L’Economist elegge l’Italia come paese dell’anno e Draghi come l’illuminato condottiero. Ma a quale prezzo?
di Domenico Airoma
No, non si tratta di essere disfattisti. Per mestiere, lo ripeto spesso, faccio il pessimologo; sono abituato a vedere il male in azione, in tutte le sue conseguenze, anche e soprattutto quando si traveste da bene. Si chiama realismo, se preferite; a Napoli, si riassume in un popolare monito: Ca’ nisciuno è fesso!
Sia ben chiaro: non si vogliono neppure avanzare dubbi sul fatto che l’Economist guardi con favore l’Italia in ragione del fatto che la sua proprietà sia di una facoltosa famiglia bianconera di Torino. Né sottovalutare la cosa guardando alle nazioni che hanno conteso al Belpaese la corona: Lituania, Samoa, Zambia, Moldova; della serie: ci piace vincere facile. Al contrario.
Quel che deve far riflettere è la motivazione che giustifica l’incoronazione: “abbiamo scelto l’Italia per il suo percorso politico”. Ed il percorso che viene ritenuto meritevole di premio viene individuato nell’aver scelto in Mario Draghi un primo ministro competente e rispettato a livello internazionale. Ed è sempre l’Economist a precisare, a scanso di equivoci, che la novità è da apprezzare tanto più perché spesso in passato l’Italia ha scelto leader come Silvio Berlusconi, che avrebbe dovuto seguire il consiglio della band vincitrice dell’Eurovision standosene ‘zitto e buono’”.
Ora, la questione non è se Berlusconi, per riprendere le stesse parole usate nel recente passato dall’Economist, fosse unfit, inadatto, cioè, a governare un paese come l’Italia. La questione è chi decide chi debba essere considerato fit.
Due cose paiono evidenti. La prima è che Mario Draghi è stato ampiamente riconosciuto come più che adeguato, e non solo dall’Economist. Lo è stato da Angela Merkel, che ha lodato il premier italiano per come ha gestito l’emergenza pandemica; lo è stato pure dal presidente francese Macron, che non ha esitato a formare addirittura un vero e proprio asse con l’ex presidente della Banca Europea. Non è mai stato ritenuto inadatto dall’intero establishment dell’Unione Europea che ha messo nel cassetto la bacchetta in passato usata con inflessibile rigore nei confronti dei politici italiani.
Ecco, forse è proprio questa la chiave di volta. Draghi non è un politico. Innanzitutto, è un tecnico, un tecnico eccellente, senza dubbio, ma non il primo tecnico a governare il nostro Paese; prima di lui Dini, Monti e lo stesso Conte possono fregiarsi di tale titolo. Tuttavia, Draghi è un tecnico assai particolare. Almeno per due ragioni; la prima è da rinvenire nelle stesse parole dell’Economist: per una volta un’ampia maggioranza di esponenti politici ha deciso di mettere da parte le divergenze per sostenere un programma di riforme. Il che significa che Draghi è riuscito in un’impresa in cui i suoi predecessori avevano fallito: mettere insieme quasi tutte le forze politiche, declassando i relativi esponenti a poco più di mere comparse. La seconda è che Draghi ci tiene a marcare le proprie distanze dalla politica e non è per nulla intenzionato a dar vita a compagini partitiche. Insomma, un tecnico chiamato dalla politica ed al quale la politica si è consegnata; un tecnico di governo, certo, ma di scopo, essendo stato chiamato per realizzare un preciso programma: guadagnare i fondi europei per la ripresa.
Tutti contenti, allora, del primato conquistato dall’Italia grazie a Mario Draghi. Ma a quale prezzo? Proviamo ad enumerarne i principali.
Il silenziamento del Parlamento, ostacolo sempre più ingombrante in un contesto caratterizzato da quello che taluni osservatori, anche non italiani, hanno definito di autoritarismo dell’esecutivo, indubbiamente soft, ma tale.
La marginalizzazione di ogni questione di principio potenzialmente divisiva, di ogni questione politica, appunto, dichiaratamente non oggetto delle attenzioni di un governo di scopo, come dimostrato, da ultimo, dalla mancata costituzione, innanzi alla Corte Costituzionale, della Presidenza del Consiglio nelle procedure relative ai referendum su omicidio del consenziente e sulla modifica della disciplina sugli stupefacenti.
L’irrilevanza di quel che rimane delle aggregazioni sociali e delle famiglie, in un quadro di disintermediazione sempre più spinta, nel quale gli stessi Stati hanno difficoltà a far sentire la propria voce.
Il tutto, mentre permane una disperante cupezza da pandemia, ma soprattutto una desolante prospettiva da suicidio demografico, rispetto al quale non c’è pass che tenga.
Forse, in questo momento, non c’era alternativa a Mario Draghi. E’ possibile. Ma l’importante è non alterare i fatti e definire Draghi per quello che è: l’alternativa che l’Italia non poteva non “scegliere”.
Epperò occorre non abbandonare la consapevolezza che un’alternativa si può costruire, innanzitutto sul piano culturale sociale.
Perché a noi non piace quel tipo di Paese che piace all’Economist.
Perché noi non vogliamo rimanere zitti e buoni.
Martedì, 4 gennaio 2022