Marco Tangheroni, Cristianità 413 (2022)
Intervento svolto da Marco Tangheroni (1946-2004), socio fondatore di Alleanza Cattolica, al Capitolo Generale dell’associazione — tenutosi il 17 e 18 maggio 1997 a Rocca di Papa (Roma), presso il Centro per un Mondo Migliore —, in occasione del venticinquesimo anno di pubblicazione della rivista Cristianità. Sono redazionali le uniformazioni testuali e di punteggiatura, i modi delle citazioni, le note e il titolo ricavato dal testo che, non rivisto dall’autore, conserva lo stile proprio del parlato.
Quindici anni or sono mi fu affidato il gradito compito di ricordare, in occasione di un Capitolo Nazionale allargato, il decimo anniversario della stampa del primo numero di Cristianità. L’intervento fu poi pubblicato nel numero 100 della rivista, dedicato interamente alla «buona battaglia» di Alleanza Cattolica, per una società a misura di uomo e secondo il piano di Dio (1). In quello stesso numero è riprodotta la prima pagina del numero 0. Oggi ho la gioia di essere chiamato a celebrare il venticinquesimo anno di regolare uscita della nostra rivista.
Venticinque anni, un quarto di secolo; e un quarto del secolo XX, della fine del secolo XX, con l’accelerazione della storia che lo ha caratterizzato.
Una vita, come si suol dire per indicare un tempo particolarmente lungo. Certo, venticinque anni rappresentano una parte molto importante della vita di un uomo. E Cristianità ha effettivamente accompagnato una buona parte della vita di molti di noi.
Ci siamo costantemente allenati a privilegiare in noi stessi la ragione rispetto alle altre facoltà dell’uomo, secondo giusta e naturale gerarchia; ma non abbiamo mai inteso negare il legittimo posto al sentimento. Penso che un’occasione come questa debba fare un poco di spazio anche al sentimento e a un ragionevole orgoglio associativo.
Ci siamo pure costantemente allenati a non alimentare, a livello personale e anche associativo, qualsiasi forma di autocompiacimento. Il versetto evangelico che più ci siamo ripetuti è quello sui «servi inutili» (Lc. 17,10). Ma sarebbe negare la verità storica non sottolineare l’eccezionalità di questo primo dato, elementare se volete, della durata: un quarto di secolo di assidua, regolare presenza.
Un fatto assolutamente rilevante nel panorama culturale ed editoriale. Non parlo soltanto — si badi — dell’area della destra o — a maggior ragione — di quella della cosiddetta «destra cattolica» o del cosiddetto «tradizionalismo cattolico», nella quale siamo, non di rado, classificati: aree nelle quali abbiamo visto e vediamo nascere, talora accompagnati da un gran suono di grancasse e talora supportati da disponibilità finanziarie non indifferenti, periodici e riviste di ogni genere. Nascono, fioriscono per una breve o brevissima stagione, e muoiono, quasi sempre senza lasciare alcun rimpianto nei classici, manzoniani, venticinque lettori.
No: qui parlo più in generale, con riferimento al panorama complessivo della stampa periodica italiana. Ricordo che quando cominciammo a prendere in considerazione l’idea di una rivista per l’associazione, e poi ancora nei primi tempi della pubblicazione di Cristianità, un nostro termine di confronto era Rinascita, la rivista fondata da Palmiro Togliatti (1893-1964), prestigioso organo politico-culturale del Partito Comunista Italiano: bene, forse questo nome non dice niente ai più giovani, e comprensibilmente, avendo tale rivista cessato le sue pubblicazioni da molto tempo.
Bisogna aggiungere un’ulteriore considerazione. La realtà cambia, in questa nostra epoca, molto rapidamente, come si diceva. Nel 1973 erano ancora lontani gli anni in cui avrebbe fatto la sua apparizione sul mercato il personal computer; la televisione in Italia era ancora in bianco e nero, l’abitudine alla lettura molto più diffusa, anche tra i giovani. Oggi è sempre più difficile trovare un pubblico non per la nostra rivista — che richiede, certo, un pubblico particolare, abbastanza alfabetizzato, per così dire —, ma per una di qualsiasi genere, salvo per riviste molto specialistiche che, trattando di cani o di cioccolata, di macchine fotografiche o di personal computer, di mobili o di orologi, vadano a stanare i lettori nelle loro nicchie.
Il problema ci è noto ed è stato attentamente analizzato sia dal reggente nazionale sia dal Capitolo Nazionale, pure in relazione alla problematica della diffusione e alle difficoltà della vendita pubblica. Anche perché abbiamo sempre voluto essere contro-rivoluzionari del secolo XX; ormai, anzi, dobbiamo cominciare ad abituarci a dire del secolo XXI: attenti, dunque, a parlare agli uomini e alle donne del nostro tempo, in particolare, per la nostra vocazione pedagogica, ai giovani del nostro tempo. Tant’è che nell’ultimo Capitolo Nazionale è stato impostato il problema dell’edizione e della diffusione in altre forme di Cristianità.
Comunque, il primo numero ebbe, grosso modo, la stessa tiratura attuale, sulle 5.000 copie; non poche, né allora né ora, tenendo conto delle caratteristiche particolari della rivista, che non è certo né Gente né Novella 2000, e anche facendo gli utili paragoni con riviste che godono di finanziamenti e sostegni di primissimo piano.
* * *
Peraltro, abbiamo anche ritenuto che l’attaccamento alla «forma-rivista», o — pensando pure ai libri che pubblichiamo o che diffondiamo — alla «pagina scritta su carta», avesse già in sé un suo significato positivo, di testimonianza e di salvaguardia di un mezzo che resta pur sempre prezioso; e che il lettore che apprezzasse il mezzo fosse già, in qualche modo, un nostro interlocutore privilegiato, una persona con la quale un dialogo avesse già una certa base di partenza: stampare una rivista, insomma, anche per gettare un amo, per vedere chi vi presta attenzione.
Un quarto di secolo, dunque. È legittima, anzi doverosa, una domanda: «Come è stato possibile?».
In primo luogo, in primissimo luogo, evidentemente, dobbiamo rivolgerci, grati, al Signore e alla Vergine Maria, sotto la cui protezione abbiamo posto, fin dall’inizio, la nostra azione di apostolato e anche, dunque, la nostra rivista. Infatti, il primo articolo del primo numero, intitolato, riprendendo la divisa della prima Azione Cattolica, Preghiera, azione, sacrificio, dava, secondo giusta gerarchia, il primo posto alla preghiera, così esplicitando il punto: «[…] per impetrare da Dio, attraverso la mediazione della santissima Vergine, la grazia di essere fedeli alla sua legge, sia a quella naturale che a quella rivelata, per ciò che ordina in rapporto alla sua gloria, alla nostra santificazione, e quindi all’amore del prossimo in tutti i suoi gradi e in tutte le sue forme» (2).
Senza un aiuto soprannaturale — quell’aiuto che abbiamo costantemente chiesto nelle nostre preghiere associative — nulla sarebbe stato possibile realizzare. Ne siamo pienamente convinti.
Ma abbiamo anche piena consapevolezza che la via ordinaria con cui la Provvidenza agisce nella storia richiede la cooperazione degli uomini: è il senso della meditazione più volte fatta nei nostri ritiri sul miracolo dei pani e dei pesci, per il quale, esemplarmente, Gesù volle che ci fossero, appunto, dei pani e dei pesci procurati dal lavoro umano.
Questa considerazione — unita al fatto che se la certezza della protezione celeste è totale, le modalità del suo operare non sono suscettibili di analisi nello specifico, almeno non da parte mia —, mi spinge a proporvi ulteriori risposte alla domanda «Com’è stato possibile?»; risposte, per così dire, a cielo chiuso, da storico, se volete.
In questa prospettiva, pur nella consapevolezza che il culto della personalità non rientra nel nostro stile, sarei cattivo storico se non dicessi chiaramente che la prima, fondamentale, risposta ha un solo nome: Giovanni Cantoni (1938-2020).
È a lui che si devono non soltanto la concezione prima di Cristianità e il suo avvio, ma anche la sua venticinquennale realizzazione; numero per numero, pagina per pagina, riga per riga. Credo che sia impossibile calcolare la quantità, certo altissima, delle ore che egli le ha dedicato, con impegno costante e paziente. Ogni numero che ci è stato inviato, o distribuito in occasione dei capitoli nazionali, è propriamente suo, dall’ideazione del sommario all’impostazione grafica, dalla composizione alla revisione, fino, credo, alla consegna in tipografia.
La redazione di Cristianità è stata per tutti coloro che vi hanno collaborato una scuola di precisione e di serietà, oltre che di formazione culturale e spirituale. Un’opera pedagogica che è stata ed è parte, non marginale, di una più ampia opera pedagogica volta a creare una scuola contro-rivoluzionaria del secolo XX, in vista, come ora ci appare chiaro, della «nuova evangelizzazione», che è compito della Chiesa e dei cattolici per il secolo XXI.
Con riferimento al ricordato articolo del primo numero di Cristianità, si può ben dire che Cantoni è stato esempio di «sacrificio», di quella «costanza» e di quella «abnegazione» che venivano allora assunte come impegno. Non nasconderò che, talora, taluni suoi scrupoli possono esserci sembrati anche eccessivi. Ricorderò, per esempio — e lo ricorderanno gli amici livornesi —, le affannose ricerche per sciogliere una sigla di un ente nella cui sala si era svolto un dibattito segnalato nella «buona battaglia», una sigla il cui significato era stato forse dimenticato dagli stessi dirigenti dell’ente…
Abbiamo poi compreso, con il tempo, che questa sua pignoleria era, in realtà, una grande scuola di professionalità e una grande lezione etica: professionalità perché per comunicare veramente è assolutamente necessaria l’esattezza dei dettagli e dei riferimenti; lezione etica perché proprio il doveroso rispetto e l’amore per la verità impongono il suo scrupoloso rispetto fin nei più piccoli particolari.
Se grande è la gratitudine che tutti i militanti dell’associazione — quelli che ancora lo sono e anche quelli che lo sono stati — debbono provare per il nostro reggente nazionale, non solo per ciò che ci ha insegnato, ma anche per gli errori, anche di vita, che ci ha impedito di compiere, vorrei dire che ancora più grande, se possibile, è la gratitudine che gli debbono quanti hanno collaborato a Cristianità per le lezioni anche pratiche che hanno ricevuto; discorso valido anche per coloro che, come chi vi parla, pure avrebbe dovuto per mestiere già conoscere la lezione: col che intendo aggiungere che quello che così abbiamo imparato ci è stato molto utile pure nella nostra attività professionale.
Perciò io qui, caro Gianni — consentimi l’appellativo familiare con cui ti ho conosciuto quasi trent’anni fa —, a nome di tutti, dei militanti più anziani e di quelli più giovani ed anche dei molti amici che gravitano intorno ad Alleanza Cattolica o che ad essa guardano con simpatia, ti esprimo la nostra profonda gratitudine insieme all’augurio di ogni bene personale e familiare e di un lungo e sempre più proficuo lavoro a maggior gloria di Dio e per la fortuna, al servizio di essa, della nostra associazione.
Questa gratitudine va estesa a tutti coloro che più direttamente, negli anni, hanno collaborato alla realizzazione materiale della rivista. Il fatto che io non sia tra essi, che non partecipi ad essa, mi impedisce di essere più preciso, di fare i nomi; ma so bene che dovremmo pensare di più, ogni volta che un nuovo numero ci arriva, al lavoro che ad esso sta dietro, per meglio apprezzare lo strumento che ci ritroviamo fra le mani.
Così come so che, se è vero che le croci e i singoli militanti hanno tratto e continuano a trarre da Cristianità uno straordinario alimento, intellettuale e spirituale, è anche vero che talora siamo lettori troppo veloci, troppo superficiali. Leggiamo, magari, ma non rileggiamo. Leggiamo, magari, ma non studiamo metodicamente, così come sarebbe doveroso e utile. Penso che questo nostro soffermarci a riflettere, cogliendo lo spunto della venticinquennale ricorrenza, debba essere anche un’occasione per prendere con noi stessi, associativamente e come singoli, l’impegno a utilizzare meglio questo strumento. Ricordando, con il Poeta, che «non fa scienza, sanza lo ritenere, avere inteso» (Paradiso, canto V, vv. 41-42).
La domanda «Com’è stato possibile?» comporta un’ulteriore considerazione perché la risposta sia compiutamente articolata.
«Organo ufficiale di Alleanza Cattolica» recitava il sottotitolo del numero 0; e «Organo ufficiale di Alleanza Cattolica» recita anche il «tamburino» del numero 264: come tale è nata la rivista e come tale ancora si presenta. Dunque, una stretta, strettissima relazione fra la rivista e l’associazione che la esprime, la diffonde, la utilizza nella sua battaglia civico-culturale. Senza l’associazione, Cristianità non sarebbe nata e non continuerebbe a vivere.
Perciò, fra l’altro, la collaborazione avviene solo su richiesta, con malumore dei molti che avrebbero voluto scrivervi di propria iniziativa: ben presto comparve l’inesorabile avvertenza. «Si dà corso alle sole collaborazioni richieste e concordate», insieme all’altra: «Si ringrazia anticipatamente dell’invio di periodici in cambio, di materiale di informazione o di opere per recensione, ma non se ne garantisce né la segnalazione né la recensione, che sono condizionate sia da considerazioni di carattere dottrinale che da esigenze di spazio». Potete ben immaginare le non poche antipatie che ci siamo procurati con questa insolita posizione.
Questi tratti distinguono la nostra dalle tante riviste che, come abbiamo detto, nascono, vivono una vita più o meno breve e più o meno stentata e muoiono. Riviste nate sulla base non di una realtà umana e culturale già esistente e consolidata, ma di un incontrarsi, per così dire, di diverse intenzioni e di diverse posizioni, il che, fatalmente, porta o agli scontri interni e alle divisioni o al nascondimento delle diversità e delle divergenze. La rivista, insomma, non come strumento di una realtà associativa ma come via per arrivare a costituirla.
Qualcuno potrebbe, a questo punto, osservare pertinentemente che oggi varie riviste, come MicroMega o Liberal, sono nate esplicitamente come luoghi per la discussione, e non, come era Rinascita, come strumento. A parte il fatto che anch’esse poi sfociano in forme associative, che rimangono però a livello di «amici di», «circolo di», va detto che esse appunto nascono in stretta relazione con il pensiero debole, che presuppone la non omogeneità delle posizioni, esclude l’esistenza di verità unificanti, persegue tematicamente la discussione come fine e non come mezzo.
Non è compito mio, qui, parlare direttamente di Alleanza Cattolica. Ma le due realtà, l’associazione e la rivista, sono talmente intrecciate che parlare della seconda significa, inevitabilmente, anche parlare della prima.
Proprio in questi giorni mi è capitata sott’occhio una vecchia fotografia, di un ritiro dei militanti toscani a Calci, credo nel 1970, al massimo nel 1971. E le riflessioni che stavo facendo rileggendo le varie annate della rivista si sono intrecciate a quelle che la vecchia foto suggeriva.
Come vivendo a quotidiano contatto con una persona, o comunque vedendola spesso, non ci si accorge del suo progressivo invecchiamento — o, se di un bambino si tratta, della sua crescita —, così partecipando giorno dopo giorno alla vita di un’associazione riesce quasi impossibile rendersi conto, se non con uno sforzo di chiamarsi, per un momento, fuori e di assumere un punto di vista distaccato, del suo sviluppo e delle iniziative che lo hanno accompagnato.
Quante emozioni da quella vecchia foto, quanti ricordi, dopo l’individuazione dei personaggi fatta non senza fatica, perché ovviamente di ognuno di loro si potrebbe dire: «quantum mutatum ab illo!», salvo, ahimè, un carissimo amico scomparso tragicamente alcuni anni or sono.
Ma anche una riflessione: allora eravamo, di fatto, un’associazione giovanile. Eppure, se ben mi ricordo, mai ci siamo sentiti tali, mai ci siamo presentati come tali. Anzi — e la foto lo conferma — amavamo un po’ essere ed apparire, semmai, «vecchieggianti», esprimere quella maturità e quella serietà che pensavamo ci dovesse caratterizzare, e che ben possiamo dire, effettivamente, ci caratterizzava. Oggi, noi di allora, di quella foto e di altri analoghi ritiri di altre regioni, siamo carichi di anni, di impegni di lavoro e familiari — qualcuno è ormai nonno — e anche, chi più chi meno, di acciacchi — io per la verità ne avevo tanti già allora, ma è un altro discorso —; eppure ci sentiamo, dentro, ancora giovani, ancora proiettati verso il futuro, ancora non appagati: perché i compiti che ci siamo dati — e che di fatto ci sono stati dati come vocazione — sono compiti dai quali non si va in pensione.
Ecco, io vorrei ora ritornare un attimo, insieme a voi, come ad una vecchia foto, al numero 0 — luglio-agosto 1973 — di Cristianità, riprendendo tra le mani la mia copia, anch’essa, come la vecchia foto, appena appena ingiallita: a beneficio del ricordo per chi già faceva parte di Alleanza Cattolica e dell’informazione per chi parte non ne faceva, non foss’altro per ragioni anagrafiche, perché magari andava con il grembiulino all’asilo o, addirittura, non era ancora nato.
Subito una prima osservazione s’impone non già su ciò che c’è, ma su ciò che forse ci si aspetterebbe di trovare e invece non c’è: quell’editoriale che normalmente apre le nuove iniziative editoriali. Onestamente non ricordo se questa possibilità fu mai presente nelle discussioni che precedettero il numero 0, durante le quali il reggente nazionale, viaggiando per l’Italia, veniva illustrando gli stati di avanzamento del progetto.
A distanza, comunque, mi sembra una scelta felice. Nessuna altisonante o banale o generica dichiarazione di intenti. Quasi, direi, la naturale prosecuzione di un discorso avviato da tempo e che ora viene ad assumere un più esterno palesarsi; come, per fare un esempio, fanno talora i poeti: si pensi all’inizio dell’Alla sera di Ugo Foscolo (1778-1827): «forse perché della fatal quiete tu sei l’imago a me sì cara vieni, o sera» (vv. 1-3); continuazione di un discorso già incominciato silenziosamente. Un salto di qualità non dichiarato.
Il formato era un po’ più grande dell’attuale, quattro centimetri più lungo dell’A4, e dodici erano le pagine; non vi erano foto o disegni in copertina, ma, a partire dal numero 1, riquadri con la pubblicità ai volumi che avevano inaugurato la parallela attività della cooperativa «Cristianità», Il crepuscolo artificiale del Cile cattolico, del professor Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) (3), Frei, il Kerenski cileno del dottor Fabio Vidigal Xavier da Silveira (4) e, naturalmente, la seconda edizione del nostro libro di formazione di base, allora e ora: Rivoluzione e Contro-Rivoluzione; quella, per intenderci, del 1972, con il «saggio introduttivo» di Giovanni Cantoni, che aveva inaugurato l’opera della cooperativa (5). Un saggio introduttivo che pure, ricordo, era stato presentato previamente in attente riunioni ai diversi gruppi di militanti. E, più tardi, anche libri di altre case editrici, come le Memorie del cardinale József Mindszenty (1892-1975), della Rusconi (6).
Si noti che allora la rivista si presentava come «bimestrale» e che il passaggio a mensile — nella prospettiva dei dieci numeri l’anno — avvenne nel 1977. Ciò portava a fare sì delle riflessioni sugli avvenimenti recenti più importanti — come, nel successivo numero 1, ipotesi interpretative sul senso del colpo di stato in Cile —, ma senza il ritmo del settimanale o, a maggior ragione, del quotidiano. Lo facevamo con piena consapevolezza della rispondenza dello strumento alla natura e anche alla consistenza della realtà associativa, senza lamentele su qualcosa di altro che sarebbe stato desiderabile. Per riprendere un paragone di allora del nostro reggente, a nulla ci sarebbe servito un missile, che, anzi, sarebbe stato ingombrante nelle nostre case.
Per rimanere ancora, brevemente, a queste notazioni esterne ricordo che il formato passò all’A4 — grosso modo: c’è una differenza di qualche millimetro — con il numero 9, primo dell’anno III. E che la prima illustrazione, la riproduzione dello stemma di san Pio X (1903-1914), fa la sua comparsa nel numero 2; mentre la prima fotografia appare nel numero 4, del marzo-aprile 1974, quello con in copertina il facsimile della scheda elettorale del referendum sul divorzio che si svolse, appunto, in quella primavera. Era la fotografia, non nitidissima, ma significativa, delle targhe di un portone di Roma, quelle del circolo Giordano Bruno, della Lega degli obiettori di coscienza, della rivista L’astrolabio, della Lega Gaetano Salvemini, del Partito Radicale, della Lega italiana per l’istituzione del divorzio. La didascalia così diceva: «L’unitarietà della sovversione non è solo una tesi: le targhe di via Torre Argentina 18, a Roma, provano che è anche un fatto» (7).
Era, questo, un rimando applicativo alla fondamentale tesi dell’unitarietà della crisi e della Rivoluzione, pur nel suo realizzarsi come processo storico. L’intuizione della IV Rivoluzione non era stata ancora esplicitata, ma la nostra attenzione era, fin da allora, attenta a tutte le manifestazioni della Rivoluzione stessa. Non siamo mai stati — è bene ricordarlo — un’associazione semplicemente anticomunista. Anche se si può dire, in tutta obiettività, che siamo stati gli unici, o quasi, a fare dell’anticomunismo non superficiale od occasionale, ma sistematico e articolato.
È evidentemente impossibile rendere nel tempo di un intervento l’idea della ricchezza, della varietà, dell’interesse, dell’utilità, dell’originalità, degli articoli e delle rubriche che sono comparse nei 264 numeri (quanti reali? Certo più di 200) e nei venticinque anni di Cristianità. Anche soltanto una semplice elencazione degli argomenti sarebbe, oltre che monotona, troppo lunga.
Meglio vale ricordare le finalità che ci proponevamo e che abbiamo poi metodicamente perseguito.
Intanto, la rivista era, ed è, uno strumento di formazione dei militanti. Fornisce loro materiale informativo e formativo, ricco e articolato, che li mette in condizione di prepararsi per affrontare tematiche di fondo e per inquadrare gli avvenimenti all’interno di categorie corrette. Di qui l’utilità di avere a disposizione la raccolta, possibilmente completa, delle varie annate e di servirsene per preparare riunioni, incontri, conferenze…
Non dobbiamo dimenticare che Cristianità raggiunge — non senza un oneroso sforzo per gli omaggi — un numero elevato di personalità, in buona parte ecclesiastiche, come vescovi e prelati della Santa Sede. Al di là degli apprezzamenti, non moltissimi ma pure significativi, che abbiamo raccolto in questi ambienti, si tratta di un servizio ecclesiale prezioso, specie in tempi in cui, per così esprimerci, la prevalenza degl’impegni pastorali lascia poco tempo a questi nostri destinatari per la lettura e lo studio.
Riconoscimenti significativi abbiamo avuto anche da personalità della cultura che hanno mostrato, almeno, apprezzamento per la serietà dei modi e dei contenuti. Mi limiterò a ricordare i due bei pareri riportati in occasione del numero 200 di Cristianità, quello di Hans Sedlmayr (1896-1984), espresso in una lettera (8), e quello di Augusto Del Noce (1910-1989), tratto da un suo articolo su Il Tempo (9). Ma sarebbe sbagliato non ricordare anche alcune classificazioni e citazioni sbrigative, alcuni giudizi affrettati, dettati ora da invidia, ora da superficialità.
Quanto al registro stilistico degli articoli, esso fu a suo tempo indicato con l’espressione «articoli di terza pagina con le note». La formula, per quanto possa, forse, ancora dare una certa idea del loro taglio, paga oggi una certa penale al peggioramento delle terze pagine, praticamente scomparse in taluni quotidiani, molto degradate in altri, e non solo per la diversa collocazione numerica. D’altra parte, siamo andati pubblicando anche saggi di dimensioni particolarmente notevoli, talora distribuendoli su più numeri — scelta probabilmente necessaria, ma non priva per i lettori saltuari di ovvi inconvenienti —, talora pubblicando numeri monografici.
Scrivevo nel 1983 di una duplice prospettiva con la quale si poteva guardare alla raccolta completa di Cristianità: da un lato la possibilità, usandola, «[…] di ricostruire, come attraverso uno specchio, la storia politica e religiosa, culturale e sociale, del nostro paese e del mondo per un intero decennio»; dall’altro l’opportunità di seguire «[…] l’impegno di comprensione che Alleanza Cattolica ha sempre cercato di onorare; come spettatori interessati, certo, ma anche, sempre, almeno in intenzione, non come spettatori passivi, bensì come spettatori che, avendo cercato di capire, volevano, nei limiti delle loro forze e della realtà oggettiva, trasformarsi in attori, prima di tutto — ma non esclusivamente — trasmettendo a quanti potevano essere raggiunti ed erano disposti all’ascolto le informazioni disponibili e le interpretazioni elaborate».
Vi ripropongo queste considerazioni non per una mia pigrizia intellettuale, ma perché queste parole mi pare descrivano bene, dopo altri quindici anni e dopo altri 164 numeri, due possibili prospettive da cui guardare alle annate di Cristianità. In particolare, le parole relative alla seconda prospettiva mi sembrano descrivere bene ciò che abbiamo continuato a fare tenendo conto delle trasformazioni della realtà sociale e storica in cui dovevamo operare.
A proposito del decennio 1973-1983 scrivevo allora che si trattava di un periodo «ricco di mutamenti e di turbamenti, di accelerazioni e di apparenti pause, di enigmi storici e di problemi interpretativi».
Il riferimento primo era alle vicende della Chiesa. Fin dal primo numero avevamo raccolto la rinnovata condanna del comunismo da parte di alcuni vescovi italiani. Avevamo poi seguito, puntualmente, i turbamenti e gli sbandamenti propri di quella autodemolizione della Chiesa che Papa Paolo VI (1963-1978) aveva denunciato, dall’Ostpolitik vaticana alla teologia della liberazione, dalle correnti ostili alla dottrina sociale ai «tradimenti» sul piano politico. «Anche nei momenti e nelle occasioni più tristi e problematiche — scrivevo — non si è voluto tacere; ma non è mai venuto meno lo spirito “romano” del nostro sensus Ecclesiae». Con attenzione estrema, infine, e sempre più grata, abbiamo poi accolto i primi anni del pontificato di Giovanni Paolo II (1978-2005) e, in particolare, l’enorme sforzo magisteriale che, con le sue prime encicliche, da noi sempre riprese e analizzate, il Pontefice stava compiendo. Sempre, comunque, ci sosteneva il messaggio di Fatima, alla cui conoscenza abbiamo dato un contributo qualitativamente e quantitativamente rilevante.
In Italia il decennio 1973-1983 aveva conosciuto sul piano politico l’esperimento della solidarietà nazionale — il governo Andreotti-Berlinguer (10) — e la stagione del terrorismo, ma anche, e soprattutto, i due referendum per l’abrogazione del divorzio e dell’aborto: referendum che avevano dimostrato la profondità raggiunta dal processo rivoluzionario, anche grazie ai molti tradimenti di quello che era ancora comunemente chiamato il «partito cattolico», ma che avevano anche confermato la persistenza di forti resistenze nella società italiana.
Per meglio capire veniva approfondita — soprattutto da Marco Invernizzi — la storia del movimento cattolico nel nostro Paese. Per meglio informare documentavamo, anche qui praticamente soli, con puntigliosa esattezza gli andamenti elettorali, dando le cifre precise e geograficamente articolate delle astensioni, delle schede bianche e delle schede nulle, cogliendo i segni di quello che chiamavamo il «rifiuto»: quel distacco dalla classe politica che la classe politica medesima, da parte sua, era incapace di avvertire, o che, forse, si illudeva di esorcizzare con l’occultamento dei dati, preparando così il proprio suicidio futuro, anche se, come a suo tempo abbiamo mostrato, di fatto essa sarà, per così dire, suicidata dall’esterno.
Alla vigilia delle elezioni del 1983 avevamo denunciato, in un nostro manifesto, riportato anche su Cristianità, il tentativo della classe politica di trovare, con esse, una sorta di «complicità al proprio operare». Esse invece mostrarono, come ebbe subito a commentare in un lucido articolo Giovanni Cantoni, che l’abbandono della Democrazia Cristiana da parte di una buona parte del suo elettorato preannunciava come «[…] la diaspora politica del mondo cattolico è destinata a continuare a ad aggravarsi» (11).
Nel mondo e in Italia, anche se la forza dell’impero comunista appariva ancora intatta — ma noi seguivamo con attenzione, quasi isolata, le diverse resistenze che ad esso e dentro di esso si manifestavano (12) —, apparivano i segni chiari di quella IV rivoluzione di cui, partendo dall’intuizione del professor Plinio, cercavamo di cogliere e analizzare le diverse manifestazioni.
Infine, tra le tante scoperte culturali, piccole e grandi, proposte dalla rivista vorrei ricordare qui almeno la pubblicazione dei primi articoli tratti da opere di Gonzague de Reynold (1880-1970), un altro grande maestro di cui Giovanni Cantoni ci veniva svelando l’importanza all’interno del pensiero contro-rivoluzionario del secolo XX.
Nel quindicennio successivo, come detto, la storia assumeva un ritmo ancora più veloce e conosceva sconvolgimenti radicali. Diventava sempre più difficile seguirli, conoscerli, interpretarli. Il tutto seguendo sempre il nostro duplice proposito: a) parlare di ciò di cui i mezzi di comunicazione non parlano; b) sui temi di cui pure parlano, offrire interpretazioni che, valorizzando informazioni particolari — basti ricordare l’importanza di quelle che forniva Pierre Faillant de Villemarest (1922-2008) — e utilizzando buone categorie, spingessero i lettori a guardare dietro l’apparenza superficiale dei fatti.
Un evento — o insieme di eventi — al quale, o ai quali, ci siamo trovati di fronte è stato, certamente, il crollo del comunismo, apparentemente improvviso e imprevedibile, in gran parte, in realtà, preparato e organizzato, come abbiamo progressivamente documentato, passando da dubbi e sospetti inizialmente sollevati a una più precisa e informata comprensione.
Quando l’Occidente si stava entusiasmando — meglio: veniva fatto entusiasmare — per Michail Sergeevič Gorbačëv, Cristianità denunciava cosa fossero in realtà la perestroika e la glasnost. Quando pochissimi si interrogavano su che cosa potesse esserci dietro gli avvenimenti clamorosi del 1989, noi svelavamo i tentativi di ristrutturazione che accompagnavano la crisi.
Non abbiamo trascurato gli aspetti positivi dei cambiamenti: troppo avevamo combattuto, nei limiti delle nostre possibilità — soprattutto consistenti nella contro-disinformazione e nella rottura del muro del silenzio — affinché certi Paesi potessero un giorno liberarsi dall’oppressione comunista — ricordo le battaglie per la Lituania, per l’Albania, per l’Afghanistan, ma anche per gli infelici cubani e i disperati profughi vietnamiti —, perché non ci rallegrassimo della maggiore libertà comunque ottenuta. Così, pure, abbiamo sottolineato l’eclissi, quasi totale, cui il mito del comunismo, nelle sue forme consolidate, doveva da allora soggiacere. Personalmente sono ben lieto di avere registrato scene come la distruzione del muro di Berlino o l’ammaina bandiera di quella rossa con la falce e il martello dalle mura del Cremlino.
Ma, al tempo stesso, abbiamo denunciato tutti i travestimenti compiuti dalle vecchie nomenklature e dai servizi segreti nel tentativo di governare una transizione pianificata; il che non significa che sempre e ovunque al diavolo riuscissero tutte le pentole con i coperchi, perché nella storia non tutto può essere controllato quando certi meccanismi vengono messi in moto. Questo nostro sforzo ci ha permesso di non stupirci e di non fare analisi superficiali quando nella maggior parte dei Paesi ex-comunisti gli stessi comunisti sono tornati al potere, secondo la formula comunemente usata e sostanzialmente falsa, giacché la verità era che questo potere essi, di fatto, non avevano praticamente mai lasciato. E, infine, illustrando gli esiti di disintegrazione del corpo sociale raggiunti in settant’anni di governo comunista in Russia. Il tutto restando fedeli a quel nostro animale totemico, secondo una vecchia e ripetuta immagine del reggente nazionale: il grillo parlante.
La categoria interpretativa della IV Rivoluzione ci ha permesso di inquadrare e presentare correttamente molti aspetti delle nuove modalità di azione della Rivoluzione, e di seguire, pure, tutta la complessa problematica legata ai processi di globalizzazione planetaria dell’economia, o piuttosto, della finanza; anche se quest’ultimo è un terreno nel quale dobbiamo sforzarci di compiere ulteriori e non facili approfondimenti.
Sempre a livello internazionale, la nostra attenzione per la tragedia libanese è stata forte e continua, sia per il carattere esemplare della realtà che si era voluto distruggere, sia per una vicinanza non solo sentimentale alle lotte dei cristiani libanesi. Accosterei a questo tema quello della Guerra del Golfo, della quale abbiamo mostrato con de Villemarest i retroscena e la manipolazione dell’opinione pubblica mondiale. Penso che il problema dei rapporti con la realtà islamica, compresa quella ormai molto consistente in Europa e anche in Italia, dovrà essere ancor più, in futuro, al centro della nostra attenzione. Siamo del resto in grado di affrontarlo con tutte le articolazioni che il complesso tema richiede, anche per rettamente intendere dichiarazioni e atteggiamenti del regnante pontefice; senza simpatie filo-islamiche, ma anche senza comportamenti che finiscono per essere puramente folkloristici.
Intanto, grazie soprattutto a Massimo Introvigne, mettevamo a fuoco il fenomeno dei nuovi movimenti religiosi, sia con articoli di inquadramento generale, dalla solidissima base informativa e dall’equilibrata valutazione, sia con puntuali e demistificanti interventi su alcuni episodi clamorosi. Al principio, ricordo, qualche lettore trovò eccessiva l’attenzione dedicata a questo tema; ma esso è poi venuto imponendosi all’attenzione dell’opinione pubblica, anche se in maniera confusa o addirittura fuorviante. Pure notevole mi pare lo sforzo fatto per comprendere meglio gli Stati Uniti d’America e soprattutto un filone interessante — quello di cui fu grande esponente Russell Amos Kirk (1918-1994) — che basta, fra l’altro, a dimostrare quanto sia banale ed errato un antiamericanismo generico, purtroppo largamente diffuso anche in ambienti a noi per altri versi vicini.
Quanto alla Chiesa, è aumentato ed è diventato sempre più sistematico l’impegno a fare eco al magistero pontificio, falsato dai media e ignorato o travisato anche da molti, troppi, di coloro che, per posizione gerarchica ecclesiale, sarebbero deputati a svolgere questo compito. In certo senso complementare è stata la parallela pubblicazione di testi del magistero episcopale.
Si tratta di un aspetto fondamentale, centrale, fondante della nostra preparazione, anche spirituale; voglio dire che li avremmo comunque pubblicati. Ma ciò nulla toglie alla constatazione, amara, che così facendo abbiamo pure svolto un’opera di supplenza.
Ai politici italiani abbiamo cercato di offrire molto, a cominciare da un’analisi seria del significato di «tangentopoli» e della collegata tendenza verso il ripetersi di governi tecnici, non pura risposta alla contingenza, ma espressione di progetti tecnocratici, nazionali e internazionali, ben precisi. Abbiamo tempestivamente offerto analisi serie dei risultati elettorali, anche se va riconosciuto che non ci è stata data troppa attenzione proprio da quelle forze politiche cui volevamo trasmettere il nostro messaggio.
Inoltre, su alcuni problemi fondamentali della nostra vita nazionale abbiamo offerto non solo analisi accurate, ma anche proposte operative concrete: basti qui fare l’esempio del tema della giustizia, con i decisivi contributi di Alfredo Mantovano e di Mauro Ronco, ma anche di altri nostri militanti operatori professionali del settore. Precisi materiali abbiamo offerto sul problema della droga e sulle proposte di liberalizzazione o di legalizzazione. Utile anche a noi, per chiarirci bene le idee, è stata la notevole riflessione sui grandi temi della scienza politica, grazie anche, per limitarmi a un esempio, agli studi, da noi ripresi, di José Pedro Galvão de Sousa (1912-1992). Certo, altri temi attendono un maggiore impegno di analisi da parte nostra: cito quello della scuola come problema forse un po’ troppo trascurato e che ora si sta imponendo come uno dei mezzi di attacco alle giovani generazioni italiane.
Sul piano della ricostruzione della verità storica molti sono stati i contributi, sul Medioevo, per esempio, o sulla Rivoluzione Francese — il 1989 era l’anno del bicentenario —, sulla Vandea, sulle insorgenze, sul movimento cattolico. Né è da trascurare la solida polemica contro aspetti dello scientismo in diverse discipline.
Ma una rassegna delle tematiche culturali affrontate è qui impossibile, anche perché dovremmo tenere presenti tutte le numerose recensioni apparse, in misura crescente, nelle pagine della rivista. Non posso però non sottolineare la loro impostazione onesta e rigorosa, sempre attenta a dare ai lettori un’idea precisa dell’opera recensita e del suo contenuto. Un merito non da poco in un’epoca in cui dilagano le recensioni superficiali e generiche, dalla cui lettura non si riesce spesso neppure a sapere qualcosa del contenuto del libro, mentre i giudizi sono non di rado dettati da rapporti di amicizia, talora, meglio, di complicità fra recensore e recensito.
Una semplice occhiata agli indici annuali basta a dimostrare anche l’impegno di documentazione: molti sono i testi e i documenti che abbiamo fatto conoscere, integralmente, ai nostri lettori.
Né vorrei dimenticare una novità, ormai consolidata peraltro, degli ultimi anni della rivista: la rubrica con le notizie della «buona battaglia», delle conferenze, cioè, degli incontri e delle manifestazioni organizzate da Alleanza Cattolica o alle quali esponenti dell’associazione sono stati, in quanto tali, invitati a parlare. Il numero crescente delle voci di questa rubrica è certo un buon segno della vitalità associativa e una prova degli spazi maggiori che si sono aperti.
L’evocazione dei temi toccati, proposti, analizzati da Cristianità, delle pagine poco note o dimenticate portate alla luce su di essa, della documentazione pubblicata, potrebbe durare ancora molto a lungo. Non è possibile farlo, evidentemente, in questa sede. Suggerisco a ciascuno di voi di compiere un proprio percorso di rilettura dei vecchi numeri, magari durante l’estate. Colmerete così i vuoti grandi e piccoli di questa mia parziale selezione tematica e avrete il piacere intellettuale della rilettura.
Ma proprio le moltissime cose di cui debbo tacere, le molteplici articolazioni di un discorso sempre più vario, complesso, tendenzialmente completo, confermano l’assunto iniziale sulla straordinaria importanza che i 264 numeri di Cristianità hanno avuto in questi venticinque anni.
Sì, un posticino nella storia la rivista e l’associazione se lo sono guadagnati. Sì, pur con la consapevolezza che certamente avremmo potuto fare di meglio, non abbiamo lavorato invano; non abbiamo speso inutilmente una buona parte della nostra vita. E non è considerazione da poco: ci serva da stimolo per continuare sulla strada indicata ventiquattro anni fa nel numero 0: preghiera, azione, sacrificio.
Note:
1) Cfr. Marco Tangheroni, Per risvegliare la intelligenza e la volontà dei cattolici italiani, in Cristianità, anno XI, n. 100, agosto-settembre-ottobre 1983, pp. 6-8. Le citazioni senza indicazione fanno riferimento a questo articolo.
2) «Preghiera, azione, sacrificio», ibid., anno I, n. 0, luglio-agosto 1973, pp. 1 e 10 (p. 10).
3) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira e Sociedad Chilena de Defensa de la Tradición, Familia y Propiedad, Il crepuscolo artificiale del Cile cattolico, con una Prefazione di P. Corrêa de Oliveira, trad. it., Cristianità, Piacenza 1973.
4) Cfr. Fabio Vidigal Xavier da Silveira, Frei, il Kerensky cileno, con una Prefazione di P. Corrêa de Oliveira, trad. it., Cristianità, Piacenza 1973.
5) Cfr. P. Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, trad. it., 2a ed. it., con una lettera-prefazione di S.E. mons. Romolo Carboni (1911-1999), arcivescovo titolare di Sidone e nunzio apostolico in Perù, e con una Prefazione dell’autore per questa edizione italiana, e con un saggio introduttivo su L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, di G. Cantoni, Cristianità, Piacenza 1972.
6) Cfr. card. József Mindszenty, Memorie, trad. it., Rusconi, Milano 1975.
7) Cfr. Roberto de Mattei, L’esempio inglese e il dopo-divorzio in Italia, in Cristianità, anno II, n. 4, marzo-aprile 1974, pp. 11-12 (p. 11).
8) Cfr. Hans Sedlmayr, Lettera del 16-5-1976, riportata parzialmente in «Cristianità» n. 200 e «nuova evangelizzazione», ibid., anno XIX, n. 200, dicembre 1991, p. 24.
9) Cfr. Augusto Del Noce, Riflessioni sulla «Lezione italiana», in Il Tempo, Roma 4-6-1980, riportata in ibid., anno VIII, n. 62-63, giugno-luglio 1980, pp. 5-6.
10) Il riferimento è al quarto governo presieduto dall’on. Giulio Andreotti (1919-2013), durato circa un anno (1978-1979) e appoggiato esternamente dal Partito Comunista Italiano, di cui era segretario nazionale l’on. Enrico Berlinguer (1922-1984). Cfr. Contro il governo rosso Andreotti-Berlinguer, in Cristianità, anno VI, n. 36, aprile 1978, pp. 1-2.
11) Cfr. G. Cantoni, Il problema politico dei cattolici italiani, ibid., anno XI, n. 98-99, giugno-luglio 1983, pp. 1-4 (p. 3).
12) Cfr. Marco Invernizzi, Le «Resistenze dimenticate». Per rompere la congiura del silenzio sulle opposizioni attive contro il social comunismo una CIRPO anche in Italia (cronaca dell’omonimo convegno organizzato da Alleanza Cattolica a Milano il 1° dicembre 1984), anno XII, n. 116, dicembre 1984, pp. 3-5.