simpliciter, sui suoi ritmi vitali e sui momenti ordinari e straordinari del suo storico procedere. E alla infestazione conciliare e postconciliare di sadducei ha fatto pendant, per qualche piccolo gruppo di fedeli, la tentazione, non sempre correttamente identificata e, quindi, non sempre respinta con la dovuta energia, di cedere al fariseismo o, addirittura, di promuovere un neo-fariseismo. Di conseguenza, raramente, se non mai, sono stati toccati e messi in adeguata luce i problemi veri, le questioni reali, e si è spesso scambiata la polemica mutilazione del quadro con una auspicata – e per altro auspicabile – semplificazione del contrasto.
Dunque, il Concilio Ecumenico Vaticano II ha lasciato dietro a sé un postconcilio particolarmente burrascoso, addirittura la Chiesa immersa in un processo che si direbbe di «autodemolizione», dal momento che è «colpita da chi ne fa parte» (8). E questo processo si potrebbe interpretare, in superficie, come la lotta prevedibile, lo scontro inevitabile – anche se, francamente, eccessivo – tra la storica e persistente straordinarietà dell’evento e il suo ordinario riassorbimento nella vita della Chiesa, se però, in sostanza, il momento di rinnovamento, di riforma della vita ecclesiale e della pratica pastorale, non continuasse a essere, o almeno a essere inteso, come «rottura con la tradizione, anche dottrinale, giungendo al ripudio della Chiesa preconciliare, e alla licenza di concepire una Chiesa “nuova”, quasi “reinventata” dall’interno, nella costituzione, nel dogma, nel costume, nel diritto» (9); se, ancora, non continuasse a essere presentato e compreso come dialettica contrapposizione, spesso polemica anche dal punto di vista formale, nei confronti del «passato» ecclesiale, il termine che copre il vero bersaglio, cioè la Tradizione.
Questa descrizione del postconcilio non può, però, fare a meno di toccare e di mettere in questione il Concilio stesso, sia per la logica, non sempre erronea, del post hoc, ergo propter hoc, sia perché le conseguenze indiscutibilmente catastrofiche hanno contribuito a organizzare in una sorta di sistema le perplessità sulla opportunità di convocazione del Concilio, poste le condizioni dottrinali del mondo ecclesiastico (10), nonché le insoddisfazioni per qualche testo conciliare, senza escludere le fondate perplessità su qualche passo di documento. Su questa strada particolarmente accidentata si erge una pietra d’inciampo che ha le dimensioni di un monumento, e su tale pietra d’inciampo sta scritto: «Factum est illud; fieri infectum non potest» (11). Dunque, il fatto è quello e non si può fare che non sia fatto, dal momento che neppure Dio può fare sì che ciò che è stato fatto non sia stato fatto. Ergo, non rimane che prendere atto del fatto storico Vaticano II, distinguendolo accuratamente dai suoi insegnamenti e soprattutto dalle chiose contemporanee dei periti conciliari e da quelle seguenti dei «teologi» postconciliari.
Circa il fatto storico, poi, credo sia più che lecito esprimere un giudizio umano e storico, e quello che io condivido è innegabilmente negativo (12), anche se, come è ovvio, non si può non riconoscerne la esistenza e le corposità. E tale giudizio non è, però, disarticolato, dal momento che la critica sa distinguere ciò che il Concilio ha omesso (la rinnovazione della condanna del comunismo), ciò che è tipica espressione del postconcilio (la riforma liturgica), e la dottrina dei documenti del Concilio stesso, con le loro ambiguità (il contrasto almeno materiale tra la Dignitatis humanae e il Magistero tradizionale») (13). Inoltre, non si può non notare che, anche quanti dell’evento conciliare si sono serviti come strumento per opporsi dialetticamente alla Tradizione – riuscendo talora a intossicarne anche i dettati o almeno a diffondere il sospetto sulla loro intossicazione -, costoro sono, al momento presente, nella condizione di doverlo abbandonare, o di apprestarsi a farlo, in quanto i termini in cui si è espresso sembrano subire un certo provvidenziale processo di ricodificazione e di risemantizzazione, e quindi sono sempre più insufficienti a coprire la tendenza a vanificare non soltanto il passato della Chiesa, ma anche il suo presente, cioè la Chiesa stessa.
È quindi giunto il momento perché l’avvenimento straordinario ritorni, per così dire, nei ranghi e si ripresenti per quello che è, cioè un evento ordinario, anche se di oggettiva rilevanza, della storia della Chiesa e non un episodio sregolato – pure se, eventualmente, non privo di genialità – nella vita della Chiesa?
La realizzazione del Vaticano II sulla «retta via»?
Fatto salvo il giudizio storico, il quesito, la cui importanza non è necessario sottolineare, sembra avere avuto risposta positiva da parte del regnante Pontefice nel discorso cui facevo riferimento. In esso, infatti, Giovanni Paolo II, dopo avere ad abundantiam ricordato il carattere pastorale del Concilio Ecumenico Vaticano II – in quanto, «basandosi sul Vangelo e sulla Tradizione, ha composto solamente una certa armatura o struttura di tutta la “praxis” cristiana contemporanea, della prassi del Popolo di Dio» -, ribadisce «essere il principale compito del pontificato» «una coerente realizzazione dell’insegnamento e delle direttive del Concilio Vaticano II» e conferma che «l’obbedienza allo Spirito Santo si esprime nell’autentica realizzazione dei compiti indicati dal Concilio, in pieno accordo con l’insegnamento in esso proposto».
Come si può facilmente notare, i termini sono quelli consueti e caratteristici di quanti, a fronte delle conseguenze indiscutibilmente catastrofiche di ciò che è accaduto in questi anni postconciliari sotto il segno di un richiamo al Concilio, rimandano a una lettura «autentica» del Concilio stesso e argomentano sulla base della eterogenesi dei fini, ossia indicando come contrastanti con i fini voluti le conseguenze storicamente datesi.
Ma il discorso pontificio, fortunatamente, non si arresta a questo punto e, dopo avere eretto il Concilio a giudice del postconcilio, sentenzia: «Non si possono indicare i compiti [proposti dal Concilio] come se non esistessero. Non si può pretendere di far retrocedere, per così dire, la Chiesa lungo il corso della storia dell’umanità. Ma non si può neanche correre presuntuosamente in avanti, verso forme di vivere, di intendere e di predicare la verità cristiana e infine verso modi di essere cristiano, sacerdote, religioso e religiosa, che non hanno copertura nell’insegnamento integrale del Concilio – “integrale”, cioè inteso alla luce di tutta la santa Tradizione e sulla base del costante Magistero della Chiesa stessa» (14).
I termini, questa volta, sono inconsueti, e per il contenuto e per la chiarezza definitoria e sembrano sancire, almeno di principio, la fine del postconcilio, in quanto precisano e sistemano in modo non fumoso la posizione del Concilio stesso; meglio, danno una collocazione inequivoca «dell’insegnamento e delle direttive del Concilio», che non solo devono giudicare «il carattere autentico di tutte le iniziative in cui si articolerà [la sua] […] realizzazione», ma non sono misura della Tradizione e del Magistero della Chiesa: piuttosto vanno intesi «alla luce di tutta la santa Tradizione e sulla base del costante Magistero della Chiesa stessa».
Dunque, se capisco bene – cosa che, nel caso concreto, mi auguro sinceramente – il Concilio Ecumenico Vaticano II ritorna a essere – o meglio, diventa – quello che per sua natura è sempre stato ed è, cioè «un concilio fra i concili» e un concilio, entro certi limiti, sui generis, considerato il suo carattere volutamente pastorale. E questa opera di ridimensionamento il Santo Padre chiama «entrare sulla retta via della realizzazione del Vaticano II», lasciando verosimilmente intendere, senza voler forzare il testo, che tale entrata fino a oggi non si è verificata e che la via percorsa non era la «retta via» (15).
Ma – insiste ancora chi, come me, parafrasando sant’Agostino, non cessa di ripetere con cadenza litanica «Timeo fidelem unius synodus» -, e se il postconcilio fosse il frutto «legittimo» del Concilio?
Se non ho male inteso – e di nuovo, nel caso concreto, me lo auguro sinceramente – rispondo: se i documenti del Concilio cessano di essere la clavis universalis del passato, del presente e del futuro, essi si dispongono accanto ad altri come espressione più o meno felice del Magistero universale ordinario, non raramente bisognoso di precisazioni, talora di interpretatio autentica, e spesso di aggiustamenti da parte della competente autorità, eventualmente a ciò sollecitata o spinta da poveri fedeli disorientati (16).
Mi schiero di buon grado tra questi fedeli disorientati: spero di avere bene inteso le parole del Santo Padre, il cui munus consiste anche nel confermare nella fede (17), e attendo i copiosi frutti – non sta forse scritto: «li riconoscerete dai loro frutti»? (18) – del lavoro indefesso della Pontificia Commissione per l’Interpretazione del Concilio, prove evidenti e palmari della correttezza della mia comprensione. Frattanto mi preparo a esplodere nell’exultet e a cantare la felix culpa del Concilio Vaticano II, conciliare o postconciliare che sia, pur consapevole che, rebus sic stantibus, l’alternativa all’«autodemolizione» è la persecuzione e la lotta. Nell’attesa, prego e sollecito a pregare – per quanto il mio invito possa valere – pro Pontifice nostro Johanne Paulo: «Dominus conservet eum et vivificet eum et beatum faciat eum in terra et non tradat eum in animam inimicorum eius». Amen.
Giovanni Cantoni
Note:
(1) Cfr. il mio Continuerà l’«autodemolizione»?, in Cristianità, anno VI, n. 40-41, agosto-settembre 1978.
(2) Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Discorso alla riunione plenaria del Sacro Collegio del 6-11-1979, in L’Osservatore Romano, 7-11-1979.
(3) SAN ROBERTO BELLARMINO, De Ecclesia militanti, 2. cit. in MARIANO CORDOVANI O. P., voce Chiesa, in Enciclopedia Cattolica, vol. III, p. 1443.
(4) GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Redemptor hominis, del 4-3-1979, n. 17.
(5) Gv. 14, 27.
(6) Sul cosiddetto «Concilio segreto» cfr. RALPH M. WILTGEN S.V.D., The Rhine flows into the Tiber. A History of Vatican II, 1ª ed. inglese, Augustine Publishing Co., Devon 1978.
(7) PAOLO VI, Allocuzione nel nono anniversario della incoronazione, del 29-6-1972, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. X, pp. 707-708.
(8) IDEM, Allocuzione agli alunni del Pontificio Seminario Lombardo, del 7-12-1968, ibid., vol. VI, p. 1188.
(9) IDEM, Allocuzione ai Signori Cardinali di Curia, del 23-6-1972, ibid., vol. X, p. 673.
(10) Cfr. GIOVANNI CAPRILE S. J., Pio XI, la Curia Romana e il Concilio, in Il Concilio Vaticano II. Cronache del Concilio Vaticano II edite da «La Civiltà Cattolica» a cura di Giovanni Caprile S. J. Quarto Periodo. 1965, Edizioni «La Civiltà Cattolica», Roma 1969, pp. 681-701.
(11) PLAUTO, Aulularia, a. IV, sc. 10, v. 11.
(12) Cfr. PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3ª ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, pp. 181-183. Il «tipo» di tale giudizio si può trovare in san Gregorio Nazianzeno e in sant’Agostino, cit. in IOACHIM SALAVERRI S. J., De Ecclesia Christi, in Sacrae Theologiae Summa, 5ª ed., BAC, Madrid 1962, p. 681.
(13) Circa i problemi della «Chiesa conciliare» cfr. Cristianità, anno IV, n. 19-20, settembre-dicembre 1976, monografico sul tema.
(14) Tale dottrina ermeneutica il Pontefice aveva già proposta – anche se limitatamente alla Lumen Gentium? – nel suo primo radiomessaggio al mondo Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Radiomessaggio al mondo, del 17-10-1978 in L’Osservatore Romano, 18-10-1978.
(15) Sorprende che la chiara frase: «Ecclesia […] magnopere debet his diebus contendere, ut ingrediatur rectam viam exequendi Concilii Vaticani Secundi», venga tradotta sullo stesso numero de L’Osservatore Romano con «la Chiesa […] deve fare un grande sforzo, in questo periodo, per entrare sulla via diretta della realizzazione del Vaticano II», così che il «retta via» viene svigorito, se non travisato, in un insignificante «via diretta».
Sempre a proposito di traduzioni proposte dal quotidiano vaticano, sorprende anche il modo con cui è reso un tratto dell’indirizzo del Signor cardinale Carlo Confalonieri, decano del Sacro Collegio, al Sommo Pontefice. Infatti. dove il testo latino esprime gratitudine al Santo Padre per il suo «magisterium benedictum […] etiam ob confirmationem cum auctoritate expressam ut multiplicetur opus restaurationis moralis», ossia «affinchè si intensifichi l’opera di restaurazione morale» l’«opus restaurationis moralis» è appiattito in un irriconoscibile «opere di elevazione morale».
(16) Cfr. ARNALDO VIDIGAL XAVIER DA SILVEIRA, Qual è l’autorità dottrinale dei documenti pontifici e conciliari?, in Cristianità, anno III, n 9, gennaio-febbraio 1975.
(17) Cfr. Lc. 22, 32.
(18) Mt. 7, 16.