Lo scorso 11 ottobre Papa Francesco ha commemorato il 60° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II. Un concilio vittima, ancora oggi, delle opposte ermeneutiche della rottura, mentre reimpostò la Chiesa in chiave missionaria in vista della nuova evangelizzazione
di Marco Invernizzi
Nei giorni scorsi, l’11 ottobre, il Santo Padre ha voluto ricordare il suo predecessore san Giovanni XXIII in occasione della sua memoria liturgica e del 60° anniversario del discorso con cui inaugurò il Concilio Ecumenico Vaticano II, l’11 ottobre 1962.
Quel discorso fu molto importante, perché spiegò il senso del Concilio indicando l’obiettivo che il Vaticano II avrebbe dovuto perseguire. Lo scopo era quello di “aggiornare” la presenza della Chiesa in un mondo che stava profondamente cambiando. San Giovanni XXIII comprese quello che il suo predecessore Pio XII aveva già spiegato il 10 febbraio 1952, e cioè che il compito della Chiesa era di trasformare in umano un mondo ritornato selvatico, cioè selvaggio, perché aveva rifiutato il Vangelo e voltato le spalle a quella civiltà cristiana nata appunto dalla prima evangelizzazione.
Vale la pena ricordare le parole di Papa Giovanni: «Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera, che la nostra età esige… È necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata».
Purtroppo, alle esplicite intenzioni di Papa Giovanni e dell’altro Papa che continuò l’opera del Concilio, san Paolo VI, si oppose “lo spirito del Concilio”, cioè un’interpretazione rivoluzionaria dello stesso che lo contrappose alla storia della Chiesa precedente, con un atteggiamento di rottura, di divisione, di costante polemica. Accadde così quello che, a proposito del concilio, Papa Francesco ha denunciato in questo importante discorso dell’11 ottobre 2022: “conservatori” contro “progressisti”, “destra” contro “sinistra”, chi guardava solo indietro nella vita della Chiesa e chi correva in avanti ebbro di novità “mondane”, cioè ispirate allo spirito del mondo e non a quello del Vangelo.
A queste due letture sbagliate del Vaticano II si oppose sempre il Magistero dei Papi. Lo fecero Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, fino ad arrivare alla definizione che Papa Ratzinger diede, il 22 dicembre 2005, della «ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa». Il concilio voleva riformare la presenza e l’azione della Chiesa nel mondo, ma in continuità con la sua storia e con la Tradizione, quella con la maiuscola.
Nel suo discorso di sessant’anni fa, Papa Giovanni spiegò molto bene che non si doveva mettere in discussione la dottrina, che era santa, ma portarla a chi non veniva più in chiesa, a quell’uomo moderno che si era distaccato dalle sue radici. Si trattava di trasformare in senso missionario la Chiesa di una società cristiana che non c’era più. Giovanni Paolo II dirà che quello fu il primo discorso della nuova evangelizzazione, anche se quest’ultima si può senz’altro fare iniziare con i tanti interventi di Papa Pacelli dedicati alla crisi del mondo moderno e alla necessità di una sua conversione, rivolti in particolare al laicato.
Nel suo insegnamento Francesco riprende questi temi. La “Chiesa in uscita” è quella missionaria, proiettata non solo in terre lontane, dove non è ancora stato annunciato il Vangelo, ma anche da noi, dove vivono ormai milioni di persone che ignorano Cristo e la sua dottrina. Le “periferie esistenziali” sono anche gli uomini post-cristiani, poveri perché privi della luce e della gioia che viene dal Signore, ai quali bisogna offrire la proposta della felicità eterna. Come ha scritto Papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium (2013), «tutti hanno il diritto di ricevere il Vangelo. I cristiani hanno il dovere di annunciarlo senza escludere nessuno, non come chi impone un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia, segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile. La Chiesa non cresce per proselitismo ma “per attrazione”» (n.14).
La Chiesa non cambia, ma è semper reformanda, come diceva il card. Ratzinger nel libro-intervista Rapporto sulla fede a Vittorio Messori, e il concilio ha voluto indicarle la via della nuova evangelizzazione, una via fatta di riforme e di continuità. Per questo è sbagliato, sostiene Papa Francesco, sia adottare lo spirito del mondo, e quindi “mondanizzarsi”, sia guardare al passato in modo dialettico, come se la Chiesa oggi non fosse più il Corpo mistico di Cristo e non fosse più in grado di rinnovare, in Cristo, il mondo contemporaneo.
La crisi attuale nella Chiesa mi pare derivi proprio da questi due atteggiamenti sbagliati, che impediscono alla Sposa di Cristo di essere quel lievito capace di santificare nuovamente un mondo diventato estraneo al Vangelo, operando quella consecratio mundi di cui parlò magnificamente san Paolo VI il 23 aprile 1969, riprendendo i discorsi al laicato di Pio XII. L’espressione piana era stata anche ripresa dal concilio nella Lumen gentium. Concludo citando ancora una volta il Papa emerito Benedetto XVI, per ricordare come la missione della Chiesa può essere anche la salvezza temporale per i popoli, salvaguardandone le peculiarità e aiutando il perseguimento della pace: «Una Chiesa missionaria, che si sa tenuta ad annunciare il suo messaggio a tutti i popoli, deve impegnarsi per la libertà della fede. Essa vuole trasmettere il dono della verità che esiste per tutti ed assicura al contempo i popoli e i loro governi di non voler distruggere con ciò la loro identità e le loro culture, ma invece porta loro una risposta che, nel loro intimo, aspettano – una risposta con cui la molteplicità delle culture non si perde, ma cresce invece l’unità tra gli uomini e così anche la pace tra i popoli» (22 dicembre 2005).
Lunedì, 17 ottobre 2022