Non diminuiscono le proteste contro la sentenza della Corte suprema americana. E allora serve spiegarne sempre di più i contenuti e le conseguenze, per coglierne la portata. Un contributo per difendere la vita con coraggio ma anche con intelligente prudenza.
di Chiara Mantovani
La notizia che la Corte Suprema degli Stati uniti ha ribaltato una storica sentenza che stabiliva il ‘diritto di aborto’ occupa molti lanci giornalistici, con accenti sgomenti delle cosiddette mentalità “progressiste”.
Nell’enfasi di condannare ciò che non si condivide, sono contenute alcune inesattezze, drammaticamente fuorvianti, che distraggono da che cosa è successo davvero, e non tengono conto del percorso culturale che oggi vede due prospettive ferocemente opposte e irriducibili: il vero motivo di questa radicale contrapposizione, infatti, non sta in mutevoli situazioni politiche, bensì in differenti e inconciliabili antropologie.
Chi si mostra scenicamente affranto, in lutto, sdegnato del presunto arretramento di civiltà, di fatto non la definisce mai, e sottintende sempre come civile solo il proprio punto di vista. E già questo è un problema grande, i topos sono ormai un po’ logori, vien da dire ingessati stereotipi.
Il ritorno alla barbarie ‘medievale’ è il più usato. Come se il modo con cui oggi l’aborto viene praticato e incoraggiato – la modernissima pratica dei veleni chimici, che il cattolico presidente Biden vuole incrementare per ‘pareggiare il conto’ con gli aborti che saranno evitati – non fosse l’equivalente delle criminali misture delle ‘mammane’: mifepristone al posto del prezzemolo, ovunque.
Anche alcune dichiarazioni dello Stato di NY lasciano perplessi: ‘venite ad abortire qui da noi, sarete le benvenute’, il che mostra una inquietante dimestichezza con la soppressione di vite umane.
Perché questo resta il vero nodo teoretico, che non si scioglie: l’aborto sopprime una vita umana, sì o no?
Il resto sono chiacchiere, emotivamente coinvolgenti ma non fondative. Inutile disquisire di diritti, infatti, se non si stabilisce chi ha diritto e a che cosa.
Premessa necessaria: la Corte Suprema, nel 1973, emise una sentenza sostenendo che nella Costituzione americana fosse contenuto, almeno implicitamente, un ‘diritto all’aborto’. Secondo alcuni, che in questi cinquant’anni sono andati aumentando, in modo troppo audace e impreciso.
Piaccia o no, le leggi nei Paesi civili si fanno così. C’è un documento fondativo (quello americano ha anche uno stile letterario poetico) e da quell’elenco dei principii, che una Nazione decide di porre a fondamento, si fanno derivare le regole del vivere civile. In sé la cosa ha senso: se dobbiamo vivere insieme, esclusa l’ipotesi che il più forte faccia quel che vuole del più debole (il che porrebbe fine alla necessità di una legge: i fatti si giustificherebbero dal momento che accadono), resta solo da concordare il perimetro della azione comune. Di solito, ogni popolo che si è dato una Costituzione ha ritenuto di tracciare delle linee guida che realizzassero il bene di tutti i suoi componenti. O almeno della maggior parte. O, addirittura, della parte più debole, quando la legge è vista come strumento di tutela. Tanto che, nel linguaggio comune, volendo indicare un luogo dove vige la legge della sopraffazione da parte di chi ci riesce, non a caso si evoca un territorio americano … il far west!
Nella ‘terra degli uomini liberi’, negli Stati Uniti, il ruolo della Costituzione è propriamente quello di essere guida generale alla applicazione della massima libertà possibile per il maggior numero di persone possibile, sotto un cielo di uguaglianza e rispetto. Nobili principii che hanno bisogno di essere declinati nelle applicazioni pratiche della litigiosa vita umana. Nella prospettiva di ‘tanta libertà quanta possibile, tanto ordinamento quanto necessario’, parafrasando un noto principio, e avendo la Costituzione come riferimento, ogni Stato dell’Unione conserva un ampio margine legislativo.
Detto ciò, la sentenza della Corte suprema, nel 1973, denominata Roe vs Wade, stabiliva che la tutela della libertà individuale di abortire fosse un punto così importante per la nazione tutta, da non essere sindacabile nei vari Stati e che fosse valida su tutto il territorio. A parte che il principio desunto discendeva da una nuova interpretazione del XIV Emendamento della Costituzione, che riguarda il diritto alla privacy, inteso come rispetto delle questioni della sfera intima della persona; a parte che la legge texana che vietava l’aborto, contro la quale fu fatto il ricorso da cui derivò la sentenza, lo ammetteva nel caso in cui esso venisse praticato “by medical advice for the purpose of saving the life of the mother”; a parte che tutto il percorso emozionale e propagandistico era basato su un falso fattuale; a parte che persino quella storica sentenza non concedeva affatto un totale libero accesso all’aborto, bensì delimitava con precisione gli ambiti ammissibili, invocando addirittura un interesse della società nella difesa della vita dei suoi cittadini (benché graduandolo – purtroppo – alla età gestazionale); e, infine ma non meno importante, a parte che in quella sentenza non c’era posto per la valutazione della libertà dei concepiti, resta comunque significativo il ruolo di apripista di quella sentenza per la mentalità pro-aborto. Al punto che ogni emendamento, indirizzato a mitigare quel supposto diritto, è sempre stato bollato di lesa maestà abortiva, Un po’ come parlare di revisione della 194 in Italia.
Eppure, molti passi erano già stati fatti verso una maggiore considerazione della realtà ontologica e relazionale del concepito. Solo a titolo di esempio: documentata la grande sensibilità al dolore del feto – con indubitabili prove ecografiche ed ematochimiche dello stress fetale, del tutto identiche alle reazioni dei nati di qualunque età anagrafica – in alcuni Stati fu introdotto l’obbligo dell’anestesia per i concepiti sottoposti ad aborto. Tradotto: sapendo che soffrono mentre li sopprimiamo, bisogna evitare che soffrano.
In alcuni Stati l’aborto fu proibito dopo l’epoca gestazionale in cui il feto è capace di vita propria. Evidente la considerazione: se vive anche fuori da sua madre, ha diritto alla vita. Per questo fece così scalpore, e insieme fece molto riflettere, l’ipotesi riportata sul Journal of Medical Ethics in un articolo di Giubilini e Minerva che fosse equiparato all’aborto – e quindi depenalizzato – l’infanticidio, ma chiamandolo ‘aborto dopo la nascita’. Che cosa cambia nel canale del parto da prima della nascita ad appena nato? Infatti, la barbara pratica dell’aborto per nascita parziale fu proibita con una decisione del Presidente Trump.
Il progresso delle scienze mediche in materia di vita pre e perinatale oggi mostra senza dubbi, se mai ce ne fossero stati, che l’identità personale non muta dall’embrione al feto al neonato. E, ad essere onesti intellettualmente, nemmeno nel vecchio e nel malato.
Oggi – a conclusione del lungo procedimento iniziato a luglio del 2020, con decine e decine di audizioni di ogni parte coinvolta, che ha portato alla sentenza Dobbs vs Jackson – la Corte Suprema, con la voce del giudice Samuel A. Alito Jr. ha dichiarato che la Roe vs Wade fu una sentenza errata: «Il ragionamento alla sua base era eccezionalmente debole, e quella decisione ha avuto conseguenze dolorose». Se si scorre il lungo elenco di audizioni, si nota tra le altre la testimonianza [denominata brief amici curiae] del 22 luglio 2021 di 375 donne ferite da aborti tardivi del secondo e terzo trimestre. Ha aggiunto Alito: «È tempo di rispettare la Costituzione e riconsegnare il tema dell’aborto ai rappresentanti eletti dalle persone».
Il punto che forse disturba maggiormente il fronte abortista è che questa sentenza è il frutto, inatteso e contrario, dell’ennesimo tentativo di forzare ulteriormente la liberalizzazione dell’aborto. Infatti, tutto è iniziato ad opera della Jackson Women’s Health Organization che denunciò di fronte alla Corte Suprema la legge del Mississippi, che limita l’età gestazionale di chi può essere abortito. Quella legge, che si voleva dichiarare illegittima perché contraddiceva la Roe vs Wade, prevede che “tranne che in un caso di emergenza medica o di grave anomalia fetale, una persona deve non eseguire intenzionalmente o consapevolmente. . . o indurre un aborto di essere umano non ancora nato, se la probabile età gestazionale dell’essere umano non ancora nato è stata determinata essere maggiore di quindici (15) settimane”. La traduzione è molto letterale, ma era importante mantenere l’insistenza sulla definizione di ‘essere umano non ancora nato’, per sottolineare il cambio di paradigma nella considerazione sul concepito: da grumo di cellule, materiale biologico, evocato nel procedimento che vide testimoniare Jane Roe, oggi la massima autorità legislativa americana accoglie e difende una legge che parla di essere umano.
Questo è il passaggio epocale.
Dunque, il ruolo di una convincente diffusione di una mentalità parimenti fondata sulla scienza onesta e sull’antropologia personalista è decisivo per le sorti della civiltà.
Le proteste ci saranno e saranno violente, e sono già iniziate, perché, come affermava il servo di Dio Jérôme Lejeune [1926 – 1994], l’embrione è segno di contraddizione.
Non si tratta della libertà di sbarazzarsi di chi non è desiderato, quanto piuttosto dell’idea stessa di dignità umana. È comprensibile che la strada sia in salita, ma è indubitabile che una strada per tornare su decisioni sbagliate è percorribile.
Sempre, tutto, sotto il sole, è nelle nostre mani, è affidato alla nostra responsabilità.
Lunedì, 27 giugno 2022