Di Matteo Matzuzzi da Il Foglio del 05/03/2022
E se i russi, tra la torre della tv e il memoriale della Shoah di Babi Jar decidessero di colpire la cattedrale di Santa Sofia, “santuario più importante del popolo ucraino dai tempi della Rus’ di Kyiv”? L’effetto sarebbe pari alla deflagrazione di una bomba atomica: oltre ai morti e ai feriti, sarebbe un colpo letale al morale, corroborato dalla fede nei santi e dai baci alle icone, presenti ovunque, in cantine e scantinati, in chiese di fortuna e splendide cattedrali. La comunità ortodossa fedele a Mosca è disorientata, vede i carri armati con la bandiera nazionale correre sulle strade di Kyiv e Kharkiv, sente le sirene ululare a Mariupol e Odessa e si chiede come sia possibile che si facciano guerra due popoli che bevono dallo stesso calice. Popoli fratelli, uniti da una fede comune che le divisioni interne non possono scalfire. Eppure è proprio lì, all’interno del conflitto, che si combatte la battaglia tra le chiese cristiane ortodosse. Ferite antiche e più recenti che mai si sono rimarginate, fratture insanabili e condanne reciproche. Scismi e capitolazioni. C’è tutto nel calderone ucraino, un tutto che non può aiutare a rasserenare il cielo plumbeo che domina le cupole dorate di Kyiv e Mosca. Parlano tutti, i patriarchi. Parlano e chiedono preghiere, da una parte i russi che scongiurano Dio di “mantenere unita la nostra Chiesa” e di proteggere “dalla guerra fratricida i popoli che fanno parte dello stesso spazio, quello della Chiesa ortodossa russa” e dall’altra gli ucraini che si sentono traditi e domandano alla Chiesa madre di alzare il braccio per fermare le colonne di blindati spediti dal Cremlino. Si volge lo sguardo nell’alto dei cieli per ribadire quali sono i confini, le giurisdizioni, i pali su cui issare le proprie bandiere. “Non diamo a potenze esterne oscure e ostili l’opportunità di prenderci in giro”, ha detto Kirill di Mosca, riferendosi all’Ucraina, “paese fratello a noi vicino”, solo per chiedere che “non consenta alle forze del male, che da sempre combattono l’unità della Rus’ e quella della Chiesa russa, di prevalere”. Epifanio di Kyiv, patriarca della Chiesa autocefala benedetta da Costantinopoli e maledetta da Mosca, gli ha risposto che “mantenere l’impegno di Putin è molto più importante per Lei, Kirill, che prendersi cura del popolo ucraino” fatto di uomini e donne “alcuni dei quali lo consideravano il loro pastore prima della guerra”.
Mosca non può perdere l’Ucraina, diceva don Stefano Caprio, che la Russia la conosce come pochi e che ora insegna al Pontificio istituto orientale: “Il Patriarcato rappresenta il settanta per cento dell’ortodossia mondiale, e di questo settanta il trentacinque per cento è costituito da ucraini. Se gli ucraini se ne vanno, Mosca diventerà minoranza”. Il che è inaccettabile, l’apocalisse per il Patriarcato che dalle ceneri dell’Unione sovietica ha costruito una narrazione che lo vuole spirito evangelizzatore nella burrasca secolarizzante che ormai s’è presa tutto l’occidente, custode dei “veri” valori, sacri e morali, tramandati di generazione in generazione. Contano poco gli uomini al comando, le gerarchie: “Kirill lo conosco bene da quando ero giovane, è innamorato della Chiesa cattolica e dei gesuiti, non è per niente d’accordo con l’invasione”, diceva ancora Caprio. Però “ha ispirato un certo nazionalismo ortodosso che ora gli è scappato di mano”.
Forse, pure lui, ha sottovalutato Vladimir Putin, le sue mire reali sul mondo e il suo messianesimo forgiato da una particolare idea di storia e certo che alla Grande Russia spetti un destino epico. Vladimir il defensor fidei, la salda guida che interi episcopati, ortodossi e cattolici, guardavano con devozione filiale e speranza quasi mistica, mentre le milizie del califfo sventolavano le nere bandiere sull’Iraq e la Siria, meno d’un decennio fa. Vescovi e preti, sottoposti al Papa o al Patriarca, sedevano insieme ascoltando l’orchestra diretta da Valery Gergiev che suonava davanti alle rovine di Palmira liberata dallo Stato islamico. E ascoltavano le parole di Putin collegato con alle spalle la bandiera bianco rossa e blu. Francesco da Roma scriveva al presidente russo nel 2013, pregandolo di fare tutto quanto nelle sue possibilità per fermare i caccia bombardieri che dalle portaerei al largo della Siria si preparavano a sganciare le bombe su Aleppo e Damasco per cacciare il rais Bashar el Assad. Francesco lo riceveva a Roma, con l’usuale cortesia, più volte di ogni altro capo di stato. Kirill benedicente e lieto che la fiducia accordata al Cremlino portasse poi allo storico abbraccio dell’Avana tra il patriarca e il Papa, prima volta dopo il drammatico scisma che separò la cristianità in due secondo la primigenia cortina di ferro.
Oggi, il Patriarcato non sa che fare: domenica scorsa, nelle divine liturgie in Ucraina tanti sacerdoti hanno evitato di pronunciare il nome di Kirill, come se alle nostre latitudini il prete omettesse per scelta il nome del Papa o del vescovo. La reazione è stata durissima: “Smettere di ricordare il Primate della Chiesa non a causa di errori dottrinali o canonici ma per incoerenza con certe opinioni e preferenze politiche, è uno scisma di cui tutti coloro che lo commettono risponderanno davanti a Dio e non solo domani, ma anche oggi”, ha fatto sapere con lettera intestata il Patriarcato moscovita. E’ una frattura resa ancora più esplicita dalle sempre più numerose e nette dichiarazioni pubbliche di Onufri, il capo della Chiesa ortodossa ucraina dipendente da Mosca, che solo pochi giorni fa ha chiesto a Kirill di fare il possibile per porre fine allo “spargimento di sangue fratricida”. Un invito a smettere i panni del cappellano del Cremlino, di scudo religioso di Putin, e a sposare la causa della pace. Mai, finora, Kirill, ha pronunciato il nome del presidente, e se è vero che nel 2014 non approvò l’occupazione e successiva annessione della Crimea, è altrettanto evidente che non ha smentito la spinta nazionalista che contraddistingue sempre di più il patriarcato. Ma la crepa tra le chiese sorelle di Mosca e Kyiv è un il prodromo di quella che nella capitale russa sarebbe vissuta come una tragedia. D’altronde, fatta salva la posizione del patriarca di Belgrado, Porfirij, che guida una Chiesa da sempre fedelissima di Mosca, il resto dell’ortodossia slava è schierato contro l’aggressione russa, con denunce più o meno dure a seconda di chi le fa. I vescovi della Chiesa greco-ortodossa di Antiochia piangono per “dolorosi eventi” che rompono “vincoli spirituali tra i popoli russo e ucraino, emersi dallo stesso fonte battesimale”. Significativo anche se scontato, poi, è stato il commento di Bartolomeo I di Costantinopoli, che alla tv turca ha detto che “il mondo intero è contro la Russia”. A Mosca non s’aspettavano niente di diverso, con Bartolomeo da anni è tutto un susseguirsi di scomuniche e di accuse reciproche dopo che Costantinopoli ha deciso, nel 2018, di concedere l’autocefalia al Patriarcato di Kyiv, che Kirill considera niente di più che scismatico. Incontri riparatori serviti a nulla, negoziati conclusi con Mosca che vedeva nelle mosse di Bartolomeo il più grave dei peccati, vale a dire “una certa tendenza al papismo orientale”. I toni usati allora sembrano quelli che oggi si riferiscono agli ultimatum bellici: i russi denunciavano “la pesante e senza precedenti incursione nel territorio canonico del Patriarcato di Mosca”; azione che “non può essere lasciata senza una risposta”.
Mosca e Costantinopoli battagliano perfino in Africa, dopo che Teodoro II di Alessandria ha riconosciuto l’autocefalia della Chiesa di Kyiv. Alla fine del 2021, Mosca ha deciso di istituire un esarcato per l’Africa con due diocesi, la prima con sede al Cairo e la seconda con base in Sudafrica. E la sede centrale? A Mosca, sotto la guida dell’arcivescovo Leonida di Vladikavkaz, novello esarca d’Africa. Da Alessandria la risposta è stata netta: “L’antico patriarcato di Alessandria esprime il suo più profondo dolore per la decisione sinodale del patriarcato russo di istituire un esarcato nei territori canonici della giurisdizione dell’antica Chiesa di Alessandria”. Monta anche la fronda interna, in Russia: più di 240 preti hanno firmato un appello in cui si chiede la fine della guerra: “Piangiamo il calvario a cui nostri fratelli e sorelle in Ucraina sono stati immeritatamente sottoposti. Solo la capacità di ascoltare l’altro può dare la speranza di una via d’uscita dall’abisso in cui i nostri paesi sono stati gettati in pochi giorni”.
John Allen su Crux ha scritto che “se l’opinione pubblica ortodossa in tutto il mondo si inasprisse nei confronti dei russi, l’effetto potrebbe essere quello di rafforzare la mano di Costantinopoli”. Allen cita la tesi della storica del cristianesimo Diana Butler Bass: “Il conflitto in Ucraina riguarda la religione e il tipo di ortodossia che modellerà l’Europa orientale e altre comunità ortodosse nel mondo, soprattutto in Africa. Questa è una crociata, riconquistare la Terra Santa dell’ortodossia russa e sconfiggere gli eretici occidentalizzati e decadenti che non piegano le ginocchia all’autorità spirituale di Mosca”. Si è davanti a un bivio, per Butler Bass: “Mosca o Costantinopoli? L’ortodossia globale tenderà verso un futuro più pluralistico e aperto o farà parte di un triumvirato neocristiano autoritario?”.
In mezzo, i greco-cattolici, con l’arcivescovo maggiore di Kyiv-Halyc, Sviatoslav Shevchuk, che ogni giorno diffonde al mondo la cronaca di quanto sta accadendo in Ucraina. I sotterranei della cattedrale della Resurrezione trasformati in dormitorio per gli sfollati e per chi ha paura delle bombe, le liturgie domenicali celebrate nelle cantine e nei garage con le poche cose a disposizione. L’appello perché oltreconfine la gente sappia distinguere i fatti, chi è l’aggressore e chi è l’aggredito. Digiuno, preghiera e speranza. Che per i cristiani non è semplice ottimismo, ma qualcosa di più: fede nella possibilità di mutare il corso delle cose.
Tre chiese in un terreno su cui insistono drammi del passato e irrisolti problemi burocratici. Obbedienze diverse, gerarchie complicate, riti e calendari non sovrapponibili. E’ anche per questo che la Santa Sede, che in Ucraina potrebbe dire tanto – e non solo perché 5-6 milioni di fedeli sono “romani” – usa la massima prudenza. Nessuna denuncia pubblica dell’invasore, anche se ogni parola e riga stampate sull’Osservatore Romano e sui media vaticani riconducono la responsabilità del disastro al Cremlino. Francesco si è recato nell’ambasciata russa in Via della Conciliazione, una settimana fa, fatto inaudito nella storia. Se la Santa Sede vuole facilitare una mediazione – cosa confermata dal segretario di stato, il cardinale Pietro Parolin – non può attaccare la Russia. Diventerebbe subito irrilevante, catalogata da Putin e da quanti nel clero moscovita da sempre sono ostili all’abbraccio con Roma, niente di più che un alleato della Nato e dell’America.
Nei primi giorni di guerra, oltre alla prudenza, la Santa Sede ha ricordato che le colpe non stanno solo da una parte, che l’occidente ha una sua responsabilità, se non altro per aver armato chi confina con la Russia, accerchiandola e provocandola. Discorsi che oggi, davanti ai tank che procedono sulle strade ucraine, appaiono vecchi di secoli, superati dagli eventi che vedono le Forze armate del Cremlino ridurre in macerie ogni ostacolo che si frappone lungo la strada verso la conquista di Kyiv. Le linee diplomatiche sono fatte per esser cambiate, seguono la flessibilità di quanto accade nel mondo e Oltretevere lo sanno benissimo. Mentre il Papa raccomanda la preghiera e il digiuno, manda avanti le seconde linee, con i suoi vescovi e cardinali che ogni ora denunciano chi “l’aggressione russa”, chi “l’invasione ingiustificata” di uno stato sovrano. L’arcivescovo di Malta, Charles Scicluna, ha baciato commosso la bandiera ucraina. La prudenza, insomma, non è neutralità, non lo può essere.
Alla Santa Sede, però, ora dopo ora si chiede un passo ulteriore, qualche parola più sonante, perché i buoni rapporti con Kirill e la paziente trama tessuta in questi anni con il Patriarcato di Mosca non possono rappresentare un recinto che impedisce a Roma di muoversi e parlare. Il rischio, infatti, è quello di non essere ritenuti credibili, nel caso di una mediazione futura, dagli ucraini, che facilmente rimprovererebbero al Papa il basso profilo seguito fin qui. Non si può restare prigionieri della storica Dichiarazione firmata all’Avana nel 2016, in cui il Papa e il Patriarca invitavano “tutte le parti del conflitto alla prudenza, alla solidarietà sociale e all’azione per costruire la pace” e invitavano “le nostre chiese in Ucraina a lavorare per pervenire all’armonia sociale, ad astenersi dal partecipare allo scontro e a non sostenere un ulteriore sviluppo del conflitto”. Come s’è chiesto sulla Croix Yves Hamant, tra i massimi slavisti francesi, “cosa possiamo chiedere all’Ucraina? Rinunciare alla sua esistenza come stato sovrano?”.