Di Adriano dell’Asta da La Nuova Europa del 21/09/2022
Dopo quasi sette mesi di guerra si pensava che si potesse aprire qualche spiraglio di luce e qualcuno (negli ultimi giorni, in particolare, Erdoğan) già parlava di una pace che diventava sempre più possibile. Nel recente vertice di Samarcanda, molti segnali di insofferenza verso la guerra erano venuti anche da paesi non propriamente vicini all’Occidente (soprattutto l’India).
Questa mattina un discorso durissimo e minaccioso (rinviato nelle ore precedenti come a tenere sospeso tutto il mondo e, come ai tempi di Stalin, impedire alla gente di dormire di notte aspettando le sue decisioni) ci precipita quasi già nell’abisso della guerra e nella distruzione della realtà, perché, nell’attesa sbigottita che la guerra possa davvero espandersi a tutto il mondo, un ulteriore passo sulla via della distruzione è già stato fatto; il quadro che il presidente Putin ha presentato davanti al mondo si distingue infatti per un clamoroso stravolgimento della realtà: il paese aggressore si presenta come aggredito e accerchiato (come ai tempi dell’Unione Sovietica), il paese che arresta e chiude in prigione chi non è perfettamente allineato col governo, che chiude tutti i giornali e gli organi di informazione non di regime, accusa il resto del mondo di essere preda del delirio nazista, il paese che dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina minaccia il mondo di ricorrere alle armi nucleari (mettendo ostentatamente in preallarme il sistema di difesa nucleare) accusa il resto del mondo di fargli questa stessa minaccia.
Si potrebbe continuare a lungo nell’enumerazione di questi stravolgimenti del reale, ma su tutto spicca il terrore che questa follia, apparentemente inarrestabile, cerca di incuterci; e davvero sembra che non ci sia via d’uscita se non quella di una pura reazione.
E invece una via diversa esiste: il semplice, ma radicale, ripristino della realtà.
Ripristinare, riaffermare il reale al di là delle falsificazioni della propaganda putiniana non significa semplicemente riconoscere che l’aggressore non va confuso o messo sullo stesso piano dell’aggredito, che per quanti errori l’Occidente abbia potuto compiere nulla può giustificare la tragedia in corso e quella che si minaccia: di fronte a una volontà di potenza quasi patologica e suicida (perché minacciare l’uso – oltre tutto preventivo – delle armi nucleari è esattamente minacciare il suicidio dell’umanità), tutto questo sta diventando sempre più evidente e lo si dovrà chiarire e motivare sempre più, ma non basta ancora e non è l’essenziale.
Occorre uscire dalla spirale dell’odio.
E qui dev’essere chiaro come prima cosa che, nonostante tutto quello che si sta consumando in Ucraina e a dispetto di tutto quanto il presidente Putin va predicando (e di quanto qualche occidentale ancora accredita),
i russi non sono odiati dall’Occidente; è la Russia di Putin che odia, e va chiarito che odia non solo e forse non tanto l’Occidente, quanto se stessa:
lo testimoniano i tanti russi che fuggono dal loro paese perché non possono più tollerare l’atmosfera di odio che vi si respira, lo testimoniano i tanti russi che sono messi a tacere perché non si piegano a subire questa atmosfera e si dissociano dalle azioni del proprio governo (Memorial, Jurij Dmitriev, Ivan Safronov, Dmitrij Muratov, e quanti altri ancora che non trovano spazio nelle cronache…).
Ma che sia la Russia di Putin a odiare se stessa è attestato anche da altri testimoni: in una Russia che alimenta la rinascita del culto di Stalin perché, nonostante i milioni di morti di cui fu colpevole, le avrebbe comunque restituito la grandezza perduta (e oggi nuovamente inseguita), non avrebbe nessun posto se non l’aula di un tribunale uno scrittore come Vasilij Grossman, che osava porre il problema del paragone tra Lenin, Stalin e Hitler: «Per ucciderli si è dovuto spiegare che i kulaki non erano uomini. Sì, come quando i tedeschi dicevano: i giudei non sono uomini. Allo stesso modo Lenin e Stalin: i kulaki non sono uomini. Ma questa è una menzogna! Uomini! Uomini erano. Ecco ciò che principiai a capire. Tutti uomini».
In questa Russia non avrebbe nessun posto neanche il «nazionalista» Solženicyn, che non aveva veramente alcuna simpatia per la separazione tra Ucraina e Russia, ma che, come molti dimenticano, aveva detto esplicitamente che se questo fosse stato il desiderio della maggioranza della popolazione e questo fosse stato sancito, come poi di fatto avvenne, da votazioni autenticamente libere (non come quelle assurde che vengono richieste in questi giorni, sotto occupazione militare), non vi sarebbe stata opposizione possibile.
Ma Solženicyn non avrebbe posto nella Russia di oggi soprattutto per quello che chiedeva nel suo Arcipelago GULag: che la Russia potesse conoscere un giudizio reale sui crimini dell’epoca sovietica: «È un enigma che noi contemporanei non possiamo risolvere: perché alla Germania è dato di punire i suoi malvagi e alla Russia no? Quale funesta via percorreremo se non ci sarà dato di purificarci della sozzura che marcisce dentro il nostro corpo? Che cosa potrà insegnare al mondo la Russia? (…) Non punendo, non biasimando neppure i malvagi, non ci limitiamo a proteggere la loro sterile vecchiaia, ma strappiamo dalle nuove generazioni ogni fondamento di giustizia. Ecco perché esse crescono “indifferenti”, non è colpa del “lavoro insufficiente degli educatori”. I giovani imparano che la bassezza non viene mai punita sulla terra, anzi porta sempre il benessere. Non sarà accogliente un tale paese, farà paura viverci!».
La purificazione che richiedeva Solženicyn non è avvenuta, non a caso Memorial è stata «liquidata». Questa è la realtà, che dovrebbe essere più forte di ogni discussione.
Ma neppure questo basta ancora: ripristinare la realtà significa ritrovare il suo centro, cioè l’uomo, quell’uomo che in tante discussioni geopolitiche manca ancora nella sua integralità, ridotto ai suoi interessi del momento. E qui la storia della Russia autentica e dei paesi che oggi sono minacciati dalla Russia di Putin ha ancora qualcosa da dirci.
Ha da dirci qualcosa Solženicyn che, pur criticando duramente l’Occidente, non mancherebbe oggi di ricordarci l’errore commesso dall’Occidente quando non si oppose a Hitler sperando di addomesticarlo e
non capì che sacrificarsi prima avrebbe permesso di sacrificarsi molto meno dopo.
Ha da dirci qualcosa Havel che, pur ringraziando l’Occidente per quello che faceva in difesa dei dissidenti, ci ricordava che quello non bastava se nello stesso tempo non sapevamo rispondere allo slogan allora di moda: «meglio rossi che morti», perché, diceva che un popolo che non abbia delle ragioni per le quali rischiare anche di morire non avrà mai delle ragioni per cui vivere.
Ha da dirci qualcosa san Giovanni Paolo II se prendiamo sul serio l’ammonimento che segnò il suo pontificato e la resistenza che ridestò allora nella sua Polonia e in tutto l’impero sovietico: «non abbiate paura!».
Hanno qualcosa da dirci questi testimoni, purché sia chiara una cosa ancora: che non ci invitavano allora, come non ci invitano oggi, a rispondere con la stessa logica che combattevano e che oggi dovremmo saper superare.
Se si capisce perché si può non avere paura (esiste qualcuno che ci sostiene, c’è una forza nell’uomo che lo rende irriducibile a ogni potere, quali che siano le forze dell’uno o dell’altro) e si capisce perché bisogna rischiare anche la vita (perché siamo responsabili di un dono che non ci appartiene e che non possiamo deturpare), allora saremo anche in grado di affrontare e vincere quel sacrificio che è rinunciare ai propri punti di vista e di aprirci una strada nell’impossibile. E così la riaffermazione della realtà, della verità e della giustizia non saranno fatte in nome dell’odio e le trattative diventeranno una cosa seria (anche se si deve trattare con chi si pone fuori da ogni legge).