Giovanni Codevilla, Cristianità n. 412 (2021)
Ivan Sergeevič Šmelëv (1873-1950) nasce in una famiglia di veteroritualisti, o «vecchi credenti» — un movimento scaturito dalla reazione ad alcune riforme liturgiche introdotte dalla Chiesa ortodossa russa nella seconda metà del XVII secolo — e da loro apprende la vivacità e la ricchezza del linguaggio popolare. In giovane età esordisce con i primi testi, nei quali è presente il tema della spiritualità, a partire da Sulle rive rocciose di Valaam, scritto nel 1897 dopo una visita al monastero del lago Ladoga. Il riconoscimento del suo talento letterario avverrà di lì a qualche anno dopo l’uscita di altre opere, fra le quali L’uomo del ristorante: lo scrittore russo Maksim Gor’kij (1868-1936), in una lettera del 1910, gli esprime la sua affettuosa stima scrivendogli: «Nei Vostri racconti […] si avverte una sana inquietudine, capace di emozionare positivamente il lettore e la Vostra lingua è ricca di “parole proprie”, semplici e belle, mentre dappertutto risuona la nostra preziosa, russa, giovanile insoddisfazione per la vita com’è». Questo giudizio oltremodo positivo, condiviso dallo scrittore ucraino Vladimir Galaktionovič Korolenko (1853-1921), nonché dallo scrittore e poeta russo Ivan Alekseevič Bunin (1870-1953), al quale resterà legato da una solida amicizia, verrà poi ribadito in tempi a noi più vicini da Aleksandr Isaevič Solženicyn (1918-2008) e da preclari autori occidentali, come il premio Nobel tedesco Thomas Mann (1875-1855).
Nel 1917 Šmelëv saluta con entusiasmo la Rivoluzione di Febbraio, ma avversa quasi subito quella di Ottobre, della quale intuisce le propensioni totalitarie e sanguinarie. Per sfuggire alla guerra civile si trasferisce, come molti altri intellettuali, in Crimea, con moglie e figlio, nell’amena località di villeggiatura di Alušta, dove assiste agli eccidi e ai saccheggi perpetrati dai bolscevichi anche dopo la fine della guerra civile (1921). L’amatissimo figlio Sergej — che, rientrato malato di tisi dalla Prima Guerra Mondiale e cooptato dalle forze antibolsceviche in Crimea, dopo la sconfitta di queste aveva creduto a una falsa «amnistia» dei bolscevichi — finisce proditoriamente assassinato. A questo punto Šmelëv, inutilmente adoperatosi per salvare il figlio, accetta l’invito di Bunin dalla Francia e nel 1923 emigra con la moglie a Berlino per trasferirsi poi a Parigi. Qui e in altre località della Francia scriverà per oltre venticinque anni, spesso in condizioni di ristrettezze anche estreme, alcuni libri importanti, subito amati negli ambienti dell’emigrazione russa, e oggi, ormai da trent’anni, rivalutati nella Russia postsovietica.
La sua produzione letteraria è assai vasta: nel 1923 scrive Il sole dei morti, tradotto in diverse lingue e anche in italiano nel 1937, la cui pubblicazione viene però bloccata dall’editore. A questo capolavoro, candidato per l’assegnazione del premio Nobel, fanno seguito opere cariche di spiritualità e di pari valore, fra le quali Pellegrinaggio e L’anno del Signore, che lo hanno reso amato e popolare. Al tema della decadenza spirituale — affrontato nel romanzo L’uomo del ristorante del 1911, che lo ha reso famoso, e in racconti e romanzi brevi di quello stesso periodo — si affianca nei lavori successivi quello della patria sofferente.
I 35 capitoli de Il sole dei morti, ora finalmente accessibile al lettore italiano nella impeccabile e raffinata traduzione di Sergio Rapetti, conducono il lettore nella Crimea, terra di rara bellezza, resa irriconoscibile dalle efferatezze del terrore rosso, dove dominano la fame e la violenza: intellettuali, operai, contadini e borghesi, russi e tatari sono accomunati dal terrore e dalla fame. Tutto muore sotto i raggi di un sole dorato, «il sole dei morti», perché illumina una terra dove tutto è stato calpestato e in cui fame e morte colpiscono, insieme alle comunità e alle famiglie, anche il regno animale e quello vegetale. Nella descrizione iniziale figurano vigneti abbandonati, animali che sopravvivono a stento — come la mucca bianca e pezzata rosa che non produce più latte —, luoghi disabitati, abitazioni distrutte, come la «Jasnaja Gor’ka», piccola dacia di cui restano solo i muri dall’intonaco sgretolato. E più avanti appare Shura, l’uomo trasformatosi in killer, che fra una strage e l’altra suona il pianoforte e va in giro a cavallo mentre gli abitanti muoiono di fame.
Alla fine dell’opera il lettore trova un’ampia e dotta postfazione del curatore, il quale ricorda che tra la fine del 1920 e la metà del 1921 nelle città della Crimea le vittime degli organi di repressione, quasi «agenti» della strega Baba-Jaga, la divoratrice dei bambini del folklore russo, sono state fra le 60.000 e le 120-150.000, senza contare i morti per fame.
Rapetti illustra, quindi, la vita e le opere di Šmelëv e colloca questo suo capolavoro nel ricco ambito della storia della letteratura russa. A significare l’alta considerazione che il mondo culturale russo attribuisce all’opera di Šmelëv merita ricordare che le sue spoglie mortali, insieme a quelle della moglie, nell’anno 2000 sono state trasferite dal cimitero russo di Sainte-Geneviève-des-Bois a quello del monastero Donskoj di Mosca.