George Weigel, Cristianità n. 406 (2020)
Da diversi anni, le numerose istituzioni di formazione superiore a Cracovia sponsorizzano le «Giornate di Giovanni Paolo II», tenute ordinariamente nel mese di novembre. Si tratta di una serie di lezioni e di simposi dedicati all’approfondimento di qualche sfaccettatura del pensiero del Pontefice polacco. Per celebrare il centenario della nascita di san Giovanni Paolo II, caduto il 18 maggio scorso, il tema scelto per le Giornate del 2020 è stato I prossimi cento anni. A causa della pandemia, l’evento è stato solo virtuale, con lezioni pre-registrate e dibattiti online. L’intervento di George Weigel, che è stato biografo del Pontefice, è stato proposto il 5 novembre [Il testo è consultabile nella lingua originaria nel sito web <https://www.catholicworldreport.com/2020/11/05/looking-into-the-future-through-his-eyes-john-paul-ii-the-catholic-church-and-the-crisis-of-the-west>, visitato il 21-12-2020. La traduzione del testo e le note sono redazionali].
Grazie per avermi invitato ancora una volta a questo evento annuale. Apprezzo molto il tema che avete scelto per il centenario della nascita di Giovanni Paolo II [1978-2005] e cioè guardare ai cento anni prossimi venturi. Da amico della Polonia mi impensierisce — e da tempo — la tendenza a guardare a Giovanni Paolo II come a qualcosa che appartiene al vostro passato, quando invece bisognerebbe più spesso guardare il futuro attraverso i suoi occhi.
Capisco i sentimenti dei molti polacchi che guardano a Giovanni Paolo II con tanto affetto e persino con nostalgia: il posto che egli occupa nell’immaginario nazionale polacco è comprensibilmente gigantesco. Eppure, credo che egli vorrebbe che noi facessimo proprio ciò che questo convegno si propone, cioè guardare avanti, attraverso il suo sguardo, verso il futuro.
Spero quindi che le conversazioni stimolate dalle «Giornate di Giovanni Paolo II» del 2020 a Cracovia accelerino il passaggio in Polonia da un guardare indietro verso Giovanni Paolo II a un guardare avanti con una visione plasmata sul suo esempio e sul suo insegnamento.
In questa breve nota intendo guardare attraverso lo sguardo di Giovanni Paolo II a due futuri: quello della Chiesa cattolica e quello del progetto occidentale di civilizzazione o, più in dettaglio, il futuro delle democrazie occidentali. Questi due futuri si intersecano, come suggerirò in conclusione. Per il momento, però, permettetemi di trattare ciascun futuro singolarmente.
Cominciamo dal futuro della Chiesa visto attraverso lo sguardo di Giovanni Paolo II. Come egli vorrebbe che pensassimo la Chiesa cattolica dei prossimi cento anni?
Di fatto, ce lo ha detto molto chiaramente. Lo ha fatto nell’enciclica Redemptoris missio del 1990; poi, di nuovo, durante il Grande Giubileo del 2000 e, in particolare, nella lettera apostolica promulgata in occasione della chiusura di quell’Anno Santo, la Novo millennio ineunte.
Nella Redemptoris missio, durante il Grande Giubileo e nella Novo millennio ineunte, Giovanni Paolo II ha riassunto l’insegnamento del suo pontificato e la sua visione del cattolicesimo del futuro rubricandolo sotto la voce «La Chiesa della Nuova Evangelizzazione». Come ho cercato di dimostrare nel mio libro intitolato L’ironia della storia cattolica moderna (1), questa idea centrale nell’insegnamento di Giovanni Paolo II è il culmine di un processo di sviluppo complesso e spesso conflittuale iniziato con Papa Leone XIII [1878-1903], che nel 1878 prese una decisione coraggiosa e strategica: la Chiesa cattolica non avrebbe più dovuto solo resistere al mondo moderno, ma avrebbe dovuto affrontarlo allo scopo di convertirlo.
Le energie scaturite da quella decisione leonina hanno increspato la superficie della Chiesa mondiale per ottant’anni. Per radunare e concentrare quelle energie Giovanni XXIII [1958-1963] convocò il Concilio Ecumenico Vaticano II [1962-1965]. Giovanni XXIII sperava che, con il Vaticano II, la Chiesa potesse sperimentare una nuova Pentecoste, cioè quel fuoco dello Spirito Santo che permise alla Chiesa delle origini di uscire e di convertire tanta parte del mondo che si affacciava sul Mediterraneo. In qualità di giovane vescovo ausiliare di Cracovia e poi da arcivescovo titolare di quella città, Karol Wojtyła ha vissuto il Concilio Vaticano II come Giovanni XXIII lo concepiva: un evento intorno al quale la Chiesa Cattolica si radunava per trovare un rinnovato impulso missionario ed evangelico mentre si accingeva a entrare nel suo ventunesimo secolo e nel terzo millennio.
Giovanni Paolo II, nel dare al Concilio Vaticano II una interpretazione autorevole — in ciò individuo il maggiore risultato conseguito dal suo magistero — e nell’incanalare quella interpretazione verso la Chiesa della Nuova Evangelizzazione, realizzò in pieno gli auspici espressi da Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio. Allo stesso tempo, Giovanni Paolo II ha dato a tutti i cattolici un ordine di marcia e un mandato per il futuro.
Ma il pontefice polacco come intendeva la Chiesa della Nuova Evangelizzazione?
In primo luogo, è una Chiesa in cui ogni cattolico pensa a sé stesso come a un discepolo missionario. Nel cattolicesimo controriformistico nel quale sono cresciuto il modello del missionario era san Francesco Saverio [S.J.; 1506-1552], cioè qualcuno che è andato in una qualche parte esotica e finanche pericolosa del mondo a portare il Vangelo in un luogo dove non era ancora stato annunciato. La Chiesa ha ancora oggi bisogno di quel tipo di missionario e — molto a suo merito — la Polonia ne fornisce tanti.
Giovanni Paolo II, comunque, ha esortato tutti i cattolici a considerarsi discepoli missionari e a comprendere che, nel giorno del proprio battesimo, ogni cattolico ha ricevuto il «grande mandato» che si legge in Mt 28,19: «Andate e fate discepoli tutti i popoli». Sicché, ogni cattolico — prospettava Giovanni Paolo II — dovrebbe misurare la qualità del suo essere discepolo in base alla propria efficacia come missionario: come uno che offre ad altri il dono della fede e dell’amicizia con il Figlio di Dio, dato ai cattolici.
In secondo luogo, la Chiesa della Nuova Evangelizzazione considera ogni luogo come una «terra di missione». Non bisogna più pensare che si tratti necessariamente di un luogo esotico e remoto: la terra di missione è tutta intorno a noi, in Occidente non meno che altrove. Non è esagerato dire che il Belgio oggi è terra di missione, come lo è la Svizzera e come lo è — di sicuro — la Germania. Gli Stati Uniti d’America, oggi, sono terra di missione. Ed è di fondamentale importanza che il mondo cattolico polacco comprenda che lo è anche la Polonia.
Nella visione giovanpaolina della Chiesa della Nuova Evangelizzazione, «terra di missione» è la casa di ogni cattolico e il suo quartiere; lo è il suo luogo di lavoro; lo è ciò che riguarda la sua vita di consumatore e quella di cittadino: tutto è terra di missione.
Questa visione profonda e impegnativa di un futuro in cui ogni cattolico è un missionario e ogni luogo è terra di missione ha bisogno di tempo perché i cattolici la afferrino, specialmente in società e culture che sono state confortevolmente cattoliche per secoli. Eppure, i cattolici dovrebbero comprendere che stiamo vivendo in tempi apostolici, non in tempi di cristianità. La cristianità in Occidente è finita. Fra vent’anni non sarà più possibile per nessuno negli Stati Uniti rispondere alla domanda «perché sei cattolico?» dicendo «sono cattolico perché la mia bisnonna veniva dall’Irlanda (o dal Messico, o dal Belgio, o dalla Baviera, o dall’Italia, o dalla Lituania, o dall’Ucraina, o dalla Polonia)». Questa risposta non basterà, perché il cattolicesimo come retaggio etnico non può più prosperare negli Stati Uniti. Semplicemente, sarà il clima culturale a non consentirlo.
E questa non è una situazione peculiare degli Stati Uniti.
Come sa ogni genitore e ogni nonno, il clima culturale nel quale oggi siamo immersi in Occidente non aiuta a trasmettere la fede cattolica; anzi, quel clima è spesso positivamente ostile alla fede. Ecco perché la fiducia che l’identità etnica o nazionale polacca sarà sufficiente a trasmettere la fede cattolica generazione dopo generazione è malriposta. Di fatto, dubito che la trasmissione del cattolicesimo per retaggio etnico o nazionale stia funzionando granché bene fra i giovani polacchi già oggi. Dove il cattolicesimo è vivo e vitale fra i giovani adulti in Polonia è perché la fede è stata proposta, celebrata e vissuta; ciò accade — l’ho potuto verificare nel corso di decenni — per l’apostolato universitario condotto presso la basilica domenicana della Santissima Trinità a Cracovia o in altri campus dove pure l’apostolato è affidato a domenicani.
Ogni cattolico in Occidente deve rendersi conto che, nel suo mondo, l’era della trasmissione della fede cattolica per retaggio etnico o nazionale — l’era del cattolicesimo trasmesso grazie a una sorta di eredità genetica o per osmosi — è finita: anche in Polonia. Giovanni Paolo II l’aveva certamente compreso ed è per questo che ha lanciato alla Chiesa un appello, perché recuperasse la sua identità primaria, cioè quella di un’impresa volta innanzitutto alla missione. Per diventare la Chiesa della Nuova Evangelizzazione, il cattolicesimo deve rinnovare e riformare sé stesso. Permettetemi di indicare brevemente due linee di riforma in tal senso che — credo — vadano perseguite con particolare urgenza qui in Polonia.
Essere la Chiesa della Nuova Evangelizzazione richiede una profonda riforma dei seminari polacchi e della formazione teologica ivi proposta. I sacerdoti del futuro in Polonia dovranno tutti essere missionari, che si tratti di sacerdoti che vivono e operano in comunità religiose oppure di sacerdoti del clero diocesano che svolgono la propria attività incardinati in parrocchie. Chiunque ritenga di avere una vocazione sacerdotale da svolgere nel cattolicesimo polacco del secolo XXI sappia che, per forza di cose, vivrà una vocazione missionaria. Ciò significa che la formazione sacerdotale nei seminari diocesani e nelle case religiose deve preparare alla missione. La visione del sacerdozio come carriera privilegiata volta soprattutto alla somministrazione dei sacramenti non può più essere, in Occidente, quella prevalente; non può essere il modello trainante del sacerdozio del futuro negli Stati Uniti e non penso che possa dar forma al sacerdozio polacco. I sacerdoti del secolo XXI che identificano il loro compito primario nell’assicurare lo svolgimento delle attività istituzionali della Chiesa — sacerdoti che non si considerano apostoli missionari — alla fine si troveranno a fare i custodi di musei.
Questa Chiesa della Nuova Evangelizzazione in Polonia deve inoltre essere una chiesa pubblica, ma non una chiesa di parte. Deve proporre un cattolicesimo pienamente impegnato nella cultura e nella società, che proponga le verità che ha il privilegio di portare nel discorso pubblico sul bene comune. Ma la Chiesa cattolica del futuro in Polonia, o altrove, non può essere una chiesa partigiana identificabile in un particolare partito politico, una fazione politica, una tendenza politica o persino una filosofia politica. Ogni volta che ciò è accaduto nella storia moderna, la missione evangelica primaria della Chiesa ha patito gravi ripercussioni.
Questo tema è alquanto complesso, perché è ovvio che alcuni partiti politici, alcune tendenze politiche e alcune filosofie politiche sono più adeguate di altre nel riflettere la comprensione cattolica della persona umana e le verità morali che la Chiesa ritiene essenziali per una vita giusta, a livello sia individuale sia sociale.
Tuttavia, la tentazione da parte della Chiesa di allinearsi a un potere mondano proviene dalla fonte di tutte le tentazioni, come Cristo stesso ha chiarito in Mt 4,8-10 (2). Quindi, la Chiesa cattolica deve resistere alla tentazione di identificarsi con un particolare partito politico in un determinato momento storico, se la Chiesa della Nuova Evangelizzazione vuole essere quella che Giovanni Paolo II ha immaginato. L’unico potere che convertirà il mondo tardo-moderno e postmoderno è quello del Vangelo.
Guardiamo ora al futuro del progetto di civilizzazione dell’Occidente, o della democrazia occidentale, con gli occhi di Giovanni Paolo II. Se lo facciamo, ci accorgiamo di quanto questo progetto di civilizzazione — questo progetto democratico — sia in crisi. Si tratta di una crisi dovuta all’incoerenza e, se leggiamo con attenzione la più grande enciclica sociale di Giovanni Paolo II, la Centesimus annus [1991], e la sua esortazione apostolica Ecclesia in Europa [2003], troveremo messe a fuoco le radici di questa incoerenza. Permettetemi di descrivere questa crisi d’incoerenza attraverso l’immagine di uno sgabello, un piccolo elemento di mobilio sul quale sedersi.
Dunque, immaginiamo la civiltà occidentale come uno sgabello a tre gambe. Su ciascuna di queste vi è un’etichetta: «Gerusalemme», «Atene» e «Roma». Tutte e tre insieme queste gambe sostengono quello che noi conosciamo come l’«Occidente». Come ci riescono? O, giusto per porre la domanda in altri termini, che cosa hanno insegnato all’Occidente Gerusalemme, Atene e Roma?
«Gerusalemme», ovverosia la religione biblica, ha insegnato all’Occidente che la storia sta andando da qualche parte, che la storia dell’umanità è lineare, mai ciclica, né ripetitiva, né semplicemente casuale: non è una successione di eventi che accadono l’uno dopo l’altro senza alcuno scopo o alcuno schema riconoscibile. No. Il messaggio biblico è che la storia ha una direzione. E la radice di questa idea così fondamentale per la cultura dell’Occidente — che l’umanità stia andando da qualche parte, che la vita sia viaggio, avventura e pellegrinaggio — è l’esperienza e la storia dell’Esodo: l’immagine fondante della liberazione nel mondo occidentale. L’idea che la storia abbia un significato, che la storia abbia una direzione, un telos, è stata assolutamente cruciale per la peculiarità della civiltà occidentale. Ed è stata la religione biblica a insegnare quella lezione fondamentale e a fornire quel «sostegno» fondamentale per la cultura: in primo luogo, attraverso l’auto-rivelazione di Dio al popolo d’Israele e poi, in modo definitivo, nell’auto-rivelazione di Dio attraverso la seconda persona della Santissima Trinità, nata nella storia da Maria di Nazareth.
Che dire di «Atene»? La filosofia classica, a partire dai presocratici nel secolo VII prima di Cristo, ha insegnato all’Occidente che vi sono verità — incluse quelle di natura morale — instaurate nel mondo e dentro di noi; che possiamo conoscere quelle verità attraverso l’arte della ragione; e che conoscendo quelle verità, impariamo i nostri doveri e i nostri obblighi come individui e come cittadini.
Nel marzo dell’anno 2000 (3), Giovanni Paolo II ha riflettuto su tutto ciò quando il suo pellegrinaggio biblico durante il Grande Giubileo lo condusse sul Monte Sinai, là dove Mosè aveva ricevuto i Dieci Comandamenti. Lì, il Papa precisò che la legge morale — la legge che porta l’umanità a vivere rettamente, alla felicità e, in ultima analisi, alla beatitudine — era iscritta nel cuore umano prima ancora di essere scritta su tavolette di pietra. I fondamenti della legge morale che conosciamo dalla rivelazione sono accessibili anche alla ragione. Non è una legge morale che sia «vera per i credenti». È una legge morale vera per tutti, perché inscritta nella realtà (4).
«Atene» ha dato all’Occidente la fiducia nella capacità della ragione di arrivare alla verità delle cose; e non solo alla verità morale delle cose, ma anche a quella scientifica e a quella filosofica. Tale convinzione è stata cruciale per la civiltà occidentale. Senza di essa non vi sarebbe stato alcun sviluppo, né dell’etica, né della scienza, né della tecnologia, e neanche lo sviluppo di una politica autenticamente umana.
E «Roma»? La Res publica romana ha dato al progetto di civilizzazione fatto proprio dall’Occidente un’altra idea cruciale: per l’ordinamento della vita pubblica il rule of law è superiore alla mera forza bruta (5). Pensate a [Marco Tullio] Cicerone [106-43 a.C], che fu al contempo un serio filosofo della politica e un uomo politico, anche se ha raggiunto risultati più memorabili come filosofo che come politico. In ogni caso, Cicerone rappresenta il più importante contributo dato dal mondo romano al progetto civilizzatore dell’Occidente. Lo ripeto: l’idea che il rule of law sia superiore alla coercizione, nel momento in cui gli esseri umani strutturano la propria vita comune nella società.
Dunque, il progetto di civilizzazione occidentale e la sua espressione politica moderna, ciò che noi chiamiamo «democrazia», si regge su queste tre gambe, su questi tre fondamenti: 1) religione biblica — la vita è viaggio, avventura e pellegrinaggio perché la storia sta andando da qualche parte; 2) la filosofia greca — ci sono verità che possiamo conoscere radicate nel mondo e dentro di noi; e 3) il diritto romano — il rule of law è superiore alla coercizione nei rapporti umani.
Comunque, a che cosa assistiamo oggi? Quei fondamenti sono ancora saldi? Credo di no.
Nel secolo XIX, la cultura europea «alta», rappresentata da figure come [Auguste] Comte [1798-1857], [Ludwig] Feuerbach [1804-1872], [Karl] Marx [1818-1883] e [Friedrich] Nietzsche [1844-1900], è come se avesse detto: «No. Al nostro sgabello della civiltà la gamba “Gerusalemme” proprio non serve, perché il Dio della Bibbia è nemico della maturazione e della liberazione umana». Questa idea falsa — che il padre gesuita [card.] Henri de Lubac [1896-1991], amico di Giovanni Paolo II, aveva analizzato a suo tempo in un importante libro intitolato Il dramma dell’umanesimo ateo (6) — ha estromesso il Dio della Bibbia dalla storia della civiltà occidentale e quindi dalla sua cultura pubblica. Tolta di mezzo la gamba «Gerusalemme», lo sgabello con solo due gambe divenne, non a caso, instabile.
Che cosa successe allora? Beh, sembra proprio che, tolto il Dio della Bibbia dal quadro, la ragione cominci a dubitare di sé stessa. Infatti, se si toglie l’idea — che si ritrova tanto nella Genesi quanto nel vangelo di san Giovanni — che Dio Creatore ha impresso verità nel mondo e nella sua creazione dell’uomo, che Dio — se preferite — ha impresso una razionalità divina nel mondo e in noi, allora si comincia a dubitare che vi sia una razionalità nell’ordine creato. Oppure che vi siano verità e modelli di verità che nel mondo vanno solo scoperti e che la ragione sia in grado di cogliere tali verità e tali modelli. Quando si perde la nozione di un Creatore razionale, sembra che a stretto giro si indebolisca la fiducia riposta nelle capacità umane di pervenire alla verità delle cose. E ciò aiuta a spiegare la triste condizione di gran parte della cultura occidentale al giorno d’oggi: una cultura nel cui alveo si sente spesso dire che non esiste una cosa come «la Verità», ma vi è solo «la tua verità» e «la mia verità».
La perdita di «Atene», dovuta in parte a quella di «Gerusalemme», ha gravi conseguenze su «Roma».
Infatti, come profeticamente notato da Joseph Ratzinger nell’aprile del 2005, lo scetticismo nei confronti della Verità è una prescrizione per l’estinzione del rule of law. Perché se vi sono soltanto la «tua» e la «mia verità» e nessuno di noi due può appellarsi alla Verità per risolvere la nostra disputa, accadrà una di queste due cose: o tu imporrai il tuo potere su di me o sarò io a imporre il mio su di te. Questo è ciò che Ratzinger intendeva con quella sua eclatante espressione, «la dittatura del relativismo», l’uso del potere coercitivo dello Stato per imporre un’etica pubblica relativistica a tutta la società (7). Questo pericolo si trova oggi ovunque in Occidente. Ed è uno dei motivi per cui il progetto democratico occidentale si trova in un tale stato di agitazione.
Questa condizione di turbolenza riflette una verità nuda e cruda: le fondamenta culturali della democrazia e, in effetti, dell’intero progetto occidentale sono marcite nella incoerenza. L’Occidente è in subbuglio perché ha in gran parte perso «Gerusalemme» e sta rapidamente perdendo «Atene». E, a causa di tali erosioni e perdite, l’Occidente rischia seriamente di perdere anche «Roma» — cioè la convinzione che il rule of law, cui si perviene tramite una discussione razionale che conduce a un consenso che riflette il giudizio di cittadini che si auto-governano, sia superiore alla coercizione nell’ordinamento della nostra vita comune.
Permettetemi ora di mettere l’uno accanto all’altro questi due «futuri» visti attraverso lo sguardo di Giovanni Paolo II.
Se la radice dell’incoerenza culturale dell’Occidente è la perdita della fede nel Dio della Bibbia, allora la Chiesa della Nuova Evangelizzazione — la Chiesa del futuro, secondo Giovanni Paolo II — sarà decisiva per il salvataggio del progetto occidentale di civiltà. Perché essa, nella sua opera di annuncio del Vangelo e con la sua testimonianza pubblica, aiuterà la civiltà occidentale a recuperare «Gerusalemme» e, di conseguenza, anche «Atene» e il convincimento culturale che la ragione può cogliere la verità delle cose. Tutto ciò è a sua volta essenziale per difendere il rule of law dalla coercizione imposta in nome dello scetticismo e del relativismo.
Una Chiesa che converte il mondo alle verità della fede biblica riuscirà a riconvertire il mondo alla ragione, cui si riconoscerà nuovamente la capacità di ordinare le relazioni umane. Le due cose vanno insieme: la Chiesa permanentemente in missione che Giovanni Paolo II ha vagheggiato durante il Grande Giubileo del 2000, la Chiesa che ha descritto nella Redemptoris missio e nella Novo millennio ineunte, permetterà al cattolicesimo di assolvere al «grande mandato» [di evangelizzare il mondo intero] e offrirà alla civiltà occidentale una via d’uscita da questa crisi di incoerenza.
Se guardiamo al presente e al futuro con lo sguardo di Giovanni Paolo II, vedremo dinanzi a noi una grande sfida. Ma, se guardiamo presente e futuro attraverso il prisma del suo insegnamento e del suo pensiero, scorgeremo anche un modello di rinnovamento ecclesiale e di riforma civile che ci dà speranze di portare a compimento la grande visione che egli propose alle Nazioni Unite venticinque anni fa: la visione di «una nuova primavera dello spirito umano» (8).
Note:
(1) Cfr. George Weigel, The Irony of Modern Catholic History: How the Church Rediscovered Itself and Challenged the Modern World to Reform, Basic Books, New York 2019.
(2)«Di nuovo il diavolo lo condusse con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e gli disse: “Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai”. Ma Gesù gli rispose: «Vattene, satana! Sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto».
(3) In realtà dal 24 al 26 febbraio di quell’anno.
(4) «I Dieci Comandamenti non sono l’imposizione arbitraria di un Signore tirannico. Essi sono stati scritti nella pietra, ma innanzitutto furono iscritti nel cuore dell’uomo come Legge morale universale, valida in ogni tempo e in ogni luogo. Oggi come sempre, le Dieci Parole della legge forniscono l’unica base autentica per la vita degli individui, delle società e delle nazioni; oggi come sempre, esse sono l’unico futuro della famiglia umana. Salvano l’uomo dalla forza distruttiva dell’egoismo, dell’odio e della menzogna» (Giovanni Paolo II, Celebrazione della Parola al Monte Sinai, del 26-2-2000).
(5) L’espressione inglese «rule of law» è di difficile resa in italiano. Talvolta tradotta «principio di legalità», altre «governo della legge», altre ancora «Stato di diritto», indica nel contesto del Common Law — cioè il «diritto consuetudinario» che vige nei Paesi di tradizione anglosassone, come il Regno Unito e gli Stati Uniti d’America — il sistema giurisprudenziale fonte primaria dell’ordinamento giuridico. L’importanza di questa espressione sta nel rimando intrinseco a un criterio di natura oggettiva e morale superiore alla legge positiva. Per maggiori dettagli esplicativi e riferimenti bibliografici, cfr. la nota redazionale n. 3 in Donald J.[ohn] Trump, Per Dio e per la patria, in Cristianità, n. 388, anno XLV, novembre-dicembre 2017, pp. 29-40 (pp. 30-31).
(6) Cfr. Henri de Lubac S.J., Il dramma dell’umanesimo ateo, 1944, trad. it., 8° ed., Morcelliana, Brescia 2013.
(7) «Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie» (Card. Joseph Ratzinger, Omelia della messa «Pro eligendo pontifice», del 18-4-2005).
(8) Giovanni Paolo II, Discorso alla cinquantesima assemblea generale delle Nazioni Unite, del 5-10-1995.