Stefano Caprio, Cristianità n. 413 (2022)
L’invasione e il gioco mondiale
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, che secondo alcuni avrebbe dovuto aver luogo il 24 dicembre 2021, nel 42° anniversario dell’invasione dell’Afghanistan da parte delle armate sovietiche, è iniziata il 24 febbraio 2022. È questo l’esito catastrofico del conflitto in atto dal 2014, quando la Russia riuscì ad annettersi la penisola di Crimea e a sobillare le provincie ucraine del Donbass, con capitali Lugansk e Donetsk, istigandole a un estenuante scontro separatista che ha già procurato circa quindicimila morti (1). In questi anni sono state effettuate diverse manovre militari da parte di entrambi i Paesi, lungo il confine da Kharkiv al Donbass e sul Mar Nero, con una continua escalation della minaccia di passare dalla guerra «ibrida» a bassa intensità a uno scontro totale, che potrebbe coinvolgere non solo i due belligeranti, ma anche gli altri Paesi direttamente interessati — Bielorussia, Polonia, Moldavia, Romania — e tutte le superpotenze mondiali, dall’Europa agli Stati Uniti d’America (USA) e alla Repubblica Popolare Cinese.
Gli esperti militari ritenevano improbabile l’accendersi di uno scontro catastrofico, che nessuno dei due contendenti sarebbe in grado di sostenere economicamente e socialmente, per non parlare delle conseguenze sanitarie di una guerra in periodo di piena pandemia di Covid-19, che in entrambi i Paesi continua a mietere vittime a migliaia senza bisogno di sparare un colpo. In questa prova di forza la Russia di Vladimir Putin ha più volte ammonito «a non superare la linea rossa», vale a dire, soprattutto, la possibile integrazione dell’Ucraina nella NATO, l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord, che farebbe tornare il mondo ai tempi della Guerra Fredda con schieramento di armi tattiche nucleari e minacce di distruzione totale a livello planetario (2).
La questione della NATO, l’alleanza difensiva anti-sovietica del Novecento, è all’ordine del giorno sin dalla fine del regime comunista sovietico. Nel 2004 vi fu il tentativo italiano, proposto dal governo Berlusconi al G8 di Pratica di Mare (Roma), di coinvolgere la stessa Russia nella NATO, per farla diventare un’alleanza americano-europea che chiudesse il cerchio dall’Oceano Atlantico al Pacifico, controllando di fatto tutta la circonferenza del globo e prevenendo l’impetuosa avanzata economico-militare della Cina, puntualmente verificatasi negli anni successivi. La cosiddetta «NATO inclusiva» non fu realizzata per la netta opposizione dei Paesi dell’Europa orientale che si erano da poco liberati dal giogo moscovita — le repubbliche baltiche Estonia, Lituania, Lettonia, oltre a Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria, Moldavia, Romania, fino ai Balcani di Bulgaria, Slovenia e Croazia — e che progressivamente si inserivano nell’Unione Europea. L’ultimo, e più popoloso di questi Paesi, è l’Ucraina, il più legato alla «madre Russia» insieme alla Bielorussia, ma anche quello con il conto più salato da presentare agli ex-padrini del Cremlino.
Il 15 dicembre 2021 Mosca aveva proposto alla NATO un ampio «trattato di pace» per allentare le tensioni in Europa, chiedendo all’Alleanza Atlantica di tornare alle posizioni del 1997, prima dell’adesione alla NATO dei Paesi dell’Europa orientale. La proposta aveva suscitato molte perplessità fra gli occidentali e Washington aveva fatto sapere di non aver intenzione di intavolare trattative in proposito senza la consultazione degli alleati europei. Nel documento presentato alla stampa da Sergej Rjabkov, responsabile per Mosca dei colloqui con gli USA sulla stabilità strategica, si chiedeva in primo luogo di escludere l’adesione dell’Ucraina alla NATO e, quindi, di abbandonare qualsiasi attività militare della NATO in Ucraina, Europa orientale, Caucaso e Asia centrale. Si tratta dei territori ex-sovietici, che dovrebbero rimanere sotto il controllo di Mosca, con Pechino alle spalle: ciò riprodurrebbe di fatto gli schemi strategici e militari della Guerra Fredda novecentesca.
Nel frattempo gli ucraini si sono preparati al peggio. Il 20 dicembre scorso a Kiev si sono tenute le trattative fra i presidenti di Ucraina, Polonia e Lituania, il cosiddetto «triangolo di Lublino», rievocante le antiche componenti della «grande Polonia» che per secoli contese alla Russia il dominio dell’Europa orientale. Durante la visita di Andrzej Duda e Gintanas Nauseda, insieme a Volodymyr Zelenskyj, sono stati collaudati i sistemi di allarme della popolazione in preparazione a possibili attacchi aerei, così come i rifugi antiaerei e antiatomici, risalenti ancora ai tempi dell’Unione Sovietica. Già negli anni scorsi erano stati rimessi in funzione, anche se molti di essi sono ancora occupati da depositi, negozi e saloni di bellezza. I sindaci delle città principali, come quello della capitale Vitalij Kličko, si sono preparati all’emergenza e hanno cercato di organizzare la difesa civile, attivando anche la chiamata dei riservisti. Come ribadisce Kličko, l’Ucraina è un Paese europeo, che ha bisogno oggi più che mai del sostegno dell’Europa, di cui è l’autentico centro geografico.
Il 13 dicembre si era tenuta una prima conversazione telefonica fra i ministri degli Esteri di Ucraina e di Germania, Dmitrij Kuleba e Annalena Baerbok (3), che avevano discusso della necessità di ripristinare il «formato Normandia», creato nel giugno del 2014 in occasione del 70° anniversario dello sbarco alleato in Normandia, con britannici e statunitensi a fare da mediatori — con francesi e tedeschi come osservatori —, e il protocollo di Minsk, in Bielorussia, del settembre 2014, con il principio «prima la sicurezza» nella regolazione del conflitto a partire dalle zone calde del Donbass. In questo senso erano anche le raccomandazioni del presidente statunitense «Joe» Biden, che dopo il colloquio video del 31 dicembre 2021 con Vladimir Putin aveva chiesto l’applicazione degli accordi di Minsk nell’ordine in cui sono scritti, concedendo subito uno speciale status di autonomia alle repubbliche di Lugansk e di Donetsk, non riconosciute da Kiev, mentre i loro cittadini già godono del passaporto russo concesso da Mosca. I cinesi dal canto loro hanno fatto sapere che rimarranno neutrali in ogni variante del confronto fra Russia e Ucraina, entrambi Paesi «amici».
Come già successo più volte in passato, la Russia si pone in questo conflitto a partire dalla propria presunzione di «superiorità morale»: così era accaduto nei conflitti con l’Occidente nel periodo degli zar fra il 1830 e il 1857 — culminati nella Guerra di Crimea — e nella Guerra Fredda, che in entrambi i casi fecero perdere alla Russia/Unione Sovietica lo status di «superpotenza». È quindi una questione culturale e ideologica molto profonda e radicata, non soltanto legata alle contingenze geopolitiche.
Le due facce della medaglia slava orientale
I giochi strategici e militari sono in pieno svolgimento e servirebbe una lunga disanima per illustrarne i tanti dettagli, compresi gli echi di queste vicende nei vari Paesi di Europa e di Asia, e non solo. Nell’insieme tutto ciò ripropone un tema in realtà molto antico, risalente almeno al cosiddetto Medioevo, se non proprio alle vicende degli imperi antecedenti. Il confronto fra Oriente e Occidente è in qualche modo la chiave per comprendere l’evoluzione delle civiltà, determinate da fattori etnici, religiosi, politici e geografici.
Gli slavi sono la terza componente dell’Europa, dopo i classici greco-romani e i barbari «romanizzati» franchi e sassoni. Furono evangelizzati e inseriti nella Cristianità europea dalla missione dei santi fratelli greci Cirillo (826/827-869) e Metodio (815/825-885) nell’860, ottenendo anche la benedizione papale, ciò che costituisce un episodio di convergenza straordinaria e quasi unica fra i due rami del cristianesimo antico, innestandosi così pienamente sulle radici dell’Europa cristiana. La loro stessa composizione riflette peraltro questa incertezza dell’orientamento di quella «terra madre» della civilizzazione che è stata sempre considerata l’Europa, ombelico del mondo, ma in realtà appendice geografica del continente asiatico. Metà dei popoli slavi scrive con l’alfabeto latino (Polonia, Cechia, Slovacchia, Slovenia, Croazia), mentre l’altra metà adotta il cirillico (Russia, Bielorussia, Ucraina, Bulgaria, Serbia), pur essendo di fatto un unico ceppo etnico e linguistico. Fra gli slavi occidentali e orientali esistono incancellabili memorie comuni e inestricabili rancori reciproci, di cui sarebbe troppo lungo e complesso spiegare le dimensioni, a partire dalle tribù dei «poljani» e dei «drevljani», antenati dei polacchi e dei russi di cui parla la Cronaca di Nestor, annalista di Kiev della metà del secolo XI (4). Insieme agli slavi si incrociano in questi Paesi molti altri popoli — latini come i romeni o ugro-finnici come magiari e lituani —, per non parlare del crogiolo del Caucaso e dell’Asia centrale, i «cortili interni» del mondo sovietico, sempre in rapporti dinamici e contraddittori con gli slavi e oggi a loro volta pressati dalle tensioni provenienti dall’Afghanistan. E alle spalle di questo mondo turbolento vi è l’occhio vigile dei turchi, i concorrenti storici dei russi nelle questioni ereditarie dell’impero bizantino, che oggi ripropongono la loro visione neo-ottomana (5).
In questo quadro senza confini e senza logiche vi è un territorio che costituisce il campo di gioco e di scontro per tutti i popoli e tutte le ambizioni. Si chiama Ucraina, un nome che non a caso significa «presso il confine» (u-kraina), perché questa era la definizione che i russi davano agli accampamenti dei cosacchi. L’Ucraina è una nazione indipendente da solo trent’anni, dopo la fine dell’Unione Sovietica (URSS), un tempo che nella coscienza del mondo slavo vale come una decina di minuti. Per secoli questa terra è rimasta soltanto «il Confine», come la stessa città di Kiev che deve il nome al «passaggio di Kyj», il mercante variago (6) che costruì un ponte sul Dnepr, dando inizio alle carovane commerciali della «Via dai variaghi ai greci» in cui si portavano le pellicce e la legna per riscaldare i greci e i romani, la ragione sociale di tutto il mondo slavo orientale.
Kiev è la «madre di tutte le città russe» — come fu chiamata da Oleg «il Saggio» († 912), uno dei primi principi —, un titolo esaltato quando è divenuta il luogo del battesimo cristiano del principe Vladimir (958 ca.-1015) nel 988, che inserì la Rus’ antica nel novero delle civiltà più progredite, ultima del primo millennio e prima del nuovo. Questa definizione venne poi trasferita a Mosca, che prese il testimone dal primo Stato russo solo qualche secolo dopo, quando ormai le terre eurasiatiche erano dominate dai tataro-mongoli eredi di Gengis Khan († 1227), in cui molti oggi vedono il vero predecessore di Vladimir Putin. È questo il primo storico motivo di conflitto fra ucraini e russi: i primi si considerano gli unici veri eredi della Rus’ primitiva, mentre Mosca è considerata una potenza asiatica erede dei «Khan» (7). Quando il comandante Batu (1205-1255), inviato del Gran Khan, invase Kiev nel 1240 radendola al suolo, Mosca era una semplice stazione di posta indistinguibile dal fiume che lo attraversa, che noi chiamiamo Moscova per comodità, quando in effetti acqua e terra hanno lo stesso nome, Moskva. I moscoviti approfittarono della scomparsa di Kiev, che di fatto non rinacque fino al 1600, accumulando denaro grazie ai buoni rapporti con i tatari e diventando la vera «pancia» del mondo russo, da sfamare senza sosta, assorbendo tutte le energie degli altri principati e popoli come ha fatto anche con i sovietici e fino ad oggi, affiancata nei tempi moderni dalla capitale del nord San Pietroburgo, la città natale di Putin e del patriarca ortodosso di Mosca, Kirill.
Mentre Mosca cresceva fino a diventare la vera capitale dell’Eurasia, i principati più occidentali e indipendenti si legavano alle alleanze occidentali, fino a gravitare nel corpo dinamico del regno di Lituania e Polonia, poi chiamata Reczpospolita, il «regno delle città» che dal mar Baltico raggiungeva il mar Nero, i due sbocchi al mondo delle nuove terre, tanto bramato dalla stessa Mosca. Così le regioni ucraine più europee, la Volynia e la Galizia, si sono identificate con la Polonia e l’Austria più che con la Russia da cui discendono, e dalla città di Leopoli sono passati tutti: ebrei, tedeschi, turchi e genovesi, russi e greci, chiamandola in tutti i modi e gli accenti come L’vov, Lviv, Lemberg e Leopoli appunto, dal nome dell’imperatore austro-ungarico. In questi territori maturò poi la scelta dell’Unione religiosa con la Roma papale, voluta dai re polacchi e dai missionari gesuiti alla fine del Cinquecento, come contraltare alla pretesa egemonica di Mosca che volle farsi patriarcato, pretendendo l’eredità della Chiesa e dell’impero bizantino.
Il patriarcato di Mosca fu istituito nel 1589, qualche anno dopo la morte del primo zar Ivan IV il Terribile (1530-1584), con una manovra orchestrata da una delle figure più emblematiche della storia russa, il reggente e poi zar Boris Godunov (1551-1605). Già dal 1448 la Russia aveva proclamato unilateralmente l’autocefalia ecclesiastica, considerando ormai «eretica» la sede ecumenica di Costantinopoli, che aveva accettato l’Unione con Roma al Concilio di Firenze del 1439. Da quel momento i russi cominciarono a considerarsi l’unico vero Stato ortodosso, anche a causa della presa di Costantinopoli da parte degli ottomani nel 1453. Si sviluppò così la teoria di «Mosca-Terza Roma», la definitiva translatio imperii che era anche una translatio fidei: se pure Mosca fosse caduta, il mondo sarebbe rimasto preda dell’avvento dell’Anticristo.
Godunov invitò dunque a Mosca il patriarca di Costantinopoli Jeremias II Tranos (1536 ca.-1595), che era stato esiliato dal sultano turco in cerca di sostegno economico e politico. Lo zar rinchiuse il patriarca nelle stanze dorate della fortezza del Cremlino, finché questi accettò di firmare il decreto di istituzione del Patriarcato (Uloženje), in cui appunto si afferma che il regno moscovita è la «Terza Roma» che guida la Chiesa universale nello scontro apocalittico con i tre nemici: l’eresia, l’invasione degli infedeli (gli «agareni») e l’immoralità (la «sodomia»). Ciò di fatto cambiava la natura dell’ecclesiologia ortodossa, da ecumenica a etnica, e considerando che le altre Chiese ortodosse si trovavano in condizioni di sottomissione ai turchi ottomani, si capisce perché Mosca si sia da allora considerata non semplicemente uno dei tanti patriarcati nazionali — che oggi sono quindici —, ma la Chiesa più rappresentativa di tutto il mondo ortodosso.
Ieremias fu quindi liberato e nel viaggio di ritorno visitò gli ortodossi russi del regno di Polonia, invitandoli a istituire un patriarcato di Kiev che compensasse le pretese eccessive di Mosca. L’abile propaganda dei gesuiti convinse il re polacco Sigismondo III Vasa (1566-1632) a trasformare questo progetto nell’Unione con Roma, siglata a Brest-Litovsk, oggi in Bielorussia, nel 1596, sette anni dopo l’elevazione di Mosca a patriarcato. L’Unione degli ucraini — forse il vero fondamento morale di quella che sarebbe diventata Ucraina — è l’altra faccia della medaglia del Patriarcato di Mosca, la «missione universale» per la salvezza del mondo: la Prima Roma al posto della Terza Roma, con la Seconda a mediare fra le due (8).
La cultura e la nazione ucraina, profezia delle angosce moderne
La mano dei gesuiti non si limitò a orientare le scelte degli «uniati», gli ucraini cattolici di rito bizantino che anche oggi sono la più significativa realtà cattolica dell’Oriente cristiano. La scuola teologica e universale dei gesuiti, che ha generato la cultura universitaria di tutta l’Europa, si era affermata in Polonia grazie soprattutto all’opera di Petr Skarga (1536-1612), uno dei più importanti membri della prima generazione della Compagnia di Gesù, che permise ai cattolici di ostacolare la deriva protestante del regno di Polonia e Lituania. Furono aperti importanti istituti teologici a Cracovia, Lublino e Vilno, che sostennero culturalmente anche la rinascita di Kiev, rifiorita nei primi decenni del Seicento intorno allo storico Monastero delle Grotte e all’Accademia di Petr Mogila (1596-1647), il metropolita ortodosso illuminato che proponeva una grande sintesi della cultura occidentale con quella orientale (9), e che ha poi dato vita a tutte le scuole moderne della Russia. Mogila scelse la scolastica dei gesuiti, invitando molti professori polacchi che oscillavano fra ortodossia e cattolicesimo, e alcuni suoi discepoli divennero a loro volta i fondatori della Scuola latino-greco-slava di Mosca e poi dell’Accademia teologica di San Pietroburgo, la nuova capitale costruita da Pietro I il Grande (1672-1725) nel 1703. Con il ritorno sulla scena dell’antica capitale della Rus’ cominciò anche il confronto storico e ideologico fra Kiev e Mosca, con la seconda che infine sottomise la prima nella «pace eterna» con i polacchi del 1682.
Il mitico iniziatore della storia propriamente «ucraina» fu, a metà del Seicento, l’atamano dei cosacchi Bogdan Khmelnickij (1596-1657), in quello che i russi chiamano il «periodo dei Torbidi», in cui si erano infranti i sogni universali di «Mosca Terza Roma», vagheggiati nel secolo XVI dal primo zar, Ivan il Terribile, che aveva ispirato perfino l’impero britannico di Elisabetta I Tudor (1533-1603). Khmelnickij era un fedele servitore del re di Polonia, a cui si ribellò dopo congiure e tradimenti di palazzo. Riuscì a guidare le schiere anarchiche e semi-nomadi dei cosacchi, il «popolo libero» costituito da slavi, turchi e asiatici che si ribellavano alle varie forme di servitù della gleba, e non riconoscevano alcuna autorità né civile, né religiosa. Proprio nelle zone ora contese da russi e ucraini i cosacchi spostavano la loro «capitale mobile» di Seč nelle isole più impenetrabili dei fiumi e delle paludi, sconfissero i polacchi e si consegnarono ai russi nella speranza, poi in gran parte delusa, di godere della libertà dei propri territori «ucraini», di confine. La divisione delle terre a destra e a sinistra del Dnepr (Pravo- e Levo-Berežnye) continuò a lungo, nelle tante guerre fra russi e polacchi, e fra russi e turchi, senza che i cosacchi ucraini riuscissero a trovare veramente la pace e la libertà che cercavano. Lo zar di Mosca, espressione della nuova dinastia seicentesca dei Romanov, chiamava sé stesso il padre «di tutte le Russie» — Vseja Rusi, «di ogni Russia», espressione poi rimasta nel titolo del patriarca di Mosca —, intendendo la Grande Russia di Mosca, la Russia Bianca — Ruthenia Alba sempre innevata, da cui venne la Bielorussia — e la Piccola Russia — Malorossija, come ancora oggi i russi chiamano la parte orientale dell’Ucraina —, confusa anche con la Russia Nera, quella delle «terre nere» fertili della Russia meridionale — oggi il colore serve alle polemiche dei russi contro i «fascisti ucraini».
La zarina russo-tedesca Caterina II la Grande (1729-1796) a fine Settecento mise fine dopo tre secoli al conflitto con il regno di Polonia, spartito a più riprese con prussiani e austriaci. Da questo momento nei documenti si comincia a usare sistematicamente il nome «Ucraina», per indicare quella parte della Polonia ormai integrata nei territori dell’impero di Mosca, la grande potenza che pochi anni più tardi spense le velleità di Napoleone di conquistare l’Europa. Quell’Europa che al Congresso di Vienna del 1814-1815 si costituì come Santa Alleanza, dall’intuizione romantica dello zar vincitore Alessandro I (1777-1825), che voleva l’unione dei cattolici austriaci con i protestanti prussiani sotto la guida degli ortodossi russi, l’Europa ecumenica del cristianesimo universale. La visione di Alessandro finì presto nel nulla ed egli morì nel 1825 in circostanze misteriose, per alcuni ritirandosi in un eremo, quello del il mitico starets siberiano Fëdor Kuz’mič (1776/1777-1864). L’impero russo divenne «gendarme d’Europa» sotto Nicola I (1796-1855), con le repressioni dei rivoltosi liberali Decabristi e dei primi ingenui socialisti, come il giovane Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821-1881). Soprattutto, Nicola impose una sistematica russificazione di tutti i territori dell’impero euroasiatico, e a farne le spese più di tutti furono proprio i parenti più stretti, gli ucraini.
Il personaggio più paradossale di questo periodo, chiamato il «secolo d’oro» della cultura russa, fu un giovane contadino della Malorossija, come lui stesso amava ricordarla, Nikolaj Gogol’ (1809-1852), che giunse a San Pietroburgo e fu adottato dai più grandi poeti e scrittori nazionali, come Aleksandr Sergeevič Puškin (1799-1837) e Vasilij Andreevič Žukovskij (1783-1852), fino a diventare l’espressione più autentica dell’anima russa. Quando Gogol’ concluse a Roma la stesura della prima parte delle Anime morte, il romanzo più «russo» in assoluto, scese a Piazza di Spagna a festeggiare con balli ucraini intorno alla fontana. Era la Russia che cercava sé stessa, come nella corsa della trojka di Pavel Čičikov, il truffatore protagonista del romanzo che sfuggiva al suo destino correndo nella campagna profonda della Russia meridionale, sulle terre oggi contese da Putin e Zelenskyj. In quegli anni un altro grande ucraino pietroburghese, Taras Hryhorovyč Ševčenko (1814-1861), decise di dedicarsi alla «causa ucraina»: visitò Kiev per la prima volta a metà dell’Ottocento e si unì ai sogni della Società di Cirillo e Metodio, un gruppo che in nome dei maestri storici degli slavi voleva finalmente costruire una nazione ucraina. Il sogno fu brutalmente soffocato dagli zar e Ševčenko passò il resto dei suoi giorni nell’esilio siberiano, da cui le sue poesie raggiunsero comunque i cuori dei «fratelli ucraini», che lo considerano ancora il vero «padre della patria».
Le tante repressioni russe nelle terre ucraine, di cui abbiamo ricordato solo alcuni passaggi, dovevano riflettersi anche nel lungo inverno sovietico. I russi liquidarono la Repubblica socialista dell’Ucraina, che pretendeva nel 1918 di farsi la propria rivoluzione, e in settant’anni calpestarono in ogni modo i tentativi ucraini di trovare una propria via. Negli anni Trenta del secolo scorso fu Iosif Vissarionovič Džugašvili «Stalin» (1878-1953) a sterminare le aspirazioni dei contadini ucraini con una carestia scientificamente organizzata, il Holodomor, che ancora oggi attende piena documentazione storica. Durante l’invasione nazionalsocialista tedesca del 1941-1943 gli ucraini scelsero di appoggiare l’invasore non certo per adesione al razzismo hitleriano, ma soprattutto per affrancarsi dai sovietici. Dopo la guerra il dittatore georgiano fece liquidare la Chiesa greco-cattolica, ritenuta indomabile, unendola forzatamente con quella ortodossa di Mosca nello Pseudo-Sinodo di Leopoli del 1946, organizzato dal «patriarca di Stalin» Alessio I insieme al segretario del partito a Kiev, quel Nikita Khruščev (1894-1971) che in seguito denunciò i «crimini di Stalin» per riprendere la persecuzione sistematica della Chiesa. L’ucraino Khruščev conosceva troppo bene i suoi compaesani e per rafforzare l’identità russa in Ucraina pensò bene di «donare» alla repubblica Sovietica di Kiev la penisola di Crimea, «terra santa» dei russi su cui si è poi costruita tutta l’ideologia putiniana degli ultimi anni, intesa come rinascita della Grande Russia a spese proprio degli ucraini.
Quando Putin si rivolse trionfante alla folla riunita davanti al Cremlino, il 18 marzo del 2014, per festeggiare l’annessione della Crimea, il suo grido esprimeva questa coscienza a lungo repressa, dopo la fine ingloriosa dell’impero sovietico: «la Crimea è nostra!». Egli intendeva celebrare il ritorno alla Russia delle terre lasciate in mano ai «popoli infedeli» dell’Occidente, la nuova affermazione della «verità ortodossa» di una Russia chiamata a salvare il mondo dalla perdizione. L’esaltazione di questo nazionalismo ortodosso universale, a dire il vero, non è durata molto a lungo, e oggi gli stessi russi temono che una nuova guerra possa annientare definitivamente l’economia e la vita sociale del Paese, sempre più oppresso anche da forme autoritarie di imposizione dell’ideologia di Stato come ai tempi sovietici.
Non si può neppure affermare che gli ucraini siano a loro volta entusiasti di essere annessi all’Occidente europeo, da cui hanno ricevuto tante delusioni nel passato. Gli ortodossi di Kiev si sono rivolti nel 2018 al patriarca di Costantinopoli per affermare la propria autonomia, con il risultato di confondere ancora più le acque anche in ambito ecclesiastico, creando una nuova rottura fra la Seconda e la Terza Roma, senza che la Prima Roma papale sappia bene a quale dei tanti «fratelli ortodossi» rivolgersi, senza offendere gli altri e perfino i propri fedeli.
Nel 1968 il grande scrittore russo e profeta del dissenso anti-sovietico, Aleksandr Isaevič Solženicyn (1918-2008), aveva scritto parole profetiche sul rapporto fra russi e ucraini, che sembrano proprio un commento alla situazione odierna: «Mi fa male scrivere di questo: l’ucraino e il russo si uniscono nel mio sangue, nel mio cuore, nei miei pensieri. La grande esperienza di comunicazione amichevole con gli ucraini nei lager mi ha rivelato quanto essi hanno sofferto. La nostra generazione non potrà fare a meno di pagare caro per gli errori dei nostri predecessori. Essi battono i piedi per terra e gridano “è mio!”, la via più semplice. È incomparabilmente più difficile pronunciare le parole: “chi vuole vivere, vivete sulla vostra terra!”. Non c’è da stupirsi che non si siano realizzate le previsioni del Magistero Progressista, secondo cui il nazionalismo sarebbe scomparso. Nel secolo dell’atomo e della cibernetica, al contrario, esso è rifiorito. E ora è giunto fino a noi il momento, ci piaccia o non ci piaccia, in cui dobbiamo pagare per tutte le cambiali sull’autodeterminazione, sull’indipendenza, dobbiamo pagare noi e non aspettare che ci brucino sul rogo, ci affoghino nei fiumi o ci taglino la testa. Noi siamo una grande nazione, noi dobbiamo dimostrarlo non con l’enormità del territorio, non con il numero dei popoli sottomessi, ma con la grandezza delle nostre scelte. E arando in profondità le terre che rimarranno a noi per sottrazione da tutte quelle che non vorranno più vivere insieme a noi» (10).
Ucraini e russi sono davvero membri di un popolo comune, al punto che è difficile trovare una famiglia che non abbia parenti da una parte all’altra del confine. La loro riconciliazione poteva essere profezia di una più grande unione dei popoli d’Europa, anch’essi legati e intrecciati da comuni conquiste e reciproci rancori. Invece la guerra e l’invasione al momento non fanno che perpetrare la grande incapacità di riconoscere sé stessi, il problema storico dei russi e degli slavi, e oggi dell’intero mondo globalizzato.
Note:
1) Lo stato delle due «repubbliche indipendenti» del Donbass — la zona industriale dell’Ucraina — è in sospeso dal 2014, dopo l’annessione della Crimea. La Russia riconosce loro uno status di autonomia simile a quello dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, le due zone controllate dai russi nel conflitto con la Georgia del 2008-2011; l’Ucraina, invece, le considera ancora territorio proprio. Gli scontri armati, nonostante i tentativi di tregua, non si sono mai fermati, e molti abitanti del Donbass sono oggi rifugiati in Russia.
2) Numerosi gli interventi del Presidente della Federazione russa Putin e dei dirigenti russi in questo senso: cfr., per esempio, i siti web <https://www.currenttime.tv/a/putin-o-nato/31589188.html>, «https://www.svoboda.org/a/kremlj-schitaet-slova-zelenskogo-o-kryme-pryamoy-ugrozoy-v-adres-rossii/31590301.html> (gl’indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 9-3-2022).
3) Cfr. il sito web <https://babel.ua/ru/news/74122-ministr-dmitriy-kuleba-vpervye-pogovoril-po-telefonu-s-novoy-glavoy-mid-germanii-obshchalis-o-donbasse-i-severnom-potoke-2>.
4) Cfr. Nestore l’annalista (1056 ca.-1114 ca.), Cronaca degli anni passati (XI-XII secolo), trad. it., con introduzione e commento di Alda Giambelluca Kossova, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2005.
5) A metà di novembre del 2021 si è riunito a Istanbul il cosiddetto «Consiglio Turco», nome abbreviato del Consiglio di cooperazione degli Stati turcofoni, istituito nel 2009 come organizzazione intergovernativa internazionale. I membri del Consiglio sono Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan, Turchia e Uzbekistan, con Turkmenistan e Ungheria in qualità di osservatori, per un’area di 4,5 milioni di chilometri quadrati. Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha proposto di rinominarlo «Unione Turca».
6) I variaghi sono nella tradizione slava gli scandinavi, che i latini chiamavano normanni o vichinghi. Secondo la più diffusa teoria storiografica, lo Stato della Rus’ di Kiev si sarebbe formato a partire dalla «chiamata dei Variaghi» nella seconda metà del IX secolo, quando gli scandinavi presero il controllo di quell’area che essi chiamavano Gardariki, la «terra dei paesi» (Gard) degli slavi settentrionali intorno ai grandi laghi del nord come il lago Il’men, da cui anche il nome originario di Il’menskaja Rus’, la cui prima capitale era Novgorod («Nuova città», Nea Polis), l’antagonista storica di Kiev, dualismo poi replicato da Mosca e San Pietroburgo.
7) È rimasta proverbiale l’esclamazione di Napoleone Bonaparte (1769-1821), quando conquistò il Cremlino di Mosca e dalle sue mura osservò l’incendio della città provocato dagli stessi abitanti per non lasciare provviste all’esercito francese: «Gratta il russo e trovi il tartaro», riportata dal militare e commediografo Charles-Joseph de Ligne (1735-1814).
8) Su queste vicende, cfr. Giovanni Codevilla, Storia della Russia e dei paesi limitrofi,4 voll., Jaca Book, Milano 2016, vol. I, Il Medioevo russo. Secoli X-XVII.
9) Nel 1640 Mogila fece approvare dal Sinodo ortodosso di Vilno il primo vero catechismo, la Confessione Ortodossa, che ricalcava gli schemi del catechismo tridentino correggendolo sui punti di divergenza con le dottrine degli orientali — il «Filioque», la consacrazione eucaristica, il Purgatorio — e scegliendo per la traduzione del Credo il termine «sobornaja» per descrivere la cattolicità della Chiesa, da cui la teologia russa della Sobornost, la comunione universale.
10) Cfr. Aleksandr Solženicyn, Arcipelago Gulag, 1973, trad. it. in un solo volume, a cura di Maurizio Calusio, Mondadori, Milano 2017 (1a ed. it. ibidem 1975), parte V, capitolo 2, Il venticello della rivoluzione, pp. 908-922.