Di Mariolina Ceriotti Migliarese da Avvenire del 30/01/2022
La nostra generazione ha pochissima familiarità con la morte: per la prima volta nella storia molti adulti non si sono mai trovati nella situazione di assistere concretamente alla morte di qualcuno, o di accompagnare da vicino un morente in questa estrema, misteriosa avventura.
La morte è a tutti gli effetti qualcosa di non-pensabile: in termini puramente ipotetici riusciamo a formulare al massimo l’auspicio che la nostra morte non sia accompagnata da un’esperienza di eccessivo dolore, perché il dolore, soprattutto quello fisico, è invece una cosa che ci è nota e della quale abbiamo paura.
Come tollerare che esista qualcosa che ci mette così completamente in scacco? Qualcosa che contraddice ogni nostra fantasia di controllo, che non si lascia ridurre nei nostri schemi di pensiero, e che si manifesta senza il nostro permesso, con una disarmante imprevedibilità.
La vicinanza concreta con la morte e il morire ha permesso agli uomini non tanto di eliminare la paura e l’inquietudine nei suoi confronti, ma di allenarsi a sviluppare dei pensieri anticipatori, utili a preparare il tempo della propria morte. La grande concretezza della sua presenza ha inoltre generato domande di senso e influenzato in modo significativo la vita sociale: la percezione della propria vulnerabilità e la paura della solitudine sono state infatti una leva cruciale nello spingere gli uomini ad aggregarsi tra loro e a prendersi cura gli uni degli altri. Oggi però abbiamo smesso di concepire la morte come un dato ontologico che fonda la condizione umana e l’abbiamo trasformata in un accidente: quasi il frutto di una disattenzione o di un’incuria che forse si potrebbe evitare.
Nel vissuto di molti la morte è diventata un evento quasi astratto, e non si avverte più con chiarezza il sentimento della paura: al suo posto è subentrato un disagio diffuso, un’ansia sotterranea e pervasiva, che configura piuttosto un vissuto di tipo fobico. La caratteristica dell’oggetto fobico è quella di non essere pensabile: si tratta infatti di qualcosa che è in grado di suscitare un’ansia insostenibile e obbliga la mente ad allontanarlo e a fare tutto il possibile per evitarlo. Nello stesso tempo, il contenuto fobico induce movimenti di difesa spesso inconsapevoli, ma che condizionano fortemente la vita delle persone.
Tra i meccanismi di difesa, mi sembra a questo proposito particolarmente interessante quello che la psicanalisi definisce l’atteggiamento “contro-fobico”, che consiste nell’occuparsi quasi con piacere proprio di ciò che è oggetto della potenziale angoscia, con l’illusione inconscia di controllare magicamente ciò che si teme. Forse per questo oggi la morte invade tanto il nostro spazio virtuale: scomparsa dalla concretezza dell’esperienza, la troviamo ora dappertutto, dai film ai videogiochi, con una pervasività inquietante.
La paura della morte ci spingeva a occuparci della vita, nel desiderio di darle un senso: vivere con pienezza, lasciare traccia del nostro agire, costruire un’eredità che ci sopravviva, sono tutti modi per dare concretezza al nostro desiderio di eternità. Ma la difesa contro-fobica del nostro tempo, che nega la morte, finisce per dirigere le nostre scelte tagliando la strada al futuro: dobbiamo solo tenere stretta una vita che ci sfugge. Non possiamo più lasciare alcuna eredità o traccia significativa, che aiuti chi verrà dopo di noi a trovare un senso alla propria esistenza.