Daniele Fazio, Cristianità n. 410 (2021)
1. Gli studi gilsoniani
Il nome di Étienne Gilson (1884-1978) è legato alla riscoperta della densità teoretica e del ruolo della filosofia medioevale all’interno del pensiero occidentale. Nella sua vasta produzione storico-filosofica vi sono alcune significative opere dedicate a Dante Alighieri (1265-1321), tanto che lo stesso filosofo francese compare in una voce dell’Enciclopedia Dantesca redatta dal filosofo italiano Augusto Del Noce (1910-1989) (1). L’opera più sistematica sul sommo poeta reca il titolo Dante et la philosophie (2); segue una raccolta di saggi realizzati in occasione del settecentesimo anniversario della sua nascita e successivamente pubblicati nel volume Dante et Béatrice. Etudes dantesques (3), e infine un interessante capitolo sulla visione politica di Dante, L’Impero universale, contenuto nella sua opera Les métamorphoses de la citè de Dieu (4).
Come Gilson, da filosofo, si sia appassionato al letterato italiano è difficile da ricostruire. Egli stesso riferisce che «le circostanze che ci hanno spinto ad intraprendere questa ricerca hanno solo interesse aneddotico, e il lettore non guadagnerebbe nulla a conoscerle» (5). Del resto, neanche la documentatissima biografia su Gilson del padre domenicano Laurence Kennedy Shook (1909-1993) (6) rivela l’origine di un tale interesse, mentre sicuramente svela l’impegno che il filosofo francese profuse in occasione del settimo centenario della nascita del poeta fiorentino, come si evince dal fatto che Gilson fin dall’anno precedente preparò una serie di conferenze per diffondere la notizia della ricorrenza dantesca. È certo, però, che per Gilson «leggere Dante è una gioia. Scrivere su Dante è un piacere, perché si può scrivere su di lui solo rileggendolo con maggior cura; ma lo sforzo necessario per spiegare ciò che se ne è compreso è molto più difficile» (7). Più volte lo storico della filosofia francese espliciterà la sua profonda ammirazione per un intellettuale che non ha eguali all’interno della letteratura mondiale, sia per l’influenza esercitata sul Paese d’origine, sia per l’attenzione che critici e lettori provenienti da tutto il mondo hanno prestato alle sue opere.
I dantisti più consultati e ricorrenti nelle opere gilsoniane su Dante sono Michele Barbi (1867-1941) e Bruno Nardi (1884-1968), che però Gilson non segue sempre, anche su punti importanti.
La prospettiva con cui questi si accosta alla produzione letteraria di Dante è da inquadrare all’interno della riscoperta, operata da lui stesso, del pensiero filosofico medioevale. La filosofia sarà dunque l’angolo visuale dal quale Gilson guarderà a Dante, concludendo alla fine della sua indagine che egli ebbe una visione di tale scienza del tutto originale, soprattutto in relazione all’ordine politico e a quello teologico. Gilson vuole comprendere Dante, più che classificarlo in una particolare corrente filosofica o teologica, il che –– data la straordinaria complessità del poeta –– si tradurrebbe inevitabilmente in una forzatura a fini didattici. Più che alla genealogia delle idee di Dante, Gilson è interessato al ruolo che, all’interno delle sue opere, ha avuto la filosofia in relazione a tutte le altre scienze e soprattutto al problema politico per eccellenza: la tensione fra Impero e Chiesa. Dai suoi studi emerge la figura di un Dante che utilizza con estro autorità filosofiche e scuole teologiche a sostegno di una visione teologico-politica personale. Ciò, per esempio, è visibile nella concezione della natura e della sostanza delle anime nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso, cui Gilson dedica due saggi notevolmente eruditi (8).
Fatta questa premessa, è lecito in primo luogo chiedersi, con Gilson, se Dante sia stato un «medioevale» o un «umanista». Per lo storico della filosofia non è possibile rispondere al quesito se prima non si sottopongono tali termini a una corretta explicatio: capire, cioè, che cosa precisamente si intenda con essi. Una volta delimitato il loro significato, ci si accorge che Dante fa saltare gli schemi: «davanti ad una originalità così eclatante poco importa se si colloca Dante nel Medioevo o nel Rinascimento, nella scolastica o nell’umanesimo: esce da tutti gli inquadramenti, è unico» (9).
Tenuto, però, conto che con «umanista» si denotano generalmente gli afferenti a una corrente letteraria e culturale ben precisa, che segna notevoli differenze con la prospettiva medioevale, Dante non può essere considerato tale. Considerarlo un umanista, afferma Gilson, «[…] mi sembra crei gravi equivoci» (10), per diverse ragioni, la prima delle quali è storica. Da un punto di vista cronologico, infatti, Dante vive all’interno di un universo culturale segnato dalla filosofia aristotelica e dalla teologia scolastica, che ha come riferimento san Tommaso d’Aquino O.P. (1225-1274) e non il beato Giovanni Duns Scoto O.F.M. (1266-1308). La seconda ragione sta nel fatto che medioevali e umanisti si rapportavano in maniera diversa rispetto alla cultura latina. Differente, per esempio, era la percezione del rapporto fra l’arte della grammatica e quella della dialettica e diverso era l’approccio all’oratoria di Marco Tullio Cicerone (106 a.C.-43 a.C.), che sarebbe diventato il maestro per eccellenza del letterato umanista. Per i medioevali, invece, che pur lo apprezzavano, avendolo inserito nella formazione propria delle arti liberali, egli non era così centrale: nella Divina Commedia, per esempio, viene nominato una sola volta (11). Il terzo motivo è nella radicale distinzione fra lo stile intellettuale di Dante e quello di Francesco Petrarca (1304-1374): le lingue d’elezione saranno il volgare e il latino delle scuole medioevali per il primo, l’eloquentia di Cicerone per il secondo.
Per Dante, il vero deve prevalere di gran lunga sul bello: il suo stile in fondo è quello delle dispute e dei commenti scolastici. Egli emerge specialmente in tutta la sua umiltà quando «[…] non capisce la volontà di Dio, non si ribella, soffre e si rassegna. Il vero è superiore al bello e la gioia di conoscere il primo prevale su quella di sentire il secondo. Dante non lo contesta un istante» (12). La questione linguistica, aperta da Gilson, allora non è meramente tecnica o filologica, ma rimanda a un patrimonio valoriale differente. Per parlare di scienza Dante ha certamente bisogno del latino e di quello scolastico in particolare, mentre per parlare di morale e per dare indicazioni su come coltivarla, a beneficio soprattutto dei politici nell’ottica dell’Impero universale, non ha altro strumento che quello del volgare, proprio perché questo sapere deve trovare la massima diffusione al fine di costruire una società giusta. Invece di scegliere fra il latino scolastico e quello classico, sceglie il volgare: optare per Cicerone, infatti, avrebbe comportato la perdita dei termini propri della metafisica e dell’etica aristotelica. Secondo Gilson, la propensione per Cicerone degli umanisti e di Petrarca, in primis, ha significato «[…] escludere la metafisica. La porta d’ingresso di Cicerone fu anche la porta d’uscita per la filosofia aristotelica» (13). Di conseguenza, continua lo storico della filosofia parigino, fra i due tipi di cultura quella dantesca «rappresenti molto bene ciò che definiamo cultura medievale»,mentre a quella di Francesco Petrarca «meglio si addice la definizione di umanistica» (14).
2. Dante e Beatrice
Gilson guarda all’intera opera di Dante attraverso il rapporto del poeta con Beatrice. I critici si sono a lungo interrogati sul fulcro generatore della poesia dantesca aderendo a teorie idealistiche, simbolistiche oppure realistiche. Gilson si schiera nettamente dalla parte del filone realistico, confutando nei suoi studi, e senza nascondere un certo atteggiamento polemico, le tesi dello storico domenicano Pierre Mandonnet (1858-1936) (15).
Secondo Gilson, Beatrice è innanzitutto una donna reale, una fiorentina vissuta al tempo di Dante, che il poeta incontra, seppur fugacemente, in età diverse e da cui riceve due volte un saluto. La morte della giovane provoca all’artista un dolore profondo e duraturo. Chi si accosta, dunque, ai testi danteschi deve innanzitutto rispettare ciò che circa questa figura essi narrano: ne La vita nuova, nel Convivio e nella Divina Commedia emerge la realtà di una donna bella e dell’amore intenso che il poeta nutrì per lei. Fino a che punto, tuttavia, Beatrice «Bice» Portinari (1266 ca.-1290), coniugata a Simone de’ Bardi, è la Beatrice delle opere poetiche di Dante? Il realismo di Beatrice — e l’amore che l’artista nutre per lei — si sovrappone dunque a ciò che Bice Portinari, donna fiorentina, divenne all’interno della dinamica artistica di Dante, precedendo tuttavia qualunque altra ermeneutica letteraria. Si tratta di un tipo di realismo che non si accorda né con le visioni delle «ultra-Beatrici», ossia quelle che riducono Beatrice a un simbolo, né con quelle delle «infra-Beatrici», che riducono Beatrice a un mero personaggio storico negandole qualsivoglia portata simbolica.
Ella, dunque — in quanto donna reale —, è la musa ispiratrice della poesia di Dante e suo costante anelito. La Divina Commedia scaturirà dal desiderio del poeta di incontrare nuovamente Beatrice — espressione di un amore che continua oltre la morte — dopo la di lei dipartita. Nella Commedia, altresì, ella non è meno reale della Beatrice delle altre opere in cui si fa stato della sua esistenza terrena, in quanto per essere morti o, meglio, per essere beati, bisogna ancor prima esser vissuti, esser stati virtuosi, essere stati già in terra un intreccio fra natura e grazia. La bellezza nella vita terrena che il poeta canta per Beatrice viene contemplata nella bellezza trasfigurata nel cielo ed essa è il mezzo attraverso cui un vivo — ossia Dante — può vedere con i propri occhi umani, sia pur limitati, addirittura la luce intellegibile, la pienezza dell’amore che è Dio stesso.
Per Gilson l’incontro di Dante con Beatrice è fondamentale per l’opera poetica e lo è, altresì, per la sua ascesi morale. Il poeta stava vivendo una crisi spirituale e si dibatteva fra dannazione e salvezza, fra tragedia e speranza. Beatrice si rivelò per lui la mano tesa perché egli ritrovasse sé stesso come uomo e come poeta cristiano. Beatrice diventò colei che, corrispondendo al suo amore, suscitò il percorso di purificazione che avrebbe permesso a Dante di «ritrovarsi». Lo stesso smarrimento di Dante posto all’inizio del Poema Sacro è tutto giocato, da un punto di vista esistenziale e poetico, nel suo rapporto con l’amico e poeta Forese Donati (1250 c.a-1296), con cui era sprofondato nel fango del vizio, cosa resa evidente soprattutto dai versi assai volgari che i due si scambiarono, incentrati su aspetti della loro esistenza certamente poco edificanti. La figura di Forese Donati — che il sommo poeta, in maniera prudenziale, colloca nel Purgatorio, fra i golosi della sesta cornice (cfr. Purgatorio, canto XXIII) — diventa l’alternativa reale alla contemplazione delle virtù di Beatrice, ma è anche segno reale dello smarrimento intellettualistico, nel mero stile comico-realistico, che giunge a una tensione di versi spregiudicati che in qualche modo allontanano il poeta dal nesso dell’arte con il bello. Recuperare Beatrice e la sua bellezza, anche morale, significa allora intraprendere un cammino per conquistare nuovamente la bellezza poetica e quella morale al tempo stesso. Nota Gilson che Dante «[…] non vive mai con astrazioni, ma con cose ed esseri: per questo non ha mai pensato di poter salvare il suo genio senza salvare se stesso, e nemmeno che la fonte della sua salvezza personale potesse essere diversa dalla fonte del suo genio» (16).
A ben guardare, l’amata non risparmia rimproveri a Dante (cfr. Purgatorio, canto XXX, vv. 73-75), suscitando nel pellegrino dell’aldilà vergogna e rimorso, tanto da farlo prorompere nella preghiera penitenziale per invocare il perdono di Dio. Solo Beatrice poteva essere per Dante una tale guida, poiché era colei che farà muovere — con il permesso divino — i primi passi dell’amico, donandogli una guida che egli non avrebbe potuto rifiutare, ossia il poeta latino Publio Virgilio Marone (70 a. C.-19 a. C.) — «lo mio maestro» (cfr. Inferno, canto I, vv. 85) —, facendosi successivamente ella stessa sua guida e lasciando, infine, al cistercense san Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) nell’ultimissimo tratto del Paradiso il compito di condurlo nella dimensione dell’amore mistico, attraverso cui Dante poté immergersi in Dio.
Fra Dante e Beatrice vi è chiaramente una storia d’amore. Non era forse Dante sposato e padre di famiglia? Non stride tutto questo con l’ottica della morale cristiana? Per rispondere a queste domande, secondo Gilson, occorre entrare nella dinamica dell’«amor cortese», di cui Dante fu grande maestro. Per spiegarla, possiamo ricorrere all’immagine del cavaliere che consacra alla propria dama le sue imprese e per costei è disposto a mettere a repentaglio la propria vita. Ma il cavaliere non è il marito della signora che serve, né tantomeno pensa minimamente di esserlo. Il suo amore si sostanzia nelle imprese e nei servigi che egli s’ingegna di mettere in atto. È ripagato dal solo sguardo benevolente della dama che lo ha eletto appunto a proprio cavaliere.
Dante non è un cavaliere, ma un artista e un letterato. La dinamica del suo amore, in questo senso, si ritrova nei suoi versi e nel desiderio di renderli sempre più raffinati per compiacere la sua donna, la sua musa ispiratrice. E più sono raffinati, tanto più sono reali, in quanto riflettono un amore concreto in cui vibrano le emozioni più intense di un uomo per una donna. L’amore di Dante per Beatrice non consiste affatto in una esperienza matrimoniale o adulterina, ma esclusivamente e fondamentalmente nella possibilità che egli ha di lodare la bellezza e le virtù di Beatrice stessa. Tale lode, dunque, non può che designare le perfezioni di Beatrice non solo quando lei è in vita, ma soprattutto quando ella sarà tolta allo sguardo del poeta ed entrerà a far parte della schiera dei beati. L’amore, intensamente carnale, nell’epilogo della Divina Commedia, si andrà sempre più purificando, riuscendo a contemplare «l’Amor che move il sole e le altre stelle» (Paradiso, canto XXXIII, v. 45). In fondo, l’esortazione ultima di Beatrice a Dante è di elevarsi dall’amore carnale al vero amore. Ci troviamo innanzi a «un amore carnale il cui fine non è carnale e mira, molto più che alla donna, all’opera da lei ispirata; è l’amore insomma di un poeta per la donna che con la sua presenza libera il suo genio e fa sgorgare il suo canto» (17). La Divina Commedia è risposta a questo anelito, a questo bisogno forte e intimamente spirituale, tanto da potersi legittimamente dire che l’autore del Poema Sacro è «un innamorato che mantiene la promessa» (18). Afferma Gilson: «Dante non fu un santo, ma fu un artista cristiano di prodigiosa potenza. Come cristiano e come artista, insieme e in maniera indivisa, in un unico atto di creazione e di salvezza, Dante, dopo aver constatato che ogni umano sostituto di Beatrice lo conduceva solo allo stupro, ha salvato al tempo stesso la sua opera e la sua anima. Non vi era e non vi sarebbe mai stata che una sola Beatrice per lui; e poiché era morta, bisognava dunque, dopo aver cantato ciò che ella era un tempo, lodare la Beatrice gloriosa che ella era divenuta. Lodarla e amarla non era per Dante la stessa cosa?» (19).
Due vite, due biografie — quella di Dante e di Beatrice —, così distinte e separate nella storia, risultano nell’opera d’arte così intimamente unite, anche se evidentemente non sovrapposte o ambigue nel percorso esistenziale dell’uomo-Dante, al punto che egli si sente totalmente autonomo da formare una famiglia con Gemma Donati (1265 ca.-1333/1342). Beatrice stessa, moglie e madre di famiglia, per quel poco che si sa di lei, non è affatto turbata dall’essere l’oggetto dell’amore poetico di uno scrittore. L’amor cortese prevede un’autonomia del sentimento che può generare un’intensità artistica elevatissima, senza però toccare le scelte esistenziali dell’uomo-poeta. Bisogna, allora, seguire tali sentieri per evitare di smarrirsi nelle interpretazioni. Scrive Gilson: «l’amore di un poeta per la sua Musa rimedia come può all’inevitabile scarto tra la signora della sua immaginazione e la persona reale. Dante e Beatrice vivevano ciascuno la propria vita. Quando lei morì, nel 1290, Dante era già sposato a Gemma Donati; anzi, le era stato fidanzato almeno dal 1277. Egli stesso informa con insistenza il lettore del suo amore per altre donne, almeno una delle quali, dopo la morte di Beatrice, ha rischiato di fargliela dimenticare. Della vera vita di Beatrice si sa del resto molto poco, ma sembra che sia morta sposata e madre di famiglia, senza che l’amore di cui era oggetto avesse minimamente turbato la sua esistenza. Ma l’artista vive dentro un uomo con il quale ha spesso scarsi rapporti e a cui neanche sempre assomiglia. La morte di Beatrice faceva di lei una musa perfetta, cancellando lo scarto sempre imbarazzante che separa l’ideale dalla realtà» (20).
Cercando di essere fedele al testo di Dante e distinguendo la lettura delle sue opere dalle successive e a volte mirabolanti interpretazioni simboliche, Gilson — a volte anche con pungente sarcasmo e ironia — fa notare gli errori grossolani dei «simbolisti», soprattutto le interpretazioni di padre Mandonnet, che proponevano continue metamorfosi di Beatrice ora in ottica teologica, ora nella ricerca del numero perfetto — il nove —, ora nell’influsso sul battesimo e sull’inizio della vita di fede del poeta o, addirittura, rendendola successivamente una metafora della tonsura o degli ordini minori ricevuti da Dante — e a cui egli si fermò — e, quindi, l’indizio di una vocazione di Dante al sacerdozio o alla vita religiosa a cui poi rinunciò o che gli fu negata dal vescovo di Firenze Giovanni dei Mangiadori (?-1273). Addirittura, Beatrice viene anche intravista in una corda o in un «cordiglio», simbolo della castità abbandonata, e, infine, tradotta in Lumen gloriae all’interno delle dinamiche della Divina Commedia. Per Gilson una tale operazione equivale a idolatrare il proprio sistema e in definitiva a creare un Alighieri, uomo e poeta, mai esistito. Dunque, «che sia esistita una donna amata da Dante con il nome di Beatrice e che questa donna sia Bice Portinari è cosa possibile e anche probabile, con buona pace dei seguaci del P. Mandonnet» (21); e ancora «così, per essersi lasciato dominare dallo spirito di sistema, il P. Mandonnet è arrivato a fabbricare testi falsi e a non capire nemmeno il senso ovvio di quelli veri. E ci ha rimesso non solo il suo italiano, ma anche la sua teologia» (22).
Se Beatrice fosse stata una donna irreale, se l’amore semplicemente una finzione, sarebbe un grande inganno e ci ritroveremmo con l’opera dantesca, e in particolare con la Divina Commedia, davanti a una grande simulazione di emozioni, torti, rimorsi, pene, tensioni ed emozioni. Per Gilson, tutto ciò sarebbe improbabile: infatti, coloro che sposano il simbolismo assoluto dell’opera dantesca, facendola scadere nell’irrealismo, non riescono affatto a giustificare fino in fondo le loro posizioni, giungendo a flagranti contraddizioni, sofismi e controsensi, il che basta per abbandonare tale ipotesi. Guardare all’opera di Dante, e in particolare a quella che lo consacra straordinario poeta, la Divina Commedia, significa accostarsi a «un’opera così personale, dove l’attore principale è l’autore, che vi si trova immerso in una realtà verificabile da ogni parte, circondato da amici e nemici che egli nomina e noi d’altro canto conosciamo, pieno di collera politica e desiderio di vendetta, ma anche di perdono, rimorsi e speranze di cui è possibile verificare l’oggetto, un’opera del genere se non è tutta la verità su Dante […] è per lo meno, nell’intenzione originaria dell’autore, una verità che riguarda fatti e persone per lui reali» (23). Non possono essere di meno Beatrice e l’amore che Dante nutrì per lei: «non si capisce l’opera senza quell’amore, né quello senza l’opera poiché esso la vivifica e quella l’incarna, vi è ovunque presente come l’anima nel corpo» (24).
3. La «donna gentile»
La donna gentile su cui Dante si diffonde nel Convivio è la filosofia. Nel momento in cui Beatrice viene sottratta allo sguardo del poeta, perché entra nell’ordine della beatitudine, egli trova consolazione proprio nella filosofia, sulla scia di quanto insegnato da san Severino Boezio (Anicio Manlio Torquato, 475/477-524/526). Tuttavia, tale «assenza» di Beatrice non deve essere vista come un distacco radicale, perché secondo Gilson «il Convivio è consacrato sin dall’inizio dal ricordo di una Beatrice celeste la quale, sebbene non sia ancora quel che diverrà nella Divina Commedia, è già, nondimeno, una beata, e per Dante, un richiamo all’aldilà» (25). Per questa via Dante incontra la filosofia e per Gilson si tratta di «un caso di vocazione filosofica tardiva ma sincera, persino entusiasta, al punto che rischiò per un periodo di perdere la vocazione poetica» (26).
Ma la filosofia emerge come scienza della terra e non del cielo dei beati. Dante non è un filosofo, il suo accostamento alle scienze filosofiche è da letterato, ossia da grammatico. Occorre, dunque, comprendere come la filosofia sia stata da lui interpretata all’interno del proprio itinerario poetico. Cercando una soluzione all’oblio temporaneo di Beatrice, egli cerca alla fine una sorta di via per poterla raggiungere nuovamente. Su questo cammino ha bisogno di una consolazione, ossia di un orientamento esistenziale nell’ordine terreno in cui si trova, dal momento che non può, da vivo, raggiungere la dimensione cui Beatrice è ascesa. Alla fine, sarà certamente ella a trionfare, ma ciò non può minimante cancellare i sentieri che il sommo poeta ha seguito per giungere all’incontro con Beatrice beata, scoprendo nell’itinerario con chiarezza l’esistenza di tre ordini importanti, distinti radicalmente e con finalità proprie, da concepire non in contrapposizione fra essi, in quanto, pur nella loro reciproca autonomia dipendono da un solo Autore che è Dio.
La filosofia è sovrana nell’ambito dell’ordine terreno ed è la via che può condurre, dunque, alla felicità terrena. In questa via è maestro — così come per tutti i medievali — il filosofo greco Aristotele (384-322 a.C.). La grande novità di Dante, tuttavia, è che egli valorizza quale massima espressione dello Stagirita non tanto la metafisica, in quanto prossima all’ambito divino e quindi alla teologia, bensì la morale. Nell’ambito etico, infatti, Aristotele indica all’uomo la via delle virtù morali e politiche che permettono di giungere a una realizzazione personale e sociale, ancor prima che alla salvezza eterna. Qui Dante separa — se così posso esprimermi — l’ordine della terra da quello del cielo, non perché il primo sia più importante del secondo, ma perché è innanzitutto nel primo che l’uomo deve cercare la propria felicità. La domanda sulla felicità risponde così propriamente alla morale. Con un’immagine significativa la teologia è posta da Dante nell’Empireo. Ma che cos’è l’Empireo? È un cielo esistente non per gli astronomi, ma per i teologi; dunque, la teologia — diversamente che per Tommaso d’Aquino — non sarà la regina delle scienze, in modo che queste possano condurre ad essa ed essa possa regolarle, bensì una colomba pura che si libra aldilà di ogni riferimento e legame con la sfera della terra.
La metafisica di Aristotele, nella misura in cui essa è anche una teologia razionale, risponde all’interesse di Dante non perché descrive un ordine terreno in cui l’uomo deve trovare la via della propria felicità, ma perché spinge l’uomo in un ambito che difficilmente e con costanza può sperimentare quando è sulla terra. Ecco che qui, allora, viene modificata la gerarchia tradizionale delle scienze. Mentre la teologia — intesa non come studio e dibattito sul divino, ma come luogo della perfezione di Dio e dei beati — si libra al di sopra dell’ordine terreno, in quest’ultimo il primato è detenuto dalla morale, che Dante colloca nel cielo «astronomico» del Cristallino. Al di sotto, vi saranno la fisica e la metafisica, collocate nel Firmamento. In questo senso, Dante «[…] suppone un’idea ben precisa di cosa sia in genere la conoscenza filosofica. La sapienza vi è dunque presentata come possesso dell’uomo naturale che adopera le sue risorse naturali, e tutto il trattato appare imperniato attorno a queste idee fondamentali: il fine naturale dell’uomo è la felicità che egli può ottenere in terra, tramite l’esercizio delle virtù morali e politiche quali sono definite da Aristotele nell’Etica Nicomachea […] è dunque Aristotele a possedere l’autorità suprema per stabilirlo […]. Quanto alla metafisica, sebbene possa farci pregustare la beatitudine contemplativa, non può raggiungere pienamente il suo fine in questa vita. Più alta e più perfetta in sé, la felicità da essa data è tuttavia meno completa. Solo la teologia può finalmente condurre alla beatitudine contemplativa perfetta, ma non in questa vita; anche perché la verità di questa scienza che regna senza rivali nell’Impero delle anime, non è di questo mondo, e solamente nell’altro ci condurrà sino a quella visione di Dio faccia a faccia di cui essa è il tramite» (27).
Emerge — come Gilson si sforza di far notare — una prospettiva assolutamente originale in cui Dante può essere certamente compreso, ma non classificato. Infatti, la valorizzazione di Aristotele vuol dire che nell’ordine della vita terrena all’uomo è data da Dio stesso la via per raggiungere il bene terreno e la propria felicità. In tale ordine, la filosofia regna sovrana e può servire la teologia solamente rimanendo sé stessa. Ogni tentativo aristotelico di svolgere un discorso metafisico, ossia di teologia razionale, per quanto meritorio, risulta però pericoloso e su molti punti oscuro, perché la metafisica, ossia il mero sforzo razionale dell’uomo, mostra in maniera imperfetta ciò che la teologia rivelata spiega e palesa in tutta chiarezza, come per esempio l’immortalità dell’anima. Sulla questione Dante non nega che molti filosofi si siano sforzati di sostenerla con argomentazioni valide. Solo la teologia rivelata, però, mostra con la massima limpidezza, in virtù della fede cristiana, che cosa sia giusto credere e perché è giusto che sia così. Risponde alla giustizia divina che ogni ordine sia autonomo in sé e faccia raggiungere all’uomo la felicità, ossia la realizzazione piena, ma su due livelli differenti che tali sempre devono rimanere.
Dante ha ben chiaro il primato della teologia e della scienza divina, ma altresì ha chiara la fragilità dell’uomo che, però, con la filosofia, intesa come morale aristotelica, può raggiungere la felicità terrena. Pertanto, dal primato della teologia e della contemplazione non discende un primato in ordine al governo della morale umana. Dante riconosce certamente un ruolo gerarchico superiore alla teologia, poiché in essa l’uomo realizza la beatitudine suprema, ma una tale posizione gerarchica è semplicemente di dignità e non di giurisdizione. In altre parole, all’interno della vita attiva ciò che serve all’uomo è una morale naturale, mentre all’interno della vita contemplativa egli avrà bisogno di una morale soprannaturale. La teologia, per Dante, assume in questi termini le sembianze di «una teologia ideale, fondata strettamente sulla fede cristiana nella dottrina del Cristo» (28).
Avendo presente il quadro del Convivio, emerge che Dante — pur considerando Aristotele il maestro fondamentale di cui Dio stesso si è servito per dare agli uomini la via morale per conseguire il bene terreno — non lo segue nel primato che questi assegna alla metafisica, in quanto, seppur superiore, per l’uomo che vive sulla terra la contemplazione è solo un’esperienza fugace, che diventerà permanente dopo la morte, quando l’uomo vedrà Dio faccia a faccia. Ed emerge pure che egli non segue neanche Tommaso d’Aquino, pur avendolo in grande stima e pur studiando i suoi Commentarii e le Summae, perché in Dante la teologia, suprema nel suo ordine, non ha il ruolo giurisdizionale di ordinare la filosofia. Essa si trova in un altro ordine e designa la felicità eterna e non quella terrena. Insomma, in Dante la filosofia non è — tomisticamente — ancilla theologiae. La teologia è assolutamente trascendente, ossia supera ogni umana scienza senza mescolarsi con essa. Ulteriormente, possiamo dire che la posizione di Dante non è neanche quella del filosofo arabo ʾAbū al-Walīd Muḥammad ibn ʾAḥmad ibn Rušd «Averroè» (1126-1198), né quella degli avveroisti latini o del pensatore Sigieri di Brabante (1240-1280), perché egli nega in maniera assoluta che la fede sia una grossolana approssimazione di ciò che la filosofia presenta con chiarezza, né tanto meno avalla la tesi secondo cui ragione e fede, pur nella loro autonomia, non si accordano perfettamente. Anzi, proprio di una tale armonia Dante stesso gioisce. La teologia avvolge il mondo, diffonde in esso la sua luce soprannaturale, ma la felicità temporale dell’individuo si può trovare attraverso la sapienza umana e ciò non perché quest’ultima si contrapponga alla prima, ma perché così è voluto da Dio stesso.
Ne discende da ciò che la filosofia ha a che fare con l’ordine temporale e dunque con i governanti. Qui si deve porre una considerevole demarcazione fra altri due ambiti in cui l’ordine umano deve coesistere. Ne va come sempre del rispetto della giustizia umana e divina. Se la filosofia è sovrana nell’ambito della sapienza umana, nell’ambito del governo è sovrano l’imperatore, ragion per cui il filosofo non deve uscire dal proprio ordine usurpando il ruolo al governante e l’imperatore non deve uscire dal proprio ordine usurpando l’ambito del filosofo. Il Convivio è al servizio degli uomini di governo perché diventino ebbri di quella sapienza che guida l’ordine umano e indica il bene comune terreno, senza però sostituirsi ad essa, come Dante sosteneva avesse fatto erroneamente l’imperatore Federico II di Svevia (1194-1250). Dio ha sottomesso la sapienza umana, la morale, ad Aristotele, come ha sottomesso l’Impero all’imperatore. Rientra nell’ingiustizia la confusione fra i due ambiti. Se l’autorità — in senso etimologico — significa «degno di fede e di obbedienza», Aristotele è degno non solo di fede, ma anche di obbedienza nell’ordine della sapienza umana, così come l’imperatore è degno di obbedienza nella sfera delle leggi. Le due autorità sono, quindi, «radicalmente distinte nelle loro funzioni, radicalmente indipendenti, ma strettamente associate nel condurre i popoli al fine naturale dell’uomo» (29).
La visione dantesca ci pone innanzi tre autorità, fra loro autonome ma preordinate da Dio stesso in tal maniera e quindi armoniche: il Papa, l’imperatore e Aristotele con la sua morale. Il Convivio, che non pone il problema del rapporto fra il Papa e l’imperatore, per Gilson si occupa in maniera generale del fondamento di due autorità: quella della filosofia, incarnata da Aristotele, e quella della politica, incarnata dalla massima autorità, l’imperatore. La prima dipende dal fatto che — fra tutti i saggi — proprio ad Aristotele è stato concesso di rendere chiaro qual è il fine della vita dell’uomo. La seconda discende direttamente da Dio, che ha rimesso l’Impero nelle mani dell’imperatore romano. Ciascuna delle due autorità è unica e sovrana nel proprio ordine. Lungi dall’ostacolarsi, entrambe hanno bisogno l’una dell’altra: per regolare efficacemente i costumi, attraverso la traduzione in leggi delle sue istanze, la filosofia necessita dell’Impero così come quest’ultimo ha bisogno della filosofia per svolgere il suo compito secondo giustizia e verità. In questo senso, il Convivio è il luogo della scoperta personale da parte di Dante della «donna gentile», la filosofia, che salva l’uomo dalla disperazione e basta a far raggiungere la beatitudine sulla terra: la felicità temporale si ottiene attraverso la sapienza, la salvezza temporale mediante l’Impero e la salvezza eterna tramite la Chiesa.
L’universo dantesco — poi ridipinto nella Divina Commedia — assume questa forma, in cui ogni autorità è sovrana nel proprio ambito e nella distinzione compie bene la missione che il Creatore ha previsto per quel dato ordine. Accostando la questione nell’ambito del suo poema sacro, secondo quanto afferma il filosofo francese, il sommo poeta sceglie con cura le sue guide proprio in coerenza con la mentalità dei tre ordini: «Virgilio fino al Paradiso Terrestre, poi Beatrice, infine San Bernardo di Chiaravalle. Ogni ordine distinto, una competenza distinta; ogni competenza distinta un’autorità distinta. I filosofi nel Limbo, si raggruppano spontaneamente attorno ad Aristotele, come i poeti vi rendono onore a Virgilio; san Tommaso d’Aquino presiede alla teologia speculativa, come san Bonaventura [1221-1274] presiede alla teologia affettiva; ciascuno quando gli spetta, parla da maestro là dove è veramente il maestro ed esercita l’autorità laddove ha veramente autorità. E coloro che vogliono esercitarla dove non ce l’hanno, si dirà, dove sono? Sono all’Inferno. E si può ben dire che si sono messi da se stessi, col violare la legge santa della Giustizia divina che, creatrice suprema degli ordini che costituiscono la natura e la soprannatura, è anche la custode inflessibile delle autorità che saggiamente ha loro preposto» (30).
Le considerazioni espresse nel Convivio — peraltro testo didattico ed incompiuto — secondo Gilson, non saranno altro che una premessa necessaria alla teoria di Dante della separazione tra il Sacerdozio e l’Impero, che sarà esposta nel De Monarchia.
4. Il De Monarchia e i due fini
All’interno dell’evoluzione della filosofia politica, e marcatamente del pensiero politico cristiano, la prima nota d’originalità che lo storico della filosofia francese fa emergere in relazione a Dante riguarda la nozione di Impero universale. Il De regimine principum di Tommaso d’Aquino, peraltro opera incompiuta, non trattava di un potere così vasto da porsi quale interlocutore unico in ambito profano innanzi al rappresentante massimo della sfera sacrale, il Papa, ma trattava di poteri locali: duchi, principi, marchesi, che appunto avevano autorità locali e su cui svettava, nella sua universalità, anche temporale, l’autorità pontificia.
Dante, invece, in virtù del fatto che concepisce la politica quale ambito responsabile e via della pace universale, per contrastare cupidigia e ingiustizie pone la necessità di un unico capo che possa governare il mondo con le leggi alla ricerca, appunto, della pace. Una tale visione, secondo Gilson, può essere considerata una delle metamorfosi dell’ottica del De civitate Dei di Sant’Agostino d’Ippona (354-430), il quale unifica l’umanità in una società universale in forza dell’accettazione della comune fede cristiana. Da questo punto di vista, l’unico che ha il diritto di porsi a capo della società dei credenti è il Papa. Interpretazioni successive del testo agostiniano faranno sbiadire la nozione ideale delle due città — Gerusalemme e Babilonia —, facendo scaturire visioni politiche secondo cui il potere temporale discende dal Pontefice romano e quindi ci si deve subordinare al Papato. La prospettiva di Dante — stante la separazione dei tre ordini di cui ho detto precedentemente — si pone chiaramente in un’ottica di «laicizzazione» della cristianità universale. Secondo Gilson, «la Monarchia universale di Dante è un calco temporale di quella società universale che è la Chiesa. Il suo imperatore, la cui autorità si esercita secondo la verità della filosofia, è il corrispondente esatto del papa, la cui autorità si esercita secondo la verità della teologia […]. La società del genere umano è dunque una Chiesa temporale incaricata della beatitudine temporale degli uomini, che guida secondo natura» (31).
Per attuare una tale strategia Dante avrebbe seguito rigidamente l’idea che a capo della società temporale si debba porre uno solo e che l’umanità per raggiungere il proprio fine temporale, più che alla fede avrebbe dovuto prestare massimo ossequio, all’interno del mero ordine temporale, alla sapienza umana, che per Dante coincide con l’Etica nicomachea di Aristotele. Deputato alla guida di un tale nuovo soggetto temporale era proprio l’imperatore, che innanzi al Sacerdozio sarebbe stato autonomo nella sfera del temporale e, guidato dalla sapienza avrebbe indicato la via del raggiungimento del fine temporale. L’insistenza di Dante sull’importanza di un monarca universale segna non solo una novità radicale, ma anche una chiara differenza con la visione politica tomistica. Come nell’individuo tutto deve essere sottomesso all’intelletto se l’uomo vuole essere felice, così in una comunità vi deve essere un unico capo se non si vuole la rovina di essa. Dal momento che il genere umano è ordinato a un unico fine, per volere divino, è indispensabile al benessere del mondo che esista una monarchia, cioè un unico potere supremo, e tale potere non può che essere quello dell’imperatore. Il sommo poeta, allora, è all’origine di «una società da creare, per ottenere una pace che ancora non esiste, in vista di un fine che l’umanità non ha ancora ottenuto, perché prima che lo ottenga è necessario che esista» (32).
Dunque, non basta che l’umanità contempli il proprio fine, ma anche che il mondo sia organizzato coerentemente: artefice di un tale giusto ordine di cose è per Dante una volontà supremamente attiva e supremamente potente, ossia l’imperatore. Questi, con la sua presenza e il suo retto agire, illuminato dalla sapienza aristotelica, realizzerà un mondo ben costituito in vista del fine temporale. Perché avvenga ciò, il monarca universale «non può nutrire cupidigia, nutre dunque solo amore e carità; ora come la minima traccia di cupidigia basta a offuscare la giustizia, così pure la carità, cioè la rettitudine nell’amore, […] purifica e affina la giustizia; è dunque certo che, sotto un Monarca libero da ogni cupidigia, la giustizia deve regnare senza limiti» (33). In un tale clima gli uomini intenderanno correttamente la propria libertà e la loro esistenza verrà vista come un fine in sé e non in relazione allo Stato o a interessi particolari.
Il monarca, per Dante, è il padre temporale di questa umanità — inventata quale nozione laica da Dante e dedotta dalla nozione religiosa di Chiesa — e ha stringenti obblighi derivanti dalla sua funzione di ministro — servo — degli uomini in ordine alla carità e alla giustizia, così come il Papa, padre spirituale degli uomini, è obbligato, dalla sua posizione e dalle sue funzioni, a esercitare una paternità spirituale in ordine alla santità. Facendo emergere tale visione, ben circoscritta, ma al tempo stesso assai potente, della sfera temporale nella sua autonomia, si pone immediatamente la necessità di comprendere che tipo di rapporto si deve instaurare fra l’Impero e il Sacerdozio, fra il temporale e lo spirituale, fra lo Stato e la Chiesa, fra il Monarca universale e il Pontefice Romano. Gilson fa notare che «Dante ha dunque colto, sembra per la prima volta, la nozione di un temporale autonomo e sufficiente, dotato di una sua propria natura, di un fine ultimo suo proprio e di mezzi per raggiungerlo che gli sono naturalmente appropriati» (34).
Dante fa emergere e difende l’autonomia del potere temporale rispetto al potere spirituale, non in opposizione e in conflitto a esso, ma nell’ottica dell’amministrazione del temporale distaccata dagli influssi esercitati in tale ordine da parte dei pontefici. Per fondare tale teoria è necessario affermare che l’imperatore deriva il suo potere direttamente da Dio, senza alcuna mediazione da parte della Chiesa. Al principio dell’ordine della sapienza, dell’ordine temporale e dell’ordine teologico, vi è sempre la medesima fonte: Dio. Se ogni massima autorità all’interno del proprio ordine regna sovrana e indisturbata, non si verificherà alcun conflitto, ma si avrà semplicemente l’accettazione della volontà di Dio, che quindi genererà armonia. In particolare, la relazione fra Impero e Papato si risolve nella riverenza che l’imperatore, quale primo figlio della Chiesa, deve al Papa, ma tale riverenza non significa subordinazione al potere pontificio, ordinandosi invece al fine soprannaturale verso il quale il Papa guida l’umanità. Seguendo la famosa metafora dei due luminari, o «dei due soli» (35),Dante è sì disposto ad accettare che la luna irradi luce anche grazie al sole, ma allo stesso tempo ribadisce che, quanto a esistenza, la luna non deriva affatto dal sole: «l’intenzione di Dante è dunque chiara: egli vuole una autorità imperiale che derivi la sua esistenza direttamente da Dio, non dal papa; eserciti un potere la cui fonte sia in se stessa, non nell’autorità del papa; e sia infine capace di muoversi e di agire da se stessa, coi suoi stessi mezzi, in virtù della sua propria spontaneità, senza trarre dall’autorità pontificia il principio delle sue determinazioni. […] l’influenza esercitata dal papa sull’imperatore è coestensiva a quella di una benedizione, cioè a quella di una grazia» (36).
Nessun ordine può essere desunto dall’altro, ma ognuno regna nel proprio distinto ambito. Tutti gli uomini trovano una propria regola di comportamento nella sapienza di Aristotele, tutti sono, allo stesso tempo, figli spirituali del Pontefice e subordinati all’imperatore nell’ordine temporale. Ciò significa che «come il papa non ha nessuno sopra di lui in quanto papa, l’imperatore non ha nessuno sopra di lui in quanto imperatore, né l’uomo sapiente in quanto uomo. Nessuno, beninteso, in questo mondo. Dio, infatti, è il termine e l’autorità che regola, misura e giudica ogni sostanza e ogni relazione» (37).
Se tali devono essere i rapporti di distinzione fra gli ordini, Dante va alla ricerca di una giustificazione filosofica che risiede nella stessa struttura antropologica. Alla luce della filosofia e della Rivelazione cristiana, l’uomo è un composto di anima e di corpo, da cui deriva che vi sono due fini da raggiungere, con l’aiuto della grazia: uno temporale e uno soprannaturale. In tale cammino, l’uomo può contare sempre sull’aiuto della grazia divina. Seguendo, dunque, la dottrina di Tommaso d’Aquino, Dante sa perfettamente che la natura viene perfezionata e non annullata dalla grazia. Da ciò, però, Dante non deduce che la natura sia subordinata alla grazia. Ciò, da un punto di vista politico, segnerebbe la subordinazione del temporale allo spirituale e quindi dell’imperatore al Papa. Né, peraltro, il poeta avvalora la tesi opposta, secondo cui il Pontefice dev’essere subordinato all’imperatore. Per Dante la natura umana, diversamente ancora da san Tommaso, ha due finalità: una temporale e una soprannaturale. La beatitudine terrestre consiste nel seguire i bisogni dell’esistenza terrena, la cui guida indispensabile è la filosofia, che mostra le virtù naturali attraverso l’insegnamento dei filosofi. In quest’ordine tocca all’imperatore dirigere l’umanità verso il conseguimento della felicità temporale secondo quanto appreso dalla filosofia.
L’uomo, in quanto spirito, invece deve raggiungere la beatitudine celeste. Nel perseguirla avrà come riferimento la Rivelazione cristiana, attraverso cui apprende e può praticare le virtù teologali, che non può conoscere con la propria ragione. In quest’ordine l’umanità ha nel Papa l’unica guida, secondo quanto prescritto dalla stessa Rivelazione in vista del raggiungimento della felicità eterna. Secondo Dante, chiosa Gilson, «[…] giungeremo dunque al nostro fine ultimo naturale grazie agli insegnamenti dei filosofi, cioè regolando i nostri atti secondo la legge delle virtù intellettuali e morali. Giungeremo al nostro fine ultimo soprannaturale grazie agli insegnamenti spirituali che trascendono la ragione umana, purché obbediamo ad essi agendo secondo le virtù teologali» (38). Il Papa così conduce alla felicità eterna, mentre l’imperatore conduce alla felicità temporale. Fondando in tal modo la sua dottrina politica, Dante ne fa una garanzia dell’indipendenza dei due poteri, ma allo stesso tempo non concede alcuno spazio a una pur «fisiologica» opposizione fra essi, in quanto tutti permangono, nella distinzione reciproca, in una sorta di unità fondamentale retta da Dio stesso che attira a sé con Amore sovrano l’intera società umana attraverso fini distinti.
Da dove desume il sommo poeta una tale dottrina? Egli certamente non la può mutuare da Tommaso d’Aquino, la cui missione di teologo imponeva di subordinare il temporale allo spirituale non solo quanto a dignità, cosa su cui conviene anche Dante, ma pure quanto a giurisdizione. Se qualcuno vedesse una tesi alternativa alla subordinazione dell’Impero, Dante sarebbe acerrimo avversario di una tale dottrina. Tuttavia, egli non segue, secondo Gilson, né Averroè, né gli averroisti latini, e segnatamente neanche Sigieri di Brabante, principalmente per due ragioni, la prima delle quali è di carattere storico-filosofico. Infatti, in tali correnti medioevali non sono emerse, almeno fino ad oggi, trattazioni politiche.
Se Dante fosse un seguace dell’averroismo latino, il De Monarchia sarebbe il primo e l’unico esempio di una tale ipotetica dottrina averroista. Ma più profondamente, egli non può essere un seguace degli averroisti perché costoro assoggettano la religione alla filosofia, cosa dalla quale deriverebbe l’assoggettamento dello spirituale al temporale. Ma proprio su questo punto si mostrerebbe in disaccordo con tutto il suo vigore. Quindi, «gli averroisti separano gli ordini per opporli; san Tommaso distingue e subordina gli ordini per unirli; Dante separa gli ordini nella speranza di accordarli. La chiave di volta di Dante è certamente Dio, il Dio cristiano; il suo pensiero è dunque quello di un cristiano. E tuttavia il Dio cristiano di Dante è interessato a proteggere l’Impero dalla Chiesa, almeno quanto è interessato a proteggere la Chiesa dall’Impero» (39).
Da dove, allora, Dante trae ispirazione? Secondo Gilson questa dottrina politica, originale e controcorrente rispetto ai tempi, può essere ricondotta all’atteggiamento del poeta e alla sua immensa stima nei confronti dell’Aristotele moralista. «Se si ammette la realtà di quest’influsso esercitato dall’Etica Nicomachea sulla formazione della filosofia politica di Dante, i suoi caratteri essenziali si spiegano facilmente» (40). Certo, Dante non ha letto la Politica di Aristotele, ma nell’Etica Nicomachea ha trovato una visione della vita attiva pienamente rispondente all’esistenza umana e in essa vi ha rinvenuto anche i mezzi — per nulla in contrasto con la Rivelazione cristiana, ma semmai chiarificati da essa quando si presentano oscuri — per poter realizzare una felicità terrena. La morale, del resto, per Dante è la base di una buona politica. Ciò lo ha indotto alla creazione dei tre ordini separati l’uno dall’altro: «il saggio è la misura dell’uomo, l’imperatore quella del cittadino, il papa quella del cristiano, e affinché ciascuno di essi possegga da solo le chiavi del proprio regno, deve riconoscere che ciascun altro è parallelamente solo a detenere le chiavi del suo» (41).
In quest’ottica, Gilson scrive: «il De Monarchia completa dunque il Convivio in maniera perfetta: ciascuna delle due opere risolve il problema determinato di cui tratta e offre gli addentellati che invitano a collegarla all’altra. Il mondo di Dante ci appare ormai come un sistema di rapporti d’autorità e d’obbedienza. La filosofia vi regna sulla ragione, ma la volontà dei filosofi deve obbedienza all’Imperatore e la loro fede deve sottomissione al Papa. L’imperatore regna, solo, sulle volontà, ma la sua ragione deve obbedire al Filosofo e la sua fede al Papa. Il Papa regna senza spartizioni sulle anime, ma la sua ragione deve obbedienza al Filosofo e la sua volontà all’Imperatore» (42). Rispetto alle sue fonti e alle autorità addotte allora si può affermare che «Dante è solidale con l’autorità che invoca solo nella misura in cui queste suggeriscono, preparano e confermano la sua dottrina sul modo migliore per assicurare la pace universale senza cui il genere umano non potrebbe raggiungere il suo fine» (43).
Per quanto originale, la visione politica di Dante poggia su due postulati che risultano, secondo Gilson, alquanto deboli. Il primo è la convinzione secondo cui sulla verità di una filosofia in maniera esclusiva si possa impiantare la realizzazione della società temporale. Ciò è problematico sia per il tempo in cui Dante visse, sia se proiettato nel nostro tempo. In relazione alla situazione storica in cui si trovava Dante, fa problema perché, se da un lato è vero che nel Medioevo Aristotele giunge ad essere riconosciuto come una autorità indiscussa in filosofia e quindi esempio magno di recta ratio, dall’altro lato è necessario chiedersi quale Aristotele fosse quello vero e autentico. Quello insegnato da Averroè? Quello di Avicenna (980-1037)? O quello di Sigieri di Brabante o di Tommaso d’Aquino? Se, invece, proiettiamo nell’attualità l’auspicio di Dante di una futura società temporale retta da un imperatore che si faccia ispirare dalla filosofia, vista la confusione che oggi regna fra le correnti filosofiche, questo compito non potrebbe mai essere assolto e neanche minimamente ipotizzabile. L’idea, se presa in assoluto, di poggiare la società temporale semplicemente su princìpi che nascano dalla ragione naturale, per Gilson, è erronea.
L’altro postulato, criticato dal filosofo francese, consiste proprio nel fulcro della giustificazione filosofica della dottrina politica di Dante, ossia nel riferimento ai due fini. Tommaso d’Aquino aveva parlato di un fine duplice, mentre Dante separa nettamente tale duplicità creando un fine temporale e un fine soprannaturale. Egli operava in questi termini per salvaguardare l’autonomia dell’Impero, ma rapportandolo alla dinamica di natura e grazia mostrava di misconoscere il ruolo della grazia nei confronti della natura. Essa, infatti, non la sostituisce, ma la feconda e l’aiuta a raggiungere i fini ad essa connessi. Come la ragione naturale illuminata dalla fede diventa ancora più «ragionevole», così lo Stato, chiosa Gilson, accettando la giurisdizione spirituale e religiosa della Chiesa, garantisce più felicità nell’ordine sociale e politico, vedendo meglio il proprio fine in connessione con la finalità unica e duplice al tempo stesso dell’uomo. Sicuramente in quest’ultima opzione Dante è molto segnato dalle vicissitudini del suo tempo che contrappongono le città italiane a Roma ed è toccato profondamente anche dalla propria esperienza politica. Ma al di là del dato storico resta sempre la grande questione che scaturisce dalla politica di Dante stesso e su cui i dibattiti non si sono mai spenti: può esistere un ordine temporale, qualsiasi forma giuridica esso abbia, che si possa sottomettere a Dio attraverso la giurisdizione della Chiesa, senza perdere altresì la sua autonomia, anzi addirittura venendone rafforzato? E in qual misura vi può essere un’unità politica dell’umanità senza che essa si basi sullo spirituale, non semplicemente in campo morale, ma anche in campo politico? Il dibattito sulla nozione di cristianità non può che muovere i propri passi anche a partire da questi quesiti.
5. La Divina Commedia come glorificazione dei tre ordini
Il culmine dell’opera del sommo poeta è certamente il poema sacro, ossia la Divina Commedia. Esso ci restituisce l’universo realistico e al tempo stesso simbolico di Dante. Solo entrando in questo universo possono essere comprese le scelte letterarie del poeta fiorentino e in definitiva anche l’intenzione saldamente etica che orienta la sua missione poetica. La filosofia, in sé e per sé, nella Divina Commedia è rappresentata da Sigieri di Brabante. Una tale scelta, a prima vista, può risultare veramente bizzarra, dal momento che Dante mette un filosofo storicamente condannato come eretico per le sue tesi della «doppia verità» e combattuto del resto storicamente anche dal principe dei teologi Tommaso d’Aquino. Su tale scelta sono state scritte molte pagine critiche, cercando a volte di «giustificare» Dante, come se non avesse conosciuto bene o la dottrina di Sigieri e dell’averroismo latino, peraltro polimorfico, o la portata della condanna delle tesi di Sigieri operata nel 1277dall’arcivescovo di Parigi, étienne Tempier (1210-1279); ciò per giustificare, in qualche modo, il tomismo autentico del sommo poeta. La verità — secondo quanto scrive Gilson — è che nella Divina Commedia «san Tommaso e la sua teologia vi occupano un posto d’onore […]. Egli, tuttavia, non è il solo teologo a comparire in essa, poiché san Bonaventura, per non parlare di San Bernardo, vi fa da pendant al Dottore domenicano. Dante ha dunque inserito la teologia tomista nella Divina Commedia, ma non si può dire che abbia inserito la Divina Commedia nella teologia tomista» e quest’ultima operazione sarebbe l’errore capitale dell’interpretazione di padre Mandonnet (44).
Lo storico della filosofia francese, invece, si pone in tutt’altra prospettiva, rivendicando la scelta assolutamente consapevole da parte di Dante di mettere quale rappresentante dell’ordine filosofico proprio Sigieri. Del resto, Gilson — da storico della filosofia medievale — si sente anche di assolvere lo stesso Sigieri dall’accusa di «doppia verità», cucita addosso dai suoi avversari teologi di Parigi, che hanno equivocato circa la rigida separazione fra l’ordine filosofico e l’ordine della fede che egli poneva, del resto optando per la Rivelazione e non per la filosofia aristotelica, quando quest’ultima fosse entrata in contraddizione con la fede stessa (45).
Ma la risposta al quesito sulla presenza di Sigieri in Paradiso non può essere trovata esclusivamente nelle maglie della storia, perché l’universo letterario di Dante si pone su un altro livello con il suo simbolismo, senza però per questo tradire la storia, ma utilizzandone l’aspetto che più ritiene di dover far entrare nella sua dinamica narrativa. È vero, infatti, che Sigieri fu condannato da mons. Tempier e che fu considerato un notevole avversario da parte di Tommaso d’Aquino, così come del resto Gioacchino da Fiore (1135-1202), anch’egli in Paradiso, fu considerato un avversario di san Bonaventura. Bisogna, allora, cercare di rintracciare il significato dei personaggi di Dante, a partire non tanto dalla storia degli eventi o delle leggende, ma dalla dominante culturale e morale con cui vengono presentati nel poema. Il san Tommaso storico sconfesserebbe sé stesso elogiando Sigieri di Brabante, mentre il san Bonaventura storico sconfesserebbe sé stesso nell’elogiare Gioacchino da Fiore, ma ciò si realizza nella Divina Commedia perché nell’ottica del simbolismo dantesco i primi rappresentano un’unità fondamentale che porta alla netta distinzione tra la filosofia e la teologia, mentre i secondi puntano a rimarcare il ruolo assolutamente spirituale della Chiesa. Dunque, per Gilson, «la realtà storica dei personaggi di Dante non ha il diritto di intervenire nella loro interpretazione se non in quanto è richiesta dalla funzione rappresentativa che Dante assegna loro e per la quale li ha scelti» (46). Possiamo dunque dire che a volte in Dante la stessa storia cede o obbedisce alle esigenze morali della sua poetica, come se l’allegoria venisse ribaltata: mentre tradizionalmente essa si serve di personaggi come se fossero astrazioni personificate, Dante fa diventare i personaggi storici incarnazioni di realtà spirituali che li oltrepassano (47).
Se l’universo dantesco, allora, prevede essenzialmente due ordini, lo spirituale e il temporale, e all’interno di quest’ultimo sussiste l’ordine della filosofia, certamente differente e autonomo rispetto a quello della politica, Dante assegna ogni personaggio alla giustizia di questi ordini e, dunque, sarà degno di salvezza colui che ha rispettato e rappresentato il proprio ruolo all’interno del proprio ambito, mentre sarà degno di condanna colui il quale ha tradito la giustizia invadendo un ordine non suo. Tale ragione ci fa comprendere, peraltro, il motivo per cui Dante «condanna» all’Inferno papi e porta in Purgatorio pagani, collocando eretici addirittura in Paradiso.
Se dunque la filosofia ha un ordine suo proprio e al suo interno l’autorità massima non è nient’altro che Aristotele, tale ordine in Paradiso deve essere rappresentato e «canonizzato» da un filosofo puro che si è dedicato alla filosofia aristotelica tenendola rigidamente separata dall’ordine teologico. Dal momento che Aristotele non può accedere al Paradiso in quanto pagano, l’unico rappresentante conosciuto da Dante per poter significare la glorificazione dell’ordine filosofico è proprio Sigieri di Brabante. Ecco le terzine che lo descrivono: «Questi onde a me ritorna il tuo riguardo, / è ’l lume d’uno spirito che ’n pensieri/ gravi a morir li parve venir tardo: // essa è la luce etterna di Sigieri, / che, leggendo nel vico de li strami, / sillogizzò invidiosi veri» (Paradiso,canto X, vv. 113-138). Per Dante è chiaro che Sigieri disse cose vere e per tali cose incorse nell’invidia e dovette soffrire. Dante, dunque, condivide la verità ultima che insegna Sigieri, ossia che la filosofia deve regnare all’interno del proprio ordine senza essere alterata né dalla teologia né dall’intromissione politica. Come è da condannare l’ingerenza del Sacerdozio nell’Impero e viceversa, così è da condannare l’ingerenza dello spirituale e del politico nella sapienza naturale, ossia nella filosofia. Ha senso, allora, che san Tommaso presenti accanto a sé la figura di Sigieri, secondo Gilson, anche per una dinamica interna alla stessa teologia tomistica. Infatti, «una teologia tomista non solo si può conciliare con una filosofia che deriva i suoi principi solo dalla ragione naturale, ma la esige, e poiché anche Dante la esige […] è con piena cognizione di causa che ha fatto pronunciare da Tommaso d’Aquino l’elogio del filosofo puro Sigieri di Brabante» (48).
Il ragionamento di Gilson si fa ancor più fondato se si guarda come a un solo blocco ai canti del Paradiso che vanno dal X al XIII. In essi, i due soli della teologia medioevale, Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio, il primo domenicano e il secondo francescano, lodano reciprocamente i fondatori dei rispettivi ordini monastici, san Francesco d’Assisi (1181/1182-1226) e san Domenico da Guzman (1170-1221). Entrambi si muovono anche nella denuncia delle difformità dei seguaci degli ordini mendicanti rispetto alla genuinità dello spirito dei fondatori, che viene unificata nella dedizione esclusiva di entrambi allo spirito: l’uno con la professione dell’assoluta povertà, l’altro con la missione della predicazione, senza dimenticare altresì che i domenicani sono chiamati alla povertà, così come i francescani sono chiamati anche alla predicazione della fede. Dio, allora, ha fatto sorgere gli ordini mendicanti proprio per ricordare alla Chiesa quale deve essere l’ordine suo proprio, ossia quello spirituale. Così facendo, Dante, nella Divina Commedia, chiarisce ancora una volta la sua ottica: quella di distinzione radicale fra il temporale e lo spirituale.
All’interno della stessa narrazione Dante pone anche la figura del re di Giuda Salomone (?-931 a.C.), esaltata da Tommaso per aver chiesto a Dio la sapienza per governare. Qui si enuclea, dunque, l’altro ordine, ossia quello temporale. Il re d’Israele non costruisce una propria sapienza, ma chiede quella che deve essere alla base dell’amministrazione della giustizia, secondo quanto la stessa Sacra Scrittura insegna: amate la giustizia, o voi giudici della terra (cfr. Sap. 1,1). L’ordine della politica trova la propria glorificazione con il saggio Salomone. Di conseguenza, alla luce del richiamo all’ordine proprio da parte degli ordini mendicanti rivolto alla stessa Chiesa e vista la specificità dell’ordine politico con l’attenzione speciale di Salomone alla sapienza, si intende meglio l’ordine della filosofia che troverà la sua beatitudine grazie alla figura di Sigieri, appunto quale rappresentante della purezza di tale ordine. Scrive Gilson: «così come ha chiesto ai frati di attenersi alla sapienza della fede, chiede ai re di accontentarsi, in fatto di sapienza, della prudenza regale di cui hanno bisogno per ben governare i loro popoli. Insomma, dopo aver chiesto che i frati lascino l’Impero all’Imperatore e si occupino di teologia, Dante invita l’Imperatore a lasciare la scienza ai dotti e accontentarsi della giustizia. Questa conclusione ci orienta già verso una determinata interpretazione della presenza di Sigieri di Brabante in Paradiso» (50).
Dante segue, dunque, un medesimo filo conduttore che gli permetterà di glorificare ciascun personaggio per ciò che più strettamente rappresenta: Tommaso per la teologia speculativa, Bonaventura per la teologia affettiva, Salomone quale re saggio e Sigieri come rappresentante della filosofia pura, ossia per una mera sapienza naturale che potremmo definire recta ratio. Sigieri non è altro che il simbolo di un filosofo che fece solo il filosofo. Egli non è tanto il rappresentante dell’averroismo latino quanto l’esempio principe della separazione tra la filosofia, quale regno della sapienza naturale, e la teologia, di qualsiasi specie essa sia, quale regno della sapienza soprannaturale. Per Dante una tale operazione è necessaria come garanzia dell’indipendenza dell’Impero nei confronti della Chiesa. Dunque, che la filosofia sia assolutamente indipendente dalla teologia è il significato ultimo legato alla figura di Sigieri di Brabante, che porta, altresì, la sua testimonianza di «martire» della filosofia pura (51). L’autonomia della sapienza naturale dalla teologia garantisce la separazione dell’Impero e della Chiesa. Dante è assolutamente insofferente del chierico che usurpa la sua missione dandosi alla vocazione propria dell’ordine temporale e dunque dell’Impero. Dante «in un dato ordine […] ha sempre per capo colui che governa in quest’ordine: Virgilio in poesia, Tolomeo (100-175) in astronomia, Aristotele in filosofia, san Domenico in teologia speculativa, san Francesco in teologia affettiva e san Bernardo in teologia mistica» (52).
Un tale universo si regge ritrovando la propria unità e origine in Dio, mantenendo tuttavia l’assoluta e radicale distinzione da questi istituita. La lealtà verso l’autorità costituita all’interno del proprio ordine è uno degli aspetti morali più ricorrenti dell’opera del poeta: «dopo che il Convivio ha restaurato nella sua pienezza l’autorità morale del Filosofo contro l’Imperatore, e la Monarchia ha restaurato nella sua pienezza l’autorità della politica dell’Imperatore contro i Papi, la Divina Commedia ricorda di nuovo i diritti e i doveri degli uni e degli altri, ma Dante in essa non si accontenta più, come nelle opere precedenti, di fondarli di diritto sulla nozione astratta di giustizia divina; con la magia della sua arte, ci fa vedere all’opera questa stessa Giustizia, custode eterna delle leggi del mondo che essa conserva quale l’ha creato» (53).
La Divina Commedia, dunque, appare come un poema la cui finalità è estetica e il cui oggetto è teologico, ossia i fini ultimi dell’uomo. La tensione che la pervade è intrinsecamente morale. È un richiamo continuo al rispetto della giustizia divina e la conseguente condanna delle ingiustizie che Dante stesso aveva subito personalmente a causa di un disordine dei rapporti fra l’ordine spirituale e quello temporale. In ragione di ciò, il poeta, pur non essendo il suo uno scritto politico, inserisce in esso tematiche politiche, trattate peraltro con una passione che sfocia in invettive e in uso di parole veementi per fustigare quei mali sociali che pervadono il suo tempo e che, mutatis mutandis, si possono ritrovare in ogni tempo.
6. Dante e il suo universo
Dante non è affatto un filosofo, ma è tra i pochi esempi di letterato medioevale che ha studiato approfonditamente la filosofia e ne ha dato una interpretazione certamente originale. La ragione naturale basta a sé stessa ed è garante della saggezza da cui l’ordine politico deve trarre il suo orientamento per realizzare le finalità terrene. Così ha voluto Dio stesso, subordinando la morale al filosofo per eccellenza, Aristotele. Dante è preoccupato non di professare una dottrina filosofica, ma di comprendere, in di un universo ordinato, quale sia il ruolo di ogni scienza e di ogni ordine.
Da questo punto di vista egli è come un giudice desideroso di donare alla filosofia i diritti suoi propri, separandola dalla subordinazione o dalla confusione con la teologia stessa e non accettando altresì di vedere la filosofia emergere a danno della Rivelazione cristiana e della teologia. In altri termini, possiamo affermare che Dante non è stato né tomista, né averroista. Egli, come si occupa di difendere l’Impero dall’usurpazione clericale, così si preoccupa di difendere l’autonomia della filosofia dalla teologia. Tale ordine risponde alla stessa giustizia divina e, dunque, non può essere visto come un laicismo ante litteram. Per Gilson la filosofia di Dante è «[…] quella di un cristiano e […] il laicismo di Dante, se di laicismo si tratta, è quello di un cristiano» (53). Vige sempre un’armonia di fondo, pur nella distinzione estrema degli ordini. Ciò detto, il problema principale del tempo, contro cui il poeta combatte è la confusione fra gli ordini e il tentativo di risucchiare il temporale nello spirituale. In questo senso, l’autonomia del temporale è imperniata sulla ragione naturale, che egli vede significata nella filosofia aristotelica, ragion per cui l’ordine della filosofia viene da lui rivendicato a partire dalla focalizzazione sul suo capo, ossia lo Stagirita. In questo ordine, sia il Papa sia l’imperatore sono soggetti alla ragione naturale e sarebbe un grave tradimento non rispettare tale gerarchia.
La filosofia rappresenta quella sapienza naturale che, contemplata e appresa dall’imperatore, rende solido l’ordine temporale, capace di perseguire autonomamente il proprio fine terreno. In definitiva, «l’opera di Dante non è un sistema ma l’espressione dialettica e lirica di tutte le sue lealtà» (54). Dante non è un filosofo e neanche un teologo, ma un poeta che grazie alla libertà consentitagli dalla sua arte è riuscito a far toccare concretamente la profondità delle verità speculative provenienti dalla filosofia e dalla teologia: «i poeti usano metafore perché gli uomini non amano solo che si spieghino loro le cose, ma anche che le si facciano loro vedere. Il sensibile può rappresentare l’intelligibile solo seguendo la propria natura e le proprie leggi: è questo il giusto punto di vista per capire la Divina Commedia, e persino la sua teologia. Il suo senso più profondo è tutt’uno con il potere della sua bellezza» (55).
Note:
1) Cfr. la versione online nel sito web <https://www.treccani.it/enciclopedia/etienne-gilson_%28Enciclopedia-Dantesca%29/>, consultato il 15-9-2021.
2) Cfr. Étienne Gilson, Dante e la filosofia, 1939, trad. it., con Editoriale di Costante Marabelli, Jaca Book, Milano 2021.
3) Cfr. Idem, Dante e Beatrice. Saggi danteschi, 1974, trad. it., Medusa Edizioni, Milano 2004.
4) Cfr. Idem, Le metamorfosi della città di Dio, 1959, trad. it., Cantagalli, Siena 2010.
5) Idem, Dante e la filosofia, cit. p. 10.
6) Cfr. Laurence Kennedy Shook O.P., Étienne Gilson, trad. it., introduzione di Inos Biffi, Jaca Book, Milano 1991.
7) É. Gilson, Dante e la filosofia, cit., p. 10.
8) Cfr. ibid., pp. 49-88.
9) Idem, Dante e Beatrice. Saggi danteschi, cit., p. 140.
10) Ibidem.
11) «… e vidi Orfeo, Tulïo e Lino e Seneca morale» (Inferno, canto IV, vv. 140-141).
12) É. Gilson, Dante e Beatrice. Saggi danteschi, cit., p. 143.
13) Ibid., p. 146.
14) Ibidem.
15) Cfr. Pierre Mandonnet, Dante le Théologien. Introduction à l’intelligence de la vie, des oeuvres et de l’art de Dante Alighieri, Desclée de Brouwer, Parigi 1935.
16) É. Gilson, Dante e la filosofia, cit., p. 70.
17) Ibid., p. 62.
18) Idem, Dante e Beatrice. Saggi danteschi, cit. p. 42.
19) Idem, Dante e la filosofia,cit., p. 72.
20) Idem, Dante e Beatrice. Saggi danteschi, cit., p. 38.
21) Idem, Dante e la filosofia, cit., p. 56.
22) Ibid., p. 78.
23) Ibid., p. 81.
24) Idem, Dante e Beatrice. Saggi danteschi, p. 46.
25) Idem, Dante e la filosofia, cit., p. 147.
26) Idem, Dante e Beatrice. Saggi danteschi, cit., p. 40
27) Idem, Dante e la filosofia, cit., p. 141.
28) Ibid., p. 111.
29) Ibid., p. 139.
30) Ibid., p. 145
31) Idem, Le metamorfosi della Città di Dio, cit., p. 181.
32) Idem, Dante e la filosofia, cit., p. 159.
33) Ibid., p. 165.
34) Idem, Le metamorfosi della Città di Dio, cit., p. 180.
35) D. Alighieri, De monarchia, III, 16.
36) É. Gilson, Dante e la filosofia, cit., p. 173.
37) Ibid., p. 175.
38) Ibid., p. 180.
39) Ibid., p. 279.
40) Ibid., p. 202.
41) Idem, Le metamorfosi della Città di Dio, cit., p. 179.
42) Idem, Dante e la filosofia, cit., p. 184.
43) Ibid., p. 159.
44) Cfr. P. Mandonnet, Dante théologien, in Revue des Jeunes. Organe de pensée catholique et française, d’information et d’action, anno XI, n. 10, 25-5-1921, pp. 369-395; Idem, Theologus Dantes, in Bulletin du Comité catholique franςais pour la célébration du VIᵉ centenaire de la mort de Dante, n. 5, gennaio 1922, pp. 395-527.
45) Alla questione storico-filosofica che riguarda Sigieri e alle vicende dell’interpretazione della sua dottrina, Gilson, attraverso uno studio puntuale dei testi dedica due saggi nell’opera Dante e la filosofia: L’averrosimo di Sigieri di Brabante (Appendice quarta, pp. 281-287) e Il tomismo di Sigieri di Brabante (Appendice quinta, pp. 289-297). Eccone una sintesi interpretativa: Sigieri «[…] non ha mai presentato come vera […] una sola conclusione filosofica opposta agli insegnamenti della fede; al contrario, in caso di conflitto, Sigieri ha regolarmente affermato che la verità sta dalla parte della fede; in questo senso, si può dire in effetti che per lui “la fede e la verità coincidono”. Ma Sigieri non ha mai detto nemmeno, parlando a suo nome, che quanto insegnato dalla filosofia sia falso, anche là dove essa contraddice la fede. […] Per Sigieri la ragione filosofica descrive la natura quale essa è, o quale essa sarebbe se non vi fosse un Dio la cui potenza soprannaturale ha sostituito alla natura un ordine reale che solo la Rivelazione ci fa conoscere. […] E tuttavia, razionalmente parlando, quel che la filosofia dice della natura è esattamente quello che la ragione naturale deve pensare parlando della natura, anche se che ciò che essa pensa contraddice la Rivelazione. Il fatto che la verità rivelata sia contro ciò che essa pensa, non lo autorizza a pensare altrimenti, perché come ragione naturale essa non può pensare altrimenti» (pp. 284-285).
46) Idem, Dante e la filosofia, cit., p. 243.
47) Alla questione del simbolismo nella Divina Commedia Gilson dedica l’Appendice seconda dell’opera Dante e la filosofia (Due famiglie di simboli danteschi, pp. 263-270). In essa emerge che mentre per gli animali e i riferimenti alla natura si può giungere a una interpretazione simbolica assodata, per quanto riguarda i personaggi bisogna utilizzare un altro metro interpretativo: partire, cioè, non dal senso che il critico consegna a una figura personale, ma da come Dante stesso considera e descrive tale figura. In altri termini, bisogna capire ciò che quel personaggio vuol significare nella coscienza di Dante. Solo successivamente si può accedere a una varietà di simboli che figurano nel poema, tutti ugualmente validi. A ciò si deve aggiungere che egli tratta i suoi personaggi morti con un estremo realismo, data la certezza nell’immortalità dell’anima che lo contraddistingue, così da poter aver un proficuo rapporto con loro. Beatrice è innanzitutto Beatrice, quale egli ha contemplato in vita e quale egli ora contempla, straordinariamente, come beata in cielo. In questo senso, ella può veramente intercedere, rimproverare e continuare ad esortare Dante perché si scuota dal proprio smarrimento e raggiunga il fine ultimo, ossia la salvezza eterna. La realtà di quanto Dante ci vuol comunicare sta semplicemente nel fatto reale che Beatrice è, nella Divina Commedia, una beata, che si muove da beata. Ogni tentativo di rappresentarla come la teologia, come la fede, come il lumen gloriae, come la vita cristiana, è destinato a non calzare adeguatamente con l’ottica di Dante: «non possiamo comprendere la Divina Commedia quale egli stesso la intendeva, a meno di trattare come finzione ciò che per lui era solo finzione, e come realtà ciò che egli ha concepito come realtà. Coloro che non condividono la fede di Dante non sono per questo dispensati dal leggere la sua opera come quella di un credente. Coloro che, pur condividendo la sua fede, non hanno quel sentimento della presenza reale dei morti che consentì a Dante di vivere in comunione spirituale con loro, non sono per questo autorizzati a trattare Virgilio e Catone [Marco Porcio (95-46 a.C.)], come se fossero stati per lui quello che possono essere per i suoi interpreti. Per evitare questo errore, si eviterà dunque, di cercare una etichetta che indichi cosa Beatrice simboleggi e di ridurla al nome che designa questo simbolo. Nell’opera di Dante che noi cerchiamo di comprendere, ella è qualcuno e non qualcosa: un essere che Dante presenta come una persona reale, il quale, poiché ha la vita, ne ha anche la complessità» (pp. 269-270).
48) Ibid., p. 248
49) Ibid., p. 233.
50) Ecco la ragione ultima interpretativa sulla questione di Sigieri in Paradiso per Gilson: «Da parte mia non riesco ad immaginare che una sola: il separatismo praticato da certi aristotelici. […] Dante glorifica Sigieri perché ne ignora la dottrina, ma è molto inverosimile; Dante lo fa lodare da san Tommaso per aver sofferto a causa delle stesse verità insegnate da san Tommaso, ma Sigieri non fu citato al tribunale dell’Inquisizione per queste dottrine, egli fu citato per altre dottrine; Dante fa lodare da san Tommaso un filosofo che ha aderito al tomismo, ma Dante stesso non ha aderito integralmente al tomismo, e ha celebrato Sigieri in un contesto […] che suggerisce che il suo separatismo potrebbe averlo interessato; Dante, infine, celebra Sigieri come rappresentante di questo separatismo, ma non ne accetta la filosofia, e lo fa lodare da uno dei suoi avversari, san Tommaso d’Aquino» (ibid., pp. 296-297).
51) Ibid., p. 255.
52) Ibid., p. 253.
53) Ibid., p. 274.
54) Ibid., p. 255.
55) Idem, Dante e Beatrice. Saggi danteschi, cit., p. 122.