XV domenica del Tempo ordinario
(Dt 30,10-14; Sal 18; Col 1,15-20; Lc 10,25-37)
Un dottore della legge si alzò per mettere alla prova Gesù,dunque non per conoscere la verità. La domanda (Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?), che pure è la più importante che possa essere posta da un uomo, non proveniva da un animo retto.
Sia però benedetto quell’ignoto malevolo interlocutore di Cristo, che ha provocato come risposta uno degli insegnamenti più alti del Signore, e ci consente di riflettere oggi ancora una volta sulla legge dell’amore, cuore e sostanza di tutto il Vangelo.
La legge cristiana dell’amore riassume in sé tutti i comandamenti ricevuti da Mosè
A questo mondo non c’è fascino di bellezza che non venga deturpato dall’uomo, né splendore di verità che non venga travisato. Anche la legge dell’amore corre questo rischio, per esempio quando viene presentata come un superamento o addirittura un’abrogazione dei comandamenti di Dio. La legge dell’amore non è l’abrogazione, ma piuttosto il cuore e il compendio dei comandamenti, che Mosè ha ricevuto su tavole di pietra, ma che sono indelebilmente scritti nell’animo umano. Chi infatti ama Dio con tutto il cuore, adora Lui solo, rispetta il suo nome e trova un’ora di tempo alla settimana da dedicargli in esclusiva. Se no, che amore è? E questi sono i primi tre comandamenti.
E chi ama sul serio il prossimo, cioè ha a cuore tutti i valori dell’uomo, rispetta e onora i vincoli famigliari, considera sacra la vita e non manipolabile al servizio dell’egoismo la capacità di trasmettere la vita, rispetta e onora gli altri nella loro dignità, nella loro proprietà, nel loro diritto a non essere ingannati. E questi sono gli altri comandamenti.
Sicché la legge dell’amore non è il modo astuto insegnatoci da Gesù per fare i nostri comodi, ma è l’aiuto e l’ispirazione a osservare integralmente e con piena coscienza la volontà di Colui che ci ha creati.
Ci amiamo tra noi perché Dio ci ama tutti dello stesso amore
Un secondo modo di non intendere questa pagina di Vangelo è quello di presentare l’amore del prossimo come se a questo comando si potesse ridurre il messaggio di Cristo nella sua vera originalità. Ma le cose non stanno propriamente così. La stessa frase amerai il prossimo tuo come te stesso non è stata inventata da Gesù. Era già contenuta nei libri dell’Antico Testamento e ogni ebreo la conosceva bene. L’originalità di Gesù era piuttosto nella spiegazione di chi si debba considerare prossimo. Gli Ebrei non avevano dubbi che per prossimo da amare si dovessero intendere i parenti, gli amici, i connazionali, i correligionari, e solo loro. Gesù invece ritiene che tutte le limitazioni del concetto di prossimo devono cadere: prossimo è ogni uomo che il Signore mette sulla mia strada e offre alla mia attenzione. Noi non dobbiamo amarci tra noi perché siamo amabili, anzi, spesso non lo siamo affatto. Dobbiamo amarci tra noi perché il Signore ci ha amati tutti dello stesso amore, si è chinato sulle nostre ferite, ci ha resi una cosa sola coll’impeto unificante della sua sorprendente misericordia. Se dimentichiamo questa motivazione, che solo la fede può dare, invano gli uomini tentano di amarsi tra loro. Come la storia spesso ci insegna, ogni slancio di solidarietà e fratellanza, se non è sostenuto da questo amore, finisce nell’oppressione e nella strage.
Il nostro prossimo è ogni uomo a cui vogliamo farci vicini
Per imprimerci nell’animo questo insegnamento, quasi come un quadro, Gesù racconta la celebre parabola del samaritano compassionevole, che è una delle parabole evangeliche meglio rifinite e più verosimili. La strada che dalle alture di Gerusalemme discende alla pianura fiorita di Gerico attraversa il deserto di Giuda, cioè una zona del tutto disabitata, dove le rapine e gli attentati erano di facile esecuzione, nonostante i pattugliamenti della polizia romana. Il significato più decisivo del racconto sta nel fatto che il ferito è soccorso da uno che è straniero e nemico. Così si allarga il concetto di prossimo: “prossimo” è colui che io, col mio amore, col mio interessamento, con la mia disponibilità voglio rendermi vicino. Vale a dire, la “prossimità” non ha altri confini se non la finitezza del cuore. Quanto più il nostro cuore sarà grande, tanto meno escluderemo qualcuno dalla cerchia di chi dobbiamo amare. L’uomo percosso, piagato, spogliato, che giace sul ciglio della strada, siamo noi, è la stessa umanità, che il peccato ha privato di ogni bellezza e di ogni vigore, e pare non avere più speranza e scopo nella vita. Lo straniero pietoso è il Figlio di Dio, venuto fino a noi da un mondo lontano e diverso, che si è chinato sulle nostre piaghe e ci ha dato il sollievo della fede e dei sacramenti. L’albergatore, cui ci ha affidati per la guarigione completa, è la Chiesa che, mentre egli è visibilmente assente, continua la sua opera di risanamento, sapendo che un giorno il Divino straniero ritornerà a ricompensare tutti di ogni spesa e di ogni fatica. Questa, nella sua semplicità e nella sua verità, è la nostra storia, questo è il riassunto di tutto il Vangelo. Lo vediamo ogni qualvolta vi è un qualunque consorzio umano veramente stabile, come la Chiesa di Cristo. Lì vi trovi sempre due o tre persone a cui puoi sempre bussare alla porta di casa. Sempre ti accolgono. Sono una santa sicurezza, e non lo fanno in modo sforzato o per convenienza. Si dedicano a te come persona umana immagine e somiglianza di Dio, per cui il Salvatore ha dato la sua vita.
Domenica, 10 luglio 2022