Di Assuntina Morresi da Avvenire del 12/08/2021
È paradossale pensare all’eutanasia, mentre continuano gli sforzi per cercare di sopravvivere alla pandemia e superarla, e in effetti nei momenti più acuti del contagio il tema era come inabissato. Ma non poteva restarlo, perché il pensiero su cui si basa è diffuso, anche se proprio Covid-19 può mostrarne i limiti e avviare una nuova fase di riflessione.
È in corso la raccolta di firme di un’associazione di area radicale per il referendum che vuole modificare il reato di omicidio del consenziente e quindi aprire all’eutanasia. La richiesta di legalizzazione si basa su un assunto di fondo: tutte le decisioni sulla propria persona, purché rispettose delle libertà altrui, hanno lo stesso valore e vanno tutelate, a partire da come vivere e morire. Il che, applicato alla legalizzazione dell’eutanasia, implica che le scelte di vivere o di morire si equivalgano e per questo vadano egualmente legittimate dalle istituzioni, che dovrebbero parimenti garantire adeguate cure a tutti e l’accesso alla morte medicalmente assistita. Sono, però, da valutare le conseguenze.
Se vivere e morire hanno lo stesso valore, perché impedire a qualcuno di suicidarsi? E perché sorvegliare chi è sopravvissuto a un tentativo di suicidio, perché non sia recidivo? Quale volontà è più lucida e inequivocabile di chi tenta consapevolmente di togliersi da solo la vita? E se vivere e morire hanno lo stesso peso, perché sostenere, ad esempio, la vita delle persone molto anziane, che chiedono lucidamente di morire perché i loro cari se ne sono tutti andati, e si sentono irrimediabilmente sole? Prolungarne la vita non sembra una crudeltà?
Si potrà controbattere che la volontà di morire va considerata a una condizione che solo una legge può accertare: l’esistenza di una sofferenza che rende la vita uno strazio intollerabile, una tortura. Regolamentare l’eutanasia, dice chi la sostiene, significa anche impedire gli abusi delle morti procurate anche a chi non vive queste situazioni estreme, ma che può trovare un altro rimedio.
Fermo restando che le cure palliative sono un presidio riconosciuto efficace contro il dolore fisico, che in Italia abbiamo un’ottima legge che le consente e che andrebbe sempre più implementata, con la parola “sofferenza” si indica qualcosa di più ampio del dolore fisico e che comprende i tormenti di chi è costretto a condizioni che nessuno vorrebbe; paralizzati, completamente dipendenti dalle cure altrui, o anche privati improvvisamente di una persona amata: un figlio, un marito, una moglie. E chi può stabilire se si patisce di più immobili su un letto o se si perde un figlio? Come può una legge disegnare con giustizia i confini della sofferenza? Questa è un sentimento esclusivamente soggettivo, e se è usato per decidere quando si ha il “diritto a morire” allora l’eutanasia non può che diventare on demand: solo ognuno di noi sa dire quando è arrivato al limite di sopportabilità. È per questo che nei Paesi con leggi sulla morte assistita i “paletti” vengono via via eliminati, nel tempo: c’è sempre qualche persona sofferente che si sente ingiustamente esclusa da una morte liberatoria.
Ed è a questo punto che emerge la principale conseguenza della morte che diventa un diritto: lo sminuirsi della solidarietà umana, cioè della responsabilità e del farsi carico del prossimo, specie di chi è più fragile, e quindi la perdita della pervicacia creativa che fa escogitare soluzioni a problemi apparentemente insolubili, scovare vie d’uscita dentro a un vicolo cieco. Quella solidarietà che fa crescere la consapevolezza di appartenere alla medesima comunità umana e per questo si fa carico di prevenire i suicidi, di costruire opere per le persone anziane, per quelle sole, per chi ha perso consapevolezza di sé, per chi “non c’è più niente da fare” se non aspettare la morte.
È la solidarietà umana il senso ultimo anche delle cure palliative, specie in fine vita: quell’accompagnamento fino al respiro finale che rende dignitoso ogni morire perché non lascia soli e consente di controllare il dolore fisico. Gli hospice sono nati sul sentimento profondo della solidarietà reciproca. È la stessa solidarietà che ha fatto la differenza in pandemia, per cui tanti operatori sanitari e comuni cittadini si sono prodigati per far fronte all’emergenza, fino a rischiare la propria vita. Quella stessa solidarietà necessaria per la tutela della salute pubblica, che porta a chiedere a tutti rispetto per le misure che possono contrastare il contagio, compresi i vaccini. “Solidarietà” è la parola riscoperta anche da chi l’aveva dimenticata con Covid- 19, che può illuminare un nuovo pensiero.