Il programma elettorale del centro-destra di introdurre la cosiddetta “flat tax”,calcolata sul reddito famigliare, per semplificare e abbassare il peso fiscale, è sicuramente interessante ma presuppone una previa riduzione del perimetro e della spesa pubblica e deve avvenire all’interno di un’organica revisione della fiscalità, in prospettiva sussidiaria
di Maurizio Milano
Con la flat tax– un’aliquota piatta, uguale per tutti – è come andare al ristorante con un gruppo di amici, chi prende poco e chi tanto, alla fine si divide e si paga tutti la stessa cifra: alla romana, insomma. Questo è uno dei commenti che girano sul web per criticare il provvedimento. Non è affatto così: al crescere del reddito il prelievo aumenterebbe, non solo in modo lineare, ma anche progressivo, in linea con l’art. 53 della Costituzione italiana, secondo il quale «il sistema tributario è informato a criteri di progressività». La progressività del prelievo, infatti, sarebbe garantita dall’esenzione dei redditi inferiori a una certa soglia, la cosiddetta no tax area.
Supponiamo, ad esempio, che la flat tax sia fissata al 25%, con un’esenzione per i redditi inferiori ai 10 mila euro lordi annui. Su un reddito di 15 mila euro, il prelievo fiscale sarebbe pari a 1.250 euro (il 25% dei 5 mila euro al di sopra dell’area esente), con un’incidenza sul reddito complessivo pari all’8,3%; con un reddito di 20mila euro, il prelievo sarebbe invece pari a 2.500 euro (il 25% dei 10mila euro non esenti), con un’incidenza sul reddito totale pari al 12,5%; con un reddito pari a 30mila euro, il prelievo sarebbe pari a 5mila euro, con un’incidenza del 16,6%; per arrivare a un’incidenza del 20% sul totale occorrerebbe un reddito pari a 50mila euro. La progressività verrebbe meno solo per redditi molto elevati, al di sopra dei 100mila euro, dove l’incidenza del prelievo convergerebbe in modo asintotico verso la soglia fissata della flat tax, nell’esempio il 25%, come già accade ora con l’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) la cui aliquota massima,al di sopra dei 50 mila euro, è fissata per tutti al 43%. Il prelievo è modulato sommando tutti i redditi percepiti dal nucleo familiare,escludendo i redditi già tassati separatamente, e definendo una soglia di esenzione rapportata al numero di componenti. Oltre all’innegabile semplificazione rispetto alla situazione attuale, nelle proposte avanzate dal centro-destra la grande novità è che la base imponibile diventerebbe il reddito della famiglia, avvantaggiando così le famiglie con figli, riconoscendone il contributo al bene comune sul piano fiscale, cosa che al momento non avviene se non in misura simbolica con l’assegno unico e universale figli.
Nel 2018, l’economista Nicola Rossi proponeva un’aliquota flat pari al 25%, un’idea fatta propria dall’Istituto Bruno Leoni. Nella coalizione di centro-destra,invece, Forza Italia propone un’aliquota al 23%, con la possibilità di abbassarla in futuro al 15%, che è la soglia proposta dalla Lega Nord, anche se quest’ultima nella fase transitoria prevede dei limiti di reddito e delle distinzioni in base al numero dei componenti della famiglia, rendendo di fatto il sistema decisamente articolato; sul punto, Fratelli d’Italia appare meno sensibile ma non contrario in linea di principio. Al di là delle differenti soglie proposte, l’impatto fiscale complessivo dipende da come viene modulata la no tax area, anche in base al numero dei componenti del nucleo famigliare,e da come si rivedono le cosiddette tax expenditures, le spese fiscali, cioè quell’ampio ventaglio di benefici fiscali riconosciuti al contribuente, dal complesso sistema delle agevolazioni, detrazioni ed esenzioni ai vari incentivi spot come, ad esempio, quelli legati alle ristrutturazioni edilizie: in uno studio del 2016si indicano 610 misure diverse, con un impatto finanziario pari a -76,5 miliardi di euro. L’impianto fiscale attuale è estremamente farraginoso, poco trasparente e anche iniquo:una riforma organica potrebbe renderlo più semplice e comprensibile anche per il comune cittadino, che spesso vede nel fisco, e quindi nello Stato, un nemico.
Se si vuole rispettare l’invarianza del gettito nella fase di avvio – consentendo contemporaneamente una riduzione della pressione fiscale sulla generalità dei contribuenti – occorre evidentemente un allargamento della base imponibile. Non “pagare tutti per pagare meno”, secondo il vuoto slogan delle sinistre, bensì “pagare meno per pagare tutti”, seguendo l’ipotesi elaborata negli anni Settanta dall’economista statunitense Arthur Laffer (1940-): al superamento di un livello di imposizione fiscale ottimale – difficile ovviamente da individuare e probabilmente variabile nel tempo e nello spazio – le entrate dello Stato addirittura diminuirebbero, sia per l’incentivo crescente all’evasione/elusione sia perché l’eccesso di pressione fiscale farebbe contrarre l’economia. È quindi verosimile che un’unica aliquota, fissata su livelli “ragionevoli”, favorisca l’emersione di sacche di evasione/elusione – come già accadde con l’introduzione della cedolare secca sui canoni di locazione – accrescendo allo stesso tempo l’incentivo alla produzione di reddito: stime attendibili sull’emersione di redditi non dichiarati sono però molto difficili da fare e aleatorie, e probabilmente occorre tempo perché il presunto PIL sommerso possa davvero emergere. Per tali motivi, l’aliquota unica, e la soglia della no tax area, dovrebbero essere prudenzialmente fissate su livelli iniziali tali da garantire con assoluta certezza il rispetto dei vincoli di bilancio: non possiamo fare ulteriore deficit, che andrebbe ad accrescere ulteriormente un debito pubblico già fuori controllo, pari a oltre2.770 miliardi di euro, circa il 153% del PIL (Prodotto Interno Lordo). È arrivato il momento di seguire, finalmente, il principio della parità di bilancio, presente nella nostra Costituzione (vedi art. 81), ma di fatto mai rispettato col pretesto del ciclo economico sfavorevole, come avvenuto durante l’emergenza sanitaria. A tendere, la crescita della torta della ricchezza favorita dalla flat tax potrebbe consentire di abbassare progressivamente la soglia dell’imposta unica, per ridurre l’esorbitante pressione fiscale del nostro Paese: un processo certamente lungo e non esente da complicazioni, però l’esperienza positiva di molti altri Paesi che l’hanno adottata, dall’area baltica ai paesi dell’est Europa ad alcuni Stati degli Usa, parrebbe incoraggiante.
Dati i vincoli di Bilancio molto stretti, la revisione del sistema fiscale dovrebbe quindi essere obbligatoriamente preceduta da una spending review che provveda a individuare, e tagliare, gli sprechi, le molteplici inefficienze, le spese improduttive e clientelari per abbassare progressivamente l’incidenza della spesa pubblica sul PIL. In Italia la spesa pubblica ha superato i mille miliardi di euro – con una spesa corrente aumentata di circa 100 miliardi tra il 2019 e il 2022, durante l’epidemia, a conferma dell’ulteriore estensione del perimetro dello Stato nella vita economica e sociale –, con un rapporto spesa pubblica/PIL balzato dal 48,5% pre-CoViD al 54% attuale. Come ben spiegava il prof. Antonio Martino (1942-2022) nel suo Noi e il fisco. La crescita della fiscalità arbitraria: cause, conseguenze, rimedi (ed. Studio Tesi, Udine 1987), ripreso in un ottimo articolo di Ferdinando Leotta sulla rivista Cristianità, la misura effettiva della fiscalità non è data dal totale delle entrate – cioè la fiscalità esplicita, al momento pari a circa il 43,3% del PIL–, ma dall’ammontare complessivo della spesa pubblica — ovvero la fiscalità implicita. Il disavanzo pubblico rientra in quest’ultima accezione, perché andando ad incrementare il debito pubblico rappresenta un’«imposta diffusa», «invisibile» agli occhi dei più, e «[…] “a scoppio ritardato”, nel senso che l’effettivo pagamento del disavanzo viene spostato avanti nel tempo e grava sui contribuenti futuri». L’incidenza della spesa pubblica sul PIL è quindi una proxy significativa della pressione fiscale effettiva che grava sul Paese: un livello del 54%significa che oltre metà della ricchezza prodotta è intermediata dai pubblici poteri, cioè dalla classe politica e burocratica. Anche senza toccare il sistema fiscale, la riduzione progressiva della spesa pubblica sul PIL,consentita da un restringimento dell’interventismo pubblico nella vita sociale ed economica del Paese, corrisponderebbe de facto a uno sgravio fiscale a livello implicito, premessa necessaria per potere abbassare anche il peso della pressione fiscale esplicita.
La scelta di abbassare la pressione fiscale prima di tagliare la spesa pubblica – «starving the beast» – corrisponde all’idea, propria del mondo conservatore statunitense e “popolarizzata” da Ronald Reagan (1911-2004), di «affamare la bestia», riferendosi al governo federale: siccome il governo è come un bimbo capriccioso che non sa porsi dei limiti occorre tagliare subito le entrate fiscali per forzarlo a limitare in modo disciplinato le spese. A livello di principio, l’idea è del tutto condivisibile ma probabilmente non applicabile oggi in Italia, dati gli stretti vincoli di bilancio sopra richiamati. Sul punto è arrivato il monito del presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, che ha richiamato alla priorità assoluta di gestire la grave crisi energetica in corso, criticando duramente l’idea di introdurre la flat tax e di intervenire sul fronte pensionistico in modo incompatibile col mantenimento in sicurezza dei conti pubblici. Ed è vero che abbassare sensibilmente la pressione fiscale esplicita mantenendo la spesa pubblica sui livelli correnti, o addirittura aumentarla, genererebbe deficit e inflazione, entrambe da considerarsi come tasse future ed occulte: una flat tax così strutturata si ridurrebbe quindi a un semplice specchietto per le allodole.
Ci sono spazi di manovra? All’interno dell’Unione Europea a 27, l’Italia vanta alcuni primati assai poco invidiabili: siamo primi per spesa interessi/PIL e per tassazione del lavoro; secondi per spesa pubblica/PIL; terzi per tassazione energetica; quarti per pressione fiscale esplicita; ventiquattresimi per qualità servizi pubblici; ultimi per fiducia e interazione digitale con la Pubblica amministrazione. Tassiamo tanto, tassiamo male; spendiamo tanto, spendiamo male: sì, ci sono spazi ampi di riforma di uno Stato sempre più assistenziale e mortificante di una corretta sussidiarietà. L’ipotesi di introdurre la flat tax in Italia merita quindi di essere approfondita, ma dev’essere obbligatoriamente preceduta da un’equa ed efficace revisione della spesa pubblica, all’interno di una generale e organica revisione del sistema fiscale nella prospettiva del federalismo fiscale, in modo da salvaguardare il principio di sussidiarietà a favore delle comunità locali e del buongoverno. Agire subito, e solo, sulla pressione fiscale esplicita comporterebbe meri trasferimenti tra i contribuenti – a parità di gettito – o, ancora peggio, aumenti del deficit di bilancio, con rischi di scivoloni finanziari come quelli avvenuti recentemente nel Regno Unito, che hanno costretto la premier Liz Truss a fare marcia indietro dopo avere promesso tagli fiscali finanziati a debito, che hanno fatto crollare le quotazioni delle sterlina e dei Gilts, i titoli del debito sovrano inglese.
Per definire una transizione realistica e non accidentata occorre avere ben chiaro non solo il punto di arrivo, ma anche la situazione di partenza e i molti vincoli. La transizione dallo Stato moderno,centralistico e dirigistico, clientelare e assistenziale, caratterizzato da un peso pubblico molto elevato, a un’economia e società più libere, non può essere compiuta con la bacchetta magica o con sole manovre dal lato delle entrate, nel giro di pochi anni; per di più in presenza di un debito pubblico altissimo, tenuto a galla dagli acquisti della Banca Centrale Europea, dai molti vincoli esterni legati al PNRR (qui e qui), dalla grave crisi energetica in atto e da una demografia sfavorevole. Occorre un cambio di paradigma culturale delle dirigenze politiche e industriali, a partire da un centro-destra che si appresta ad assumere la guida del Paese ma che appare anch’esso, a volte non meno delle sinistre, sedotto dalle sirene dello Stato imprenditore, pianificatore e assistenziale. Il rischio è che il mondo politico e industriale, attratto dalle risorse del Recovery Fund, si lanci nel solito assalto alla diligenza, secondo logiche clientelari o perseguendo scelte di investimento ideologiche. Con risorse fresche da spendere, i «socialisti di tutti i partiti» – riprendendo quanto scritto nel 1944 dal celebre economista austriaco, Friedrich August von Hayek (1899-1992),nella dedica al suo The Road to Serfdom – potrebbero continuare ad avanzare imperterriti lungo «la strada verso la schiavitù», lasciando alla fine il Paese ancora più indebitato e statalizzato.
Urge quindi una conversione verso una prospettiva davvero sussidiaria, rispettosa della famiglia e della proprietà privata, del risparmio e della libertà economica, abbandonando velleità dirigistiche e pianificatrici. Ci sono le condizioni perché ciò possa avvenire nel giro di pochi anni? Temo di no; se il nuovo governo di centro-destra, tuttavia, avrà la forza di non avventurarsi ulteriormente lungo la strada sbagliata, e di abbozzare i primi passi nella direzione giusta, sarebbe già tanto. Occorre, per lo meno, iniziare a invertire tendenza.
Venerdì, 7 ottobre 2022