Massimo Introvigne, Cristianità n. 141 (1987)
Intervista con il dott. Aradom Tedla
Genocidio comunista in Etiopia
Il dottor Aradom Tedla è presidente dell’African Human Rights Committee, un comitato internazionale composto da personalità di numerosi paesi africani il cui scopo consiste nel denunciare le violazioni dei diritti umani e della libertà religiosa in Africa. Il comitato ha organizzato il 25 settembre 1986 un convegno presso il Senato degli Stati Uniti sul tema Political Turmoils and Repression in Africa, «Moti politici e repressione in Africa», con la partecipazione di numerose personalità politiche di diversi paesi.
Al dottor Aradom Tedla chiedo di esporre la situazione in Etiopia, paese dove ha rivestito diverse cariche pubbliche — fino a quella di direttore generale del ministero della Giustizia — e da cui, dopo essere stato incarcerato dal regime marxista del colonnello Menghistu Hailé Mariam, è riuscito a fuggire nell’estate del 1980, con un’avventurosa fuga a piedi verso il Sudan, che ha raccontato ai lettori dell’edizione americana del popolare Reader’s Digest nel dicembre del 1983.
D. Da dove comincia la storia della rivoluzione in Etiopia?
R. Come sa, la rivoluzione è scoppiata nel 1974, in una situazione in cui esisteva nel paese una grave crisi economica — con un tasso preoccupante di inflazione e di disoccupazione, dovuto anche alla chiusura del Canale di Suez, fondamentale per la nostra economia, in seguito al conflitto arabo-israeliano — e una generale insoddisfazione per la gestione della crisi da parte del governo dell’anziano imperatore Hailé Selassié. Di questa insoddisfazione, viva soprattutto nell’esercito, si è fatto portavoce un comitato composto da ottanta ufficiali, il DERG, il Consiglio Militare Amministrativo Provvisorio, che ha realizzato un colpo di Stato sostanzialmente incruento. Gli stessi vertici dell’apparato amministrativo dello Stato, me compreso, sono rimasti al loro posto e hanno, in genere, salutato con favore il golpe.
D. Non vi è stata una resistenza monarchica?
R. No, per il buon motivo che il DERG, al momento del colpo di Stato nel febbraio del 1974, non dichiarava apertamente di voler proclamare la repubblica. Si discuteva l’abdi- cazione dell’imperatore e la sua sostituzione con uno dei figli, che si trovava in Svizzera. Soltanto nel settembre del 1974 fu proclamata la repubblica. Quanto al Negus, era detenuto in una caserma, e venne comunicato verso la fine del 1974 che era morto di malattia, per l’esattezza era morto per mancanza di cure in quanto non si era potuto rintracciare in tempo il suo medico personale e l’imperatore non voleva essere curato da nessun altro. La verità sulla vicenda non si è mai saputa. Oggi la famiglia reale viene trattata con severità. La figlia favorita del Negus, Tunane Work, che ha più di settant’anni, viene tenuta in carcere con le sue quattro figlie e i nipoti; questi ultimi escono per andare a scuola, ma poi tornano in carcere. Una delle figlie della principessa Tunane Work non ha resistito alla situazione e al trattamento inumano del carcere e si è suicidata.
D. La rivoluzione del 1974 aveva un carattere apertamente marxista?
R. No: la maggioranza dei militari del DERG non era marxista. È interessante notare come in Etiopia si è ripetuta la storia di quasi tutte le rivoluzioni del nostro secolo: una piccola minoranza marxista è riuscita a prevalere eliminando a poco a poco le altre componenti della rivoluzione. Degli ottanta membri del DERG nel 1974 solo sette occupavano ancora cariche pubbliche nel 1980; gli altri — i non marxisti — erano stati eliminati e spesso uccisi. Il presidente del DERG era il generale Amman Mikaél Andom, molto popolare nell’esercito e nel paese, che nel settembre del 1974 fu proclamato presidente della repubblica. Durò solo due mesi: tentò di opporsi alla scalata verso il potere del gruppo marxista e nel novembre del 1974 le truppe fedeli al colonnello Menghistu Hailé Mariam, che era vicepresidente del DERG, circondarono la sua casa per arrestarlo; fu ucciso mentre si difendeva con le armi in pugno. Gli successe Tafere Banti, il cui governo, nel dicembre del 1974, si affrettò a dichiarare che l’Etiopia era un paese socialista ma non comunista. Credo che Tafere Banti lo pensasse davvero, tanto che nel 1976, quando fu proclamato ufficialmente il carattere marxista-leninista dello Stato in Etiopia, fu ucciso. Nel frattempo, nella primavera del 1975, era stata praticamente abolita la proprietà privata insieme alla libertà di commercio, con l’esclusione degli esercizi commerciali di dimensioni minime, ed era cominciata la sovietizzazione del paese.
D. Sui giornali occidentali si comincia a parlare di atrocità in Etiopia. Può fare un quadro della situazione?
R. L’inizio del terrore in Etiopia coincide con l’arrivo di centinaia di esperti sovietici e della Germania Orientale, il cui primo suggerimento è stato quello di stroncare ogni possibile opposizione, anche semplicemente potenziale, nelle città. Negli anni 1977 e 1978 almeno diecimila persone, secondo una stima molto prudenziale, sono state uccise, eliminando dal paese i quadri dirigenti e molte personalità religiose. Oggi si può dire che le città sono totalmente controllate dal regime attraverso i comitati di quartiere, i famigerati kebelé, senza il cui permesso non è possibile acquistare cibo o uscire dall’area cittadina. Il sistema è efficace e ritengo impossibile l’organizzazione di una rete di resistenza urbana in Etiopia.
Successivamente sono cominciati i due programmi di «rilocazione» e di «villaggizzazione» delle popolazioni rurali, programmi che hanno acquistato i caratteri di un vero e proprio genocidio. Il programma di «rilocazione» interessa tutti gli abitanti di alcune province sospettate di simpatia verso le varie guerriglie separatiste che costituiscono un grave problema per il regime. I villaggi di queste province vengono rasi al suolo o bruciati e gli abitanti caricati, con metodi piuttosto sbrigativi, su aerei militari sovietici e «rilocati» a migliaia di chilometri di distanza in villaggi collettivizzati. Il programma ha finora interessato, secondo stime diverse, da seicentomila a un milione di persone ed è stato condotto con una brutalità denunciata da tutte le organizzazioni umanitarie internazionali. Vi sono continue segnalazioni di casi di persone morte per soffocamento negli aerei, dove vengono ammassate fino al doppio delle capacità di carico del velivolo e non riescono neppure a respirare. La «villaggizzazione» interessa invece potenzialmente tutti i contadini dell’Etiopia, che tradizionalmente vivevano sparsi in molti piccoli o piccolissimi insediamenti isolati. Ora li si obbliga a concentrarsi in nuovi villaggi rigidamente collettivizzati dove si lavora e si vive con una disciplina di tipo militare, con orari di dodici ore al giorno di lavoro per sette giorni alla settimana, senza contare l’indottrinamento politico obbligatorio. Ogni minima infrazione è punita con la morte. Il governo afferma che la «villaggizzazione» ha almeno il vantaggio di favorire la lotta contro l’analfabetismo ma, come è avvenuto in altri paesi, l’«alfabetizzazione» nasconde l’indottrinamento comunista. Varie organizzazioni internazionali hanno provato a stimare il costo umano del comunismo in Etiopia: le stime vanno da quattrocentocinquantamila — una valutazione estremamente prudenziale — a oltre un milione di morti. Bisogna aggiungere oltre due milioni di rifugiati o di esiliati. Quello che è certo è che si tratta di uno dei maggiori genocidi del nostro tempo, che trova termini di paragone solo nell’Unione Sovietica e nella Cambogia di Pol Pot.
D. Tutto il mondo ha giudicato follie i programmi di «rilocazione» e di «villaggizzazione» del governo comunista del colonnello Menghistu, il cui costo economico è enorme. Perché, dunque, la loro realizzazione continua?
R. È vero che il costo economico di tali programmi è tremendo: occorreranno lustri perché l’agricoltura torni ai livelli di produzione del periodo precedente al 1974, che pure non erano soddisfacenti. I programmi di «rilocazione» e di collettivizzazione forzata sono la causa principale della fame in Etiopia: le cause naturali sono soltanto secondarie. È anche vero che tali programmi continuano. Nel dicembre del 1985 il colonnello Menghistu ha annunciato una revisione del piano di «rilocazione» a fronte delle critiche internazionali, ma di fatto le «rilocazioni» continuano: al massimo si può dire che il ritmo è lievemente diminuito. E la «villaggizzazione», forse più letale delle stesse «rilocazioni», non ha perso di intensità. La ragione ufficiale del programma è che si tratta dell’unico modo per impedire che il regime sia travolto dalle guerriglie separatiste e che sorga un’opposizione anche nelle zone rurali finora non coinvolte nella guerriglia, posto che tutti i contadini sono considerati come potenziali oppositori. È vero: ma la motivazione autentica è più profonda. Spostando i contadini dai loro insediamenti tradizionali si vuole soprattutto sradicarli dalle loro radici culturali e religiose per plasmare l’«uomo nuovo» comunista. In Etiopia, paese profondamente religioso, è forse l’unica ricetta possibile per applicare la regola leninista che insegna a estirpare le radici sociali della religione.
D. Vi è anche una persecuzione religiosa in senso stretto?
R. I libri di testo delle scuole elementari insegnano ai bambini che la religione è il «cancro del popolo», una «geniale» formula del colonnello Menghistu che ha sostituito quella marxista classica di «oppio del popolo». La Chiesa copta, maggioritaria in Etiopia e di cui faccio parte, è stata attaccata per prima con le formule adottate nell’Europa Orientale a proposito delle Chiese ortodosse: il patriarca Basilios e molti vescovi sono stati dichiarati decaduti o deposti — di alcuni non si hanno più notizie — e sostituiti con vescovi nominati dal governo, che operano in patria e all’estero come propagandisti del regime. I luterani sono stati colpiti molto duramente e lamentano la perdita di cinquecentoventisei chiese chiuse o distrutte. Con la Chiesa cattolica il regime va più cauto, perché sa che la persecuzione ha una maggiore risonanza internazionale; il fatto che il vescovo Paulos Tzadua sia stato creato cardinale ha costituito un’ulteriore e intelligente misura di protezione della Chiesa etiopica da parte di Roma. Tuttavia, anche i cattolici hanno perso tutte le loro istituzioni sociali — scuole, ospedali, dispensari — e hanno avuto vittime e personalità incarcerate; numerosi missionari stranieri sono stati espulsi e gli ordini religiosi sono particolarmente vessati.
D. Come opera la guerriglia anti-governativa? E vero che i suoi capi sono anch’essi marxisti?
R. I movimenti di guerriglia dell’Eritrea — il più grande —, del Tigrai, dell’Ogaden e dell’Ororno sono movimenti separatisti, che reclamano l’indipendenza o almeno una larga autonomia per territori e per popoli che etnicamente e linguisticamente sono molto diversi dagli etiopi. Per l’Eritrea le Nazioni Unite avevano previsto uno Stato autonomo federato all’Etiopia, come del resto era avvenuto durante l’occupazione italiana; nel 1962 il Negus ha invece proclamato l’annessione dell’Eritrea all’Etiopia dando origine al movimento separatista. La guerriglia separatista esisteva già prima della rivoluzione del 1974, ma dopo la rivoluzione il malcontento popolare verso il regime ha moltiplicato le sue forze. La situazione militare in Eritrea è molto preoccupante per il regime: otto offensive con grande impiego di uomini, mezzi e consiglieri sovietici, di cui la sesta fu guidata personalmente dallo stesso colonnello Menghistu, non sono riuscite ad avere ragione della guerriglia, e ora se ne prepara una nona. La guerriglia eritrea è divisa in due organizzazioni rivali, l’ELF, il Fronte di Liberazione Eritreo, e l’EPLF, il Fronte di Liberazione Popolare Eritreo; entrambi sono fronti con diversi componenti, e la divisione è dovuta a questioni personali e di leadership più che a ragioni ideologiche. È vero che in tutti questi movimenti è presente una componente marxista; è difficile però valutarne la consistenza — può essere facile sopravvalutarla, perché è l’unica che fa propaganda all’estero — e in ogni caso gli uomini che combattono sono spinti da ragioni nazionali e non ideologiche. Secondo le mie informazioni in questo momento l’Unione Sovietica non aiuta in nessun modo le guerriglie separatiste perché considera più importante puntellare il regime del colonnello Menghistu. Potrebbe quindi essere il momento per l’Occidente di esaminare più da vicino la situazione di questi movimenti cercando di stabilire collegamenti almeno con alcune loro componenti.
D. Vi è una resistenza nell’Etiopia propriamente detta?
R. Non esiste una resistenza di carattere militare. In Occidente, soprattutto negli Stati Uniti, è presente l’EDA, l’Associazione Democratica Etiopica, che afferma di avere contatti all’interno del paese. A me francamente sembra che — pur contando talora persone competenti e in buona fede — si tratti del solito gruppo di «esiliati di professione» che vivono di riunioni e di congressi. Vi sono certamente in Etiopia gruppi di credenti che si riuniscono, pregano, cercano di difendere la libertà religiosa e — nel caso dei copti — rifiutano di seguire i «vescovi» atei nominati dal governo. Io facevo parte appunto di uno di questi gruppi copti e per questa ragione nel 1979 sono stato arrestato. Considero un miracolo l’essere riuscito a uscire vivo dalle terribili carceri del regime comunista, l’avere potuto programmare per sei mesi la fuga ed essere riuscito a raggiungere il Sudan il 4 luglio 1980, dopo un viaggio a piedi di quattordici giorni. Nel frattempo la radio etiopica aveva già annunciato prima che ero stato arrestato e poi che ero stato ucciso mentre tentavo la fuga.
D. Che cosa può fare l’Occidente per fermare il genocidio in Etiopia?
R. Anzitutto parlarne. Ciò che mi ha più colpito, da quando mi sono stabilito negli Stati Uniti, è il tipo di informazione selettiva della grande stampa e delle reti televisive americane. Io non sono certo favorevole all’apartheid, ma non mi spiego perché cento morti in Sudafrica devono occupare sui giornali occidentali uno spazio cento volte superiore a un milione di morti in Etiopia. Non sono un esperto di problemi giornalistici occidentali: posso solo dire che vi è qualcosa che non va, e che i dossier di informazioni che la mia organizzazione propone ai maggiori media americani sono spesso minimizzati o ignorati. In secondo luogo — ma forse in primo — occorre smettere di finanziare e aiutare il governo comunista del colonnello Menghistu. Vi sono ormai prove abbondantissime — io stesso sarò lieto di fornirle a chiunque sia interessato — che gli aiuti «umanitari» contro la fame che passano attraverso il governo dell’Etiopia sono usati per altri scopi, per acquistare armi o per pagare gli interessi del debito con l’Unione Sovietica. Anche gli aiuti in natura — cibo o medicinali — non arrivano a buon fine: il regime li riserva ai militari o ne fa oggetto di un turpe mercato, vendendoli e spremendo così al popolo affamato gli ultimi poveri risparmi che qualcuno può avere conservato. Basta andare al mercato di Addis Abeba per vedere offerti in vendita i sacchi degli aiuti umanitari arrivati dall’estero. Può sembrare paradossale, ma la cosa più importante che si può fare per il popolo etiopico è smettere di aiutare il regime comunista genocida con prestiti agevolati e aiuti «umanitari». Vi è modo di aiutare i veri affamati senza passare per il governo: vi sono organizzazioni religiose che si incaricano di portare il cibo direttamente a chi ne ha bisogno. La Caritas, per esempio, fa un buon lavoro, anche se talora l’esercito arriva e sequestra tutto senza che sia possibile impedirlo. Un’organizzazione luterana è riuscita a fare arrivare gli aiuti in Sudan e a farli poi entrare in Etiopia di contrabbando, per evitare anche il saccheggio alla dogana. In ogni caso la regola dovrebbe essere questa: inviare sempre gli aiuti a organizzazioni religiose indipendenti, non mandare nulla al governo e non finanziarlo, perché si può essere certi che gli aiuti al governo non raggiungeranno gli affamati e serviranno solo a finanziare il comunismo e l’oppressione.
A cura di Massimo Introvigne