Di Giuseppe De Rita da Il Corriere del 26/06/2022
Sorprende la recente entrata del termine «odio» nella dialettica politica, sia internazionale (l’ex presidente russo che dichiara «l’Occidente lo odio, e non avrò pace fino a che non sarà distrutto») che nazionale (la scissione grillina motivata dall’odio avvertito dagli scissionisti per l’attuale dirigenza).
I toni sono naturalmente diversissimi, ma il processo psicologico è lo stesso: i protagonisti partono come rivali dalle idee diverse; poi non si spiegano e non si piegano, e finiscono per rompere la loro piattaforma di relazione. A quel punto non resta che insultarsi con toni sempre più rancorosi, fino ad ammettere, magari anche allo specchio, che «quello lo odio».
Finché questa esasperazione dal rancore all’emersione dell’odio resta sul terreno privato (fra coniugi, fra colleghi, fra soci) la cosa potrebbe non preoccupare, anche se ci offende la crescita della violenza in famiglia e nelle piccole comunità. Ma la novità di questi ultimi tempi è che l’odio non è più la perversa fiammata emotiva di un singolo, ma diventa l’espressione, il manifesto, lo strumento della lotta fra poteri contrapposti; diventa cioè un fenomeno politico e apre una prospettiva pericolosa per il nostro livello di civiltà collettiva. Tanto più che nessuna autorità morale e religiosa di tipo globale sembra avere parole adeguate di riprovazione o di superamento dell’odio.
In parte avremmo dovuto aspettarcelo, questo fenomeno. Sapevamo da anni che un po’ in tutti i paesi esisteva uno strisciante rancore collettivo via via evidenziato da isolate espressioni di conflittualità sociale e politica. E non erano mancate specifiche analisi che mettevano in luce che «il rancore è il lutto di quel che non è stato», che si ritrova nelle situazioni di più drammatica delusione per speranze mancate (si pensi al rancore al color bianco fra due coniugi che si separano). E non avrebbe dovuto sorprenderci che poi esso sia esploso come fenomeno sociale in una rabbia collettiva contro le élite, la politica, le classi dirigenti, quasi a denuncia del tradimento di speranze non avverate.
Il rancore però, una volta innestato, non si ferma, e il passo successivo è «la rottura della relazione» con gli altri. Si capisce in questa luce il successo mediatico del molto italico «Vaffa», vera bandiera della rottura di ogni relazione con gli altri, con milioni di altri. Ma, forse perché l’invito era molto popolare e con origini dialettiche, il rancore italiano è rimasto per anni fenomeno solo sociale, e in quanto tale riassorbibile nella quotidiana dialettica collettiva. Ma l’odio è sempre dietro l’angolo, quando il rancore tracima, e nel tranello sembra esserci caduta la forza politica che più ha sfruttato il rancore, ma poi ne è rimasta prigioniera, incapace di elaborare i necessari anticorpi interni.
Comunque qui in Italia abbiamo consumato la nottata del rancore sociale diffuso e non dovremmo avere una significativa crescita dell’odio collettivo. Ma a meno ottimismo ci inducono altre realtà politiche, europee come mediorientali, dove cresce l’odio collettivo. Qualche analogia con la realtà italiana riecheggia nell’indulgere dei governanti russi alla luttuosa nostalgia per la potenza zarista e sovietica che non c’è più e nella loro voluta aggressività di rottura dei rapporti internazionali. In molti casi siamo al dramma, cioè all’emergere di un diffuso odio collettivo. Non solo a livello di leadership, ma anche in una molecolare diffusione dell’odio fra chi combatte sul campo. Si diceva spesso che «ucraini e russi erano fratelli di lingua e di cultura, ma adesso si odiano»; è la rottura di relazione che sembra destinata a durare per decenni e forse a modificare le radici culturali di quei popoli. Ce ne dovremmo preoccupare unitamente agli eventi bellici; ma non si vedono in azione (neppure nelle chiese) grandi predicatori di pace e di coesione sociale. Non bastano e non basteranno le Ong, quali che siano la loro dimensione e il loro prestigio.