Francesco Pappalardo, Cristianità n. 411 (2021)
Nel 1972 Giovanni Cantoni (1938-2020), fondatore di Alleanza Cattolica, presentava la seconda edizione italiana dell’opera del pensatore e uomo d’azione brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, facendola precedere da un saggio introduttivo su L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. In esso redigeva un bilancio «drammatico» degli ultimi duecento anni della storia nazionale italiana partendo da due ricorrenze significative, «il primo centenario della breccia di Porta Pia e il quarto centenario della vittoria di Lepanto» (1), che aprivano spiragli «[…] che consentono di scrutare il passato e il futuro e di determinare il presente di tutto un popolo» (2).
Con il fluire del tempo le date tornano ad intrecciarsi ma — così come la mancata elaborazione della ferita di Porta Pia e della successiva «riparazione» del 1929 continua a ostacolare un’interpretazione della storia condivisa da parte del mondo cattolico — anche l’anniversario della battaglia di Lepanto non ha suggerito riflessioni significative su un episodio glorioso e decisivo nella storia della Cristianità.
1. Sono trascorsi quattrocentocinquant’anni dal 7 ottobre 1571, la domenica fatale in cui l’Europa cristiana, superando le sue divisioni, riuscì a infliggere ai turchi ottomani una sconfitta catastrofica nelle acque antistanti la città greca di Lepanto (3).
Quasi nessuno oggi ricorda la condizione plurisecolare del mondo europeo, sintetizzata nel 1940 dallo storico francese Marc Bloch (1886-1944) con la formula «cittadella assediata o, per meglio dire, più che a metà invasa» (4), e ripresa nel 1957 dal pensatore e storico svizzero Gonzague de Reynold (1880-1970), che rievocava le diciotto «pressioni asiatiche» (5) contro il continente, ultima quella degli ottomani sulla Vienna asburgica nel 1683 (6).
Non è facile dunque comprendere, all’interno di questo quadro, le condizioni di vita nel «Mediterraneo assediato» (7), caratterizzate dalle continue scorrerie compiute da bande e pirati islamici — che saccheggiavano città e villaggi, distruggevano chiese e conventi, massacravano e riducevano in schiavitù le popolazioni cristiane — e dalla prolungata guerra contro gli ottomani che, a partire dal secolo XV, aveva vanificato gli effetti della riconquista cristiana del Mediterraneo nel periodo crociato (8).
Una svolta è segnata nel 1451 dall’ascesa al trono del giovane sultano Maometto II (1432-1481), il cui principale assillo era la conquista di Costantinopoli, capitale dell’impero romano d’Oriente: l’impresa viene portata a termine il 29 maggio 1453, dopo un furioso assedio nel quale perde la vita combattendo sugli spalti l’ultimo imperatore, Costantino XI Paleologo (1405-1453). Quindi il sultano tenta di invadere la Serbia ma viene fermato alle porte di Belgrado, grazie soprattutto all’iniziativa di Papa Callisto III (1455-1458), che invia a predicare la crociata il settantenne francescano san Giovanni da Capestrano (1386-1456), il quale riesce a raccogliere decine di migliaia di volontari. Lo scontro decisivo, vittorioso per l’esercito cristiano, è guidato dall’ungherese Giovanni Hunyadi (1407-1456) e avviene il 22 luglio 1456: la notizia arriva a Roma solo il 6 agosto. Il Papa istituisce, a ricordo, la festa della Trasfigurazione, a simboleggiare la letizia che trasfigurava l’Europa. Nella stessa occasione il Pontefice ordina la costruzione di una campana di mezzogiorno per chiamare i fedeli romani a pregare per i difensori della città. In molte località l’ordine arriverà dopo la notizia della vittoria e la campana di mezzogiorno si tramuterà in una commemorazione della vittoria.
Un altro irriducibile avversario di Maometto II sarà il condottiero e principe albanese Giorgio Castriota, detto dai turchi «Scanderbeg» (1405-1468), che per due decenni ferma l’avanzata islamica verso il cuore dell’Europa, combattendo ben venticinque battaglie. Alle persecuzioni seguite alla conquista turca — dopo la morte dell’eroe — si devono la fuga massiccia e l’insediamento delle comunità albanesi nell’Italia Meridionale.
Nel 1459 Papa Pio II (1458-1464) convoca a Mantova un concilio al quale invita tutti i principi cristiani e nel discorso inaugurale delinea lucidamente le loro colpe di fronte all’offensiva musulmana: «Per tenui motivi i cristiani prendono le armi e combattono sanguinose battaglie; contro i Turchi invece, che oltraggiano il nostro Dio, atterrano le nostre chiese e cercano sradicare il nome cristiano, nessuno vuol levare la mano» (9). Tutto inutile, così che nel 1480 gli ottomani conquistano quasi indisturbati la città di Otranto, in Puglia, dove l’intera città affronta il martirio per non rinnegare la fede (10). L’occupazione è soltanto temporanea e l’anno successivo un grande esercito costituito sotto l’egida di Papa Sisto IV (1471-1484) costringe gli occupanti ad abbandonare l’impresa. Vano sarà, nello stesso 1480, l’assedio posto dai turchi all’isola greca di Rodi, strenuamente difesa dal piccolo esercito di uno dei grandi ordini militari crociati, quello degli Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme, denominato poi di Rodi e, infine, di Malta.
Il sultano muore nel 1481 e i suoi successori rivolgono le proprie armate verso oriente, sconfiggendo l’impero persiano, al quale viene sottratta la città santa di Baghdad, e conquistando Gerusalemme nel 1516 e l’Egitto nel 1517. In quell’anno, deposto il califfo abbaside de Il Cairo, il sultano Selim I (1465-1520) si proclama successore di Maometto (570 ca.-632) alla guida politica e spirituale dell’islam e protettore dei luoghi santi di Medina e della Mecca.
Il sogno di abbattere la cristianità europea sembra avverarsi a partire dal 1520 con l’avvento al trono di Solimano I il Magnifico (1494-1566), che dà immediatamente inizio alle ostilità: prende Belgrado nel 1521, conquista Rodi l’anno seguente, annienta l’esercito ungherese nel 1526 a Mohács — dove muoiono il re di Ungheria e di Boemia Luigi II Jagellone (1506-1526), tutti i vescovi del Paese e l’intera nobiltà magiara — e nel 1529 assedia Vienna, che però è difesa valorosamente dalla guarnigione e dai propri abitanti.
Il conflitto si trasferisce, dunque, dalle pianure dell’Europa Centrale al Mediterraneo, dove la Reconquista cristiana della Penisola Iberica aveva favorito la nascita della potenza navale ispanica. L’imperatore Carlo V d’Asburgo (1500-1558) — anche re di Castiglia e d’Aragona — cerca di mantenere il controllo del mare e occupa nel 1535 La Goletta e Tunisi, basi dei pirati barbareschi dell’ammiraglio turco Khayr al-Din «Barbarossa», che flagellava da anni le coste italiane. Nel 1538 Papa Paolo III (1534-1549) riesce a riunire una Lega Santa, cui aderiscono l’imperatore, la Repubblica di Genova, la Repubblica di Venezia e i Cavalieri di Malta, ma Barbarossa sconfigge la flotta comandata dall’ammiraglio genovese Andrea Doria (1466-1560) presso Prevesa, nella Grecia nordoccidentale. Una grande sconfitta è subita anche da Carlo V, che cerca invano di espugnare Algeri, base dei pirati: «Ad Algeri si ebbe una sovrabbondanza di schiavi, tanto che il 1541 passò alla storia come l’anno in cui i cristiani venivano venduti per una cipolla a testa» (11). Nel 1560 fallisce disastrosamente pure la spedizione organizzata dal re Filippo II d’Asburgo (1527-1598) — figlio di Carlo V ed erede dei domìni spagnoli e italiani — per riconquistare la città di Tripoli, nell’Africa Settentrionale: «[…] i musulmani eressero una piramide con le ossa dei morti; la “fortezza dei teschi” vi si levava ancora nel XIX secolo» (12).
Da allora, e per circa trent’anni, gli ottomani saranno signori assoluti del Mediterraneo, anche a causa delle difficoltà del Sacro Romano Impero, assorbito al suo interno dal conflitto fra cattolici e protestanti e all’esterno dalle guerre contro il Regno di Francia. Morto Barbarossa, sorge nella sua scia una nuova generazione di corsari, il più pericoloso dei quali sarà il turco Turghut Reis «Dragut» (1485-1565), che opererà anche nell’Atlantico, ostacolando il traffico dei galeoni spagnoli con le Indie Occidentali. La drammaticità della situazione spinge Cosimo I de’ Medici (1519-1574) — duca di Firenze e poi granduca di Toscana — a fondare nel 1562 l’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano con l’obiettivo specifico di combattere i musulmani sul mare. Grazie all’attività navale — apprezzabile almeno fino al 1720 — dell’Ordine di Malta e dell’Ordine di Santo Stefano un pezzo della storia crociata sopravviverà per lungo tempo (13).
Nel 1565 Solimano assedia l’isola di Malta, che però resiste eroicamente agli ordini di Jean Parisot de la Valette (1495-1568), gran maestro dell’Ordine degli Ospitalieri, «grazie a una combinazione di zelo religioso, incrollabile volontà e fortuna» (14). Quando tutto sembrava perduto — «Malta puzzava di morte» (15) —, una forza di soccorso riesce a far vela da Messina e a sbarcarvi alla vigilia dell’8 settembre, festa di Maria. La vittoria decisiva ha luogo l’11, sulle rive della baia di San Paolo, il sito del naufragio dell’apostolo, luogo caro ai maltesi, costringendo i turchi alla ritirata il 12 settembre (16). Il mito della loro invincibilità è scosso ed essi non attaccheranno mai più l’isola, la cui caduta avrebbe messo a nudo il cuore dell’Europa cristiana.
2. Al sultano — morto nel 1566 durante l’ennesima spedizione militare in Ungheria — succede il figlio Selim II (1524-1574) che, nonostante la cocente sconfitta subita dal padre a Malta, dov’era scomparso il fior fiore dell’armata ottomana, decide di riprendere l’offensiva. Una grande flotta dà l’assalto all’isola di Cipro, approfittando delle difficoltà della Repubblica di San Marco e del fatto che l’attenzione di Filippo II è divisa fra numerose priorità in contrasto fra loro: la conquista e l’evangelizzazione del Nuovo Mondo, la difesa degli avamposti sulle coste nordafricane, un’insurrezione dei musulmani nella Penisola Iberica, la rivalità con il Regno di Francia e la rivolta protestante nei Paesi Bassi, che impegnava le sue truppe migliori.
Da qui per le potenze cristiane la necessità di superare la politica, ormai insufficiente, dei piccoli e occasionali interventi e di realizzare una vera e propria alleanza, obiettivo cui si dedica con grande passione il nuovo Pontefice, il domenicano san Pio V (1566-1572), fedele allo spirito di crociata e consapevole della minaccia turca. Nonostante gli sforzi del Regno di Francia, volti a dissuadere la Repubblica di Venezia per non avvantaggiare i propri rivali, e nonostante le perplessità di Filippo II a impegnarsi nel Mediterraneo orientale, il Papa riesce a costituire nel maggio del 1571 un’alleanza denominata Lega Santa, cui prendono parte l’Impero spagnolo — con il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia —, i Cavalieri di Malta e tutti i principati e le repubbliche italiani: le repubbliche di Genova e di Venezia, lo Stato Pontificio, il Granducato di Toscana, il Ducato d’Urbino, il Ducato di Parma, la Repubblica di Lucca, il Ducato di Ferrara, il Ducato di Mantova e il Ducato di Savoia.
La costituzione della Lega non riesce a salvare i difensori di Cipro. La caduta della capitale Nicosia è accompagnata da stragi e saccheggi: «I soldati ammazzavano i lattanti, le donne che resistevano alla violenza, le vecchie che nessuno avrebbe voluto comprare, i prigionieri che cercavano di scappare» (17). La resa di Famagosta viene seguita da una violazione dei patti di capitolazione e dalla brutale esecuzione dell’eroico comandante Marcantonio Bragadin (1523-1571), torturato e scuoiato vivo dopo essersi arreso; sono giustiziati anche tutti gli ufficiali e 350 fra militari e civili italiani, greci e albanesi: «si trattò di un’enormità senza precedenti, contraria a tutte le regole e disastrosa dal punto di vista dell’immagine» (18). La conquista delle due città, inoltre, determina l’annientamento della nobiltà e del clero cattolico dell’isola.
Nel frattempo, sotto l’egida della Lega Santa viene allestita una grande flotta, affidata a don Giovanni d’Austria (1547-1578), venticinquenne figlio naturale di Carlo V e fratellastro di Filippo II, già messosi in luce contro i pirati barbareschi e poi alla testa delle forze spagnole contro la rivolta dei musulmani di Granada, i cosiddetti moriscos (19). Al suo fianco figureranno numerosi ammiragli e comandanti italiani, dal settantacinquenne veneziano Sebastiano Venier (1496-1578) al genovese Gianandrea Doria (1539-1606) e al romano Marcantonio Colonna (1535-1584). È italiana anche la maggior parte delle navi e degli equipaggi, dato che la componente spagnola della flotta è formata soprattutto da galee napoletane o siciliane. «Dei 371 vascelli, dei 76.000 uomini, e di tutta la flotta cristiana solo 14 galee e 2 tercios (reggimenti di circa 5.000 uomini) vennero dalla Spagna, e di essi 6.000 erano tedeschi. Gli altri 2 tercios spagnoli erano formati da Siciliani e da “bellicosi fanti calabresi”. Dalla Venezia, dalla Dalmazia, dalla Savoia, da Nizza, dal Piemonte, dalla Liguria, dalla Sardegna, dalla Sicilia, dalla Calabria e da Malta, l’Italia diede suoi figli alla Lega cristiana» (20).
L’organizzazione dell’impresa è particolarmente complessa, considerando anche le caratteristiche di una conduzione non statale della guerra, terrestre e marittima, proprie di un’epoca in cui la forza non era monopolio dei sovrani. Spesso il comando delle navi era dato in appalto a chi era in grado di assoldare una ciurma, mentre la fanteria, con un minuzioso capitolato d’appalto, veniva reclutata affidando l’incarico a un militare stimato per il nome e per la professione (21).
Nell’Europa cristiana e, in generale, nel mondo di allora, infatti, non vi era la coscrizione obbligatoria. Nel 1570 la decisione delle autorità veneziane d’imbarcare sulle galee anche dei forzati aveva suscitato vibrate proteste, non solo perché si correva il rischio di squalificare il servizio al remo, scoraggiando l’imbarco dei volontari su cui si era sempre basata la flotta, ma anche per una diffusa ripugnanza morale. Pure Filippo II si era interrogato su come sopperire alla mancanza di rematori — era un mestiere con alto tasso di mortalità — e aveva resistito alla tentazione di mettere al remo i moriscos. Papa san Pio V, che in quel frangente aveva chiesto ai suoi baroni d’imporre eccezionalmente la coscrizione nei loro feudi, reclutando un uomo ogni venticinque famiglie, «[…] poi si sentì rimordere la coscienza» (22).
«Non che il santo zelo mancasse: in tutta la Spagna, e soprattutto nei porti del Sud, si parlava della grande impresa contro il nemico della fede» (23). «Homini da spada» e gentiluomini sarebbero giunti anche da tutta la Penisola Italiana, dove l’aristocrazia continuava a praticare il mestiere delle armi (24).
La decisione di costituire una flotta congiunta avrà rapida attuazione, nonostante la difficoltà di radunare e concentrare una forza ingente e di provvedere ai rifornimenti, tanto più difficili in quanto il raccolto del 1570 era stato cattivo in molti Paesi; e nonostante le epidemie e lo stillicidio di incidenti e di naufragi che perseguiteranno la flotta nei mesi precedenti la battaglia: «riuscire a coordinare i movimenti di un’ottantina di galere appartenenti a quattro amministrazioni diverse, e a caricare in diversi porti nove reggimenti reclutati fra Spagna, Italia e Germania, facendo alla fine convergere tutti quanti a Messina, non era affatto un’impresa da poco; e va a onore dei burocrati di Filippo II il fatto che pur fra tanti ritardi alla fine ci stessero riuscendo» (25).
In un’epoca in cui ancora non erano stati elaborati i concetti di battaglia decisiva e di dominio del mare, don Giovanni, contrastando l’atteggiamento prudente dei suoi ammiragli, decide di andare a cercare la flotta ottomana per annientarla. Il comandante turco Müezzinzade Alì Pascià (?-1571), che pure non si aspettava una battaglia di così grandi proporzioni, decide di non sottrarsi al combattimento, nel quale però troverà la sconfitta e la morte.
Quando le galere salpano da Messina per affrontare la flotta ottomana, sono benedette dal legato papale mons. Paolo Odescalchi (1525-1585) con una cerimonia che commosse gli equipaggi; e, quando vennero avvistate le navi turche, non solo i cappellani imbarcati — francescani sulle navi veneziane, cappuccini sulle galeee pontificie, cappuccini e gesuiti sulle navi ispaniche —, ma anche gli ufficiali mostrarono il Crocifisso ai loro uomini, «[…] persuadendoli che sotto la sua protezione sarebbero stati al sicuro. Don Juan [Giovanni], tornato a bordo della Real, esortò gli uomini a battersi bene e poi s’inginocchiò a pregare, e così fecero tutti, mentre i sacerdoti confessavano e assolvevano la folla in ginocchio. […] Al suono delle trombe e dei tamburi, soldati e marinai cominciarono a gridare “vittoria e viva Jesu Cristo”» (26).
Sulla nave ammiraglia viene issato lo stendardo — di damasco turchese con un Cristo crocifisso che sormontava i simboli delle forze coalizzate — benedetto da san Pio V e consegnato a don Giovanni nella basilica di Santa Chiara a Napoli. Invece, il vessillo della flotta pontificia, con sfondo rosso e bordatura in oro, era stato dato personalmente dal Pontefice a Marcantonio Colonna nella basilica dei Santi Apostoli a Roma: raffigurava Gesù crocifisso fra san Pietro e san Paolo e recava, ricamate, le parole«In hoc signo vinces». Donato dall’ammiraglio Colonna alla cattedrale di Gaeta, è oggi conservato nel Museo diocesano di quella città (27).
Partecipano allo scontro circa centocinquantamila uomini fra soldati, rematori e marinai, per un totale di circa cinquecento navi, buona parte di tutte le galee a remi del Mediterraneo. Innumerevoli gli episodi degni di essere raccontati: don Giovanni d’Austria, piantato sulla poppa della nave ammiraglia, «davanti allo stendardo con il Cristo crocifisso, con la sua armatura rilucente e la spada in pugno, sordo alle preghiere di ritirarsi nella sua cabina, […] tremendamente visibile» (28); l’ammiraglio Venier che lancia dardi con la sua balestra «con la stessa rapidità con cui il suo aiutante ricaricava» (29); il giovane Alessandro Farnese, duca di Parma e Piacenza (1545-1592), che abborda da solo una galea nemica «e sopravvisse per dirlo» (30); la galea dell’Ordine di Malta nella quale soltanto il comandante fu ritrovato in vita. In sole quattro ore muoiono più di quarantamila uomini, più di cento navi vengono distrutte e sono liberati dodicimila schiavi cristiani. Sarà lo scrittore castigliano Miguel de Cervantes (1547-1616), «[…] colpito al petto da due archibugiate e mutilato della mano sinistra, a sintetizzare lo stato d’animo cristiano. “La giornata più avventurosa che abbiano avuto le armi cristiane”» (31).
La notizia del trionfo giungerà a Roma dopo alcune settimane, ma il giorno stesso della battaglia san Pio V — testimoni tutti i suoi collaboratori — ha in visione l’annuncio della vittoria e ne dà comunicazione ai presenti, attribuendo la disfatta degli ottomani all’intercessione della Vergine Maria (32). Consapevole dell’importanza avuta dalla preghiera del Rosario — recitato pubblicamente nelle settimane precedenti in tutta la Penisola e, il giorno prima della battaglia, dall’intero esercito cristiano, sull’esempio dei suoi comandanti —, il Pontefice istituirà in segno di ringraziamento la festa di Nostra Signora della Vittoria, denominata poi Nostra Signora del Rosario dal successore Gregorio XIII (1572-1585) (33).
Il Senato veneziano, dal canto suo, celebra la vittoria con le parole: «Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii victores nos fecit», «Non il valore, non le armi, non i condottieri, ma la Madonna del Rosario ci ha fatto vincitori» (34). Di ritorno dalla battaglia il comandante della flotta pontificia, il principe Colonna — barone romano e, per privilegio familiare, patrizio veneziano, nonché feudatario del Regno di Napoli e poi viceré di Sicilia —, appena sbarcato a Porto Recanati, si reca a ringraziare la Madonna di Loreto, accompagnato da molti dei dodicimila galeotti cristiani liberati, che consegnarono al santuario «[…] le catene della schiavitù, dalle quali vennero ricavate le cancellate in ferro battuto che oggi cingono le cappelle interne» (35) e i quattro cancelli della Santa Casa. Le prime sono state poi rimosse per sopraggiunte esigenze estetiche, ma i cancelli sono ancora lì, testimoni trascurati di una grande epopea.
3. L’uomo politico greco Georgios Athanasiadis-Novas (1893-1987), originario di Lepanto, ha definito l’impresa della Lega Santa come «la sola [crociata] che si sia svolta solamente in mare, la sola senza fini di conquista, la sola che abbia conservato intatta la santità della difesa, l’ultima che come insegna non ebbe colori nazionali o emblemi reali, ma il vessillo di Cristo in croce» (36).
Il trionfo di Lepanto non va misurato in terre conquistate ma nel suo enorme impatto emotivo, grazie anche a un profluvio di relazioni, memorie, orazioni, poesie e incisioni diffuse immediatamente in ogni angolo d’Europa. Confrontando questo smisurato effetto propagandistico con il lavoro «consolatorio» dei cronisti turchi, «ci si rende conto che sotto il profilo dell’informazione e dell’opinione pubblica, assai più che per la qualità degli archibugi e dei cannoni, l’impero ottomano soffriva già, nei confronti dell’occidente, di quel ritardo che un giorno lo avrebbe perduto» (37). Va dunque considerato — come osservò a suo tempo lo storico francese Fernand Braudel (1902-1985) — che, guardando alla situazione precedente la battaglia, la vittoria è stata decisiva. «Ma se, anziché badare soltanto a ciò che seguì a Lepanto, si pensasse alla situazione precedente, la vittoria apparirebbe come la fine di una miseria, la fine di un reale complesso d’inferiorità della Cristianità, la fine di un’altrettanto reale supremazia turca. La vittoria cristiana sbarrò la strada a un avvenire che si annunziava molto oscuro […]. Prima di far dell’ironia su Lepanto, seguendo le orme di Voltaire [pseudonimo di François-Marie Arouet;1694-1778], è forse ragionevole considerare il significato immediato della vittoria. Esso fu enorme» (38).
Dopo Lepanto la spinta turca perse vigore, senza ovviamente che la minaccia scomparisse, e ancora fino al secolo XVIII le coste meridionali d’Italia furono esposte al pericolo d’incursioni dei pirati saraceni, ma se il Mediterraneo non divenne un «lago turco» è stato merito di Lepanto.
Il vero miracolo non fu rappresentato dall’ampiezza della vittoria ma piuttosto dall’inattesa conclusione di un’alleanza, frutto non di interessi politici convergenti ma di scelte coraggiose e responsabili di alcuni principi, uomini politici e militari cristiani, nonché della persistenza dello spirito di crociata, ancora notevole anche a livello popolare. Il merito principale della grande impresa fu di don Giovanni d’Austria, che credette fin dall’inizio alla possibilità di vincere, e soprattutto di Papa san Pio V, il più entusiastico sostenitore della Lega Santa, animatore della resistenza anti-ottomana, come lo era stato il francescano san Giovanni da Capestrano a Belgrado, nel 1456, e come lo sarebbero stati i frati cappuccini san Lorenzo da Brindisi (1559-1619) nella battaglia di Albareale, in Ungheria, nel 1601, e il beato Marco d’Aviano (1631-1699) a Vienna, nel 1683.
«Questo è dunque il senso […] della battaglia e della vittoria di Lepanto: contro gli infedeli di allora si costituì e vinse la Lega Santa per la difesa della fede; contro gli infedeli e gli apostati di oggi, fedeli e apostoli soltanto possono operare come strumenti di Dio per la restaurazione della Cristianità» (39).
Note:
(1) Giovanni Cantoni, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, saggio introduttivoa Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, trad. it., Cristianità, Piacenza 1977, pp. 7-50 (p. 7).
(2) Ibid., p. 8.
(3) Per una prima descrizione dell’evento, che ne riassume la storia e lo inquadra nella situazione europea di quegli anni, cfr. Marco Tangheroni (1946-2004), La battaglia di Lepanto, in Cristianità, anno IX, n. 80, dicembre 1981, pp. 7-10. Sull’episodio militare, sul contesto politico e religioso, sulle sue conseguenze immediate e di lunga durata, sono state pubblicate moltissime opere: cfr., in ultimo, una ricostruzione dettagliata in Alessandro Barbero, Lepanto. La battaglia dei tre imperi, Laterza, Roma-Bari 2010.
(4) Marc Bloch, La società feudale, 1939, trad. it., Einaudi, Torino 1987, p. 15.
(5) Cfr. Gonzague de Reynold, La «cittadella assediata»: le pressioni asiatiche sull’Europa, in Cristianità, anno XXVII, nn. 292-293, agosto-settembre 1999, pp. 13-19.
(6) Sul conflitto con l’islam, cfr., fra l’altro, Alberto Leoni, La croce e la mezzaluna. Le guerre tra le nazioni cristiane e l’Islàm. Una storia militare dalle conquiste arabe del VII secolo ai giorni nostri, Ares, Milano 2002.
(7) Cfr. Rossella Cancila, Il Mediterraneo assediato, Introduzione a Idem (a cura di), Mediterraneo in armi (secc. XV-XVIII), Quaderni di Mediterranea. Ricerche Storiche, n. 4, 2 tomi, Associazione Mediterranea, Palermo 2007, tomo I, pp. 7-66.
(8) Cfr. M. Tangheroni, La riconquista cristiana del Mediterraneo nei secoli XI e XII, in IDIS. Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, Voci per un «Dizionario del Pensiero Forte», a cura di G. Cantoni, con una presentazione di Gennaro Malgieri, Cristianità, Piacenza 1997, pp. 197-202; e, più ampiamente, Idem, La riconquista cristiana del mediterraneo occidentale, in Luis García-Guijarro Ramos (a cura di), La Primera Cruzada novecientos años después: El Concilio de Clermont y los orígenes del movimiento cruzado, Castellón, Madrid 1997, pp. 91-108.
(9) Ludwig von Pastor (1854-1928), Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, 1886-1933, trad. it., 17 voll. in 22 tomi, Desclée, Roma 1925, vol. II, p. 60.
(10) Cfr. Alfredo Mantovano, Gli Ottocento Martiri di Otranto, in Cristianità, anno VIII, n. 61, maggio 1980, pp. 14-19, e Otranto: il martirio (1480) e la canonizzazione (2013), ibid., anno XLI, n. 368, aprile-giugno 2013, pp. 23-32.
(11) Roger Crowley, Imperi del mare. Dall’assedio di Malta alla battaglia di Lepanto, trad. it., Bruno Mondadori, Milano 2009, p. 69.
(12) Ibid., p. 85.
(13) Cfr. Istituzione dei cavalieri di S. Stefano, L’Ordine di Santo Stefano e il mare, Atti dell’omonimo convegno (Pisa, 11-12 maggio 2001), Edizioni ETS, Pisa 2001.
(14) R. Crowley, op. cit.,p. 186.
(15) Ibidem.
(16) Le date dell’11 e del 12 settembre ricorrono più volte nella secolare contesa fra l’islam e la Cristianità. La battaglia di Vienna, che poneva fine a due mesi di assedio turco grazie alla vittoria dell’esercito cristiano guidato dal re polacco Jan Sobieski (1629-1696), ebbe inizio l’11 settembre 1683 e si concluse il giorno seguente. Papa Innocenzo XI (1676-1689), in segno di ringraziamento, estese a tutta la Chiesa la festa del Santissimo Nome di Maria. Anche la battaglia di Zenta, combattuta e vinta in Serbia nel 1697 dal principe Eugenio di Savoia (1663-1736) — nell’ambito della guerra austro-turca del 1683-1699, che «senza grande esagerazione […] può essere definita l’ultima crociata» (John Stoye (1917-2016), L’assedio di Vienna, 2000, trad. it., il Mulino, Bologna 2009, p. 257) — ebbe luogo l’11 settembre. Forse quella data ha una densità simbolica che ci era sfuggita e che solo molti anni dopo è stata pienamente e tragicamente percepita (di questa interpretazione sono debitore delle riflessioni di Guido Verna).
(17) A. Barbero, op. cit., p. 266.
(18) Ibid., p. 469.
(19) Cfr. la biografia, romanzata ma storicamente fedele, dello scrittore ungherese naturalizzato britannico Louis de Wohl (1903-1961), L’ultimo crociato. Il ragazzo che vinse a Lepanto, 1956, trad. it., Rizzoli, Milano 2010.
(20) Niccolò Rodolico (1873-1969), Storia degli italiani. Dall’Italia del Mille all’Italia del Piave, Sansoni, Firenze 1964, p. 319.
(21) Significativo il caso dell’esercito organizzato dal condottiero cattolico tedesco, di origine boema e protestante, Albrecht Wenzel Eusebius von Wallenstein (1583-1634), «l’impresa privata più grande e meglio organizzata mai vista in Europa prima del XX secolo» (Victor Gordon Kiernan [1913-2009], Il «militare» tra tardo medioevo e prima età moderna, 1957, trad. it., in Trevor Aston [1925-1985] (a cura di), Crisi in Europa (1560-1660),Giannini, Napoli 1968, pp. 163-194 [p. 184]).
(22) A. Barbero, op. cit., p. 198.
(23) Ibid., p. 432.
(24) Cfr. lo studio dello storico canadese Gregory Hanlon, The twilight of a military tradition. Italian Aristocrats and European Conflicts, 1560-1800, Holmes & Meier, New York 1998, e la mia recensione «Il declino di una tradizione militare. Aristocratici italiani e guerre europee. 1560-1800», in Cristianità, anno XXX, n. 310, marzo-aprile 2002, pp. 11-19.
(25) A. Barbero, op. cit., p. 439.
(26) Ibid., p. 540.
(27) Cfr. su entrambi Massimo Moretti, Il «vessillo di Sua Santità». Lo stendardo di Lepanto nell’iconografia e nella letteratura, in Mario D’Onofrio e Manuela Gianandrea (a cura di), Gaeta medievale e la sua cattedrale, Campisano, Roma 2018, pp. 483-500, che fa riferimento anche a «uno stendardo con le bande catalane, riportato dal cosiddetto “Tercio viejo de Cerdeña”» e riposto nella sagrestia della chiesa di San Domenico a Cagliari, e al «vessillo già inalberato nella “Piemontesa” sabauda (un sole con al centro la Vergine che presenta la sindone sostenuta dagli angeli)» (p. 498), conservato nella chiesa di San Domenico a Torino. Invece, lo stendardo della nave di Alì Pascià, con altri drappi strappati alle navi turche, è esposto nella chiesa di Santo Stefano dei Cavalieri, a Pisa.
(28) R. Crowley, op. cit., p. 273.
(29) Ibid., p. 276.
(30) Ibid., p. 279.
(31) Ibid., p. 281.
(32) «In proposito si narra che il Pontefice apprese per divina visione la vittoria di Lepanto nello stesso momento in cui avveniva, e mentre in tutto il mondo cattolico le pie confraternite invocavano Maria con la preghiera del santissimo Rosario» (Benedetto XV [1914-1922], Lettera enciclica «Fausto appetente die» in occasione del VII centenario della morte di san Domenico di Guzmán, del 29-6-1921). Cfr. anche card. Giorgio Grente (1872-1959), Il pontefice delle grandi battaglie. San Pio V, Paoline, Roma 1957, pp. 166-168.
(33) «Grazie alla recita fervorosa del Rosario, si possono ottenere grazie straordinarie per l’intercessione della celeste Madre del Signore. Di questo era ben persuaso san Pio V che, dopo la vittoria di Lepanto, volle istituire un’apposita festa della Madonna del Rosario» (Giovanni Paolo II (1978-2005), Messaggio in occasione delle celebrazioni giubilari promosse per il V centenario della nascita di san Pio V, del 1°-5-2004, che reca anche una breve ma esauriente biografia del Pontefice).
(34) Giovanni Tommaso Ghilardi (1800-1873), Sull’importanza della vittoria di Lepanto. Pastorale di Monsignor Giovanni Tommaso Ghilardi de’ Predicatori, Vescovo di Mondovì, Presso G. Bianco Tipografo Vescovile. Mondovì (Cuneo) 1871, p. 4. Sul Rosario e Lepanto, cfr., altresì, Donald H. Calloway M.I.C., Campioni del rosario. Eroi e storia di un’arma spirituale, trad. it., a cura di Elisabetta Sala e Maurizio Brunetti, D’Ettoris, Crotone 2018, pp. 85-112.
(35) A. Leoni, op. cit., p. 227.
(36) Giorgio Athanasiadis-Novas, Discorso introduttivo a Gino Benzoni (a cura di), Il Mediterraneo nella seconda metà del ’500 alla luce di Lepanto, Atti del convegno di studi promosso e organizzato dalla Fondazione Giorgio Cini (Venezia, 8/10-10-1971), Olschki, Firenze 1974, pp. 1-18 (p. 1).
(37) A. Barbero, op. cit., p. 619. Fra le celebrazioni non coeve, cfr. Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), Lepanto, 1911, trad. it., in Il Covile, anno XII, n. 710, 30-7-2012, nel sito web <https://www.ilcovile.it/scritti/COVILE_710_Caroselli_Lepanto.pdf> (gli indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 22-10-2021). Molto ricca anche l’iconografia su Pio V e la battaglia di Lepanto: cfr. Angelico Iszak O.P. (1919-1985) e Antonino Silli O.P., voce Pio V, papa, santo, in Bibliotheca Sanctorum, 17 voll., Istituto Giovanni XXIII della Pontificia Università Lateranense-Città Nuova, Roma 1968, vol. X, coll. 883-901, reperibile nel sito web <https://www.sanpiov.it/index.php?option=com_content&view=article&id=30&Itemid=118>.
(38) Fernand Braudel, Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, 1982, trad. it., 2 voll., Einaudi, Torino 2007, vol. II, p. 1182.
(39) G. Cantoni, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, cit.,p. 41.